Oggi i media italiani celebrano la fusione tra Banca Intesa e San Paolo-Imi.
In pratica, Bazoli (Banca Intesa) e Salza (San Paolo-Imi) hanno dato il via
alla creazione del primo gruppo bancario italiano che, se l’operazione andrà
in porto, varrà sessantamila miliardi e avrà centomila dipendenti e 6200
sportelli, tutti al centro-nord. Sostanzialmente il gruppo Intesa-San
Paolo-Imi andrebbe a fronteggiare l’altro “gigante”, l' Unicredit.
Resterebbero fuori Capitalia, Montepaschi e altri minori (inclusa la ormai
“tigre di carta” Mediobanca-Generali). I primi due potrebbero dar vita a un
terzo gruppo (una specie di polo bancario del centro-sud). A meno che non si
giunga in seguito a una superfusione tra Unicredit e Capitalia ( e chissà
quali altre “piccole” banche…). E così avremmo un duopolio.
Non si capisce perciò la grande allegria che impazza su giornali
notoriamente iperliberisti, come il Corriere della Sera e
Repubblica. Certo, è noto, da chi siano pagati stipendi e borderò. Chi
scrive ha uso di mondo, come dicevano i nostri nonni… Pratica l’ambiente
giornalistico, e non vuole infierire ulteriormente.
Ora, ci sono tre approcci per capire la questione.
Il primo, come dire, di “cucina interna”. E consiste nel chiedersi a chi
gioverà l’operazione sul piano politico ed economico (facendo nomi e
cognomi); nell'indagare i nuovi equilibri che si determineranno, eccetera.
La riposta è presto data: il centrosinistra moderato e la finanza vicina a
Prodi e alla Margherita (è nota la vicinanza a questa parte politica di
uomini come Bazoli e Salza). Parlare della banca di Prodi è eccessivo. Ma
significa andare abbastanza vicino alla sostanza delle cose. E di Draghi:
visto che senza il placet (preventivo, al di là delle regole e regolette
ufficiali) del governatore della Banca d’Italia (nella quale non
dimentichiamo il nuovo gruppo avrà oltre il quaranta per cento delle azioni)
l’operazione non sarebbe neppure iniziata. In certo senso a Draghi viene
permesso quel che invece, all’epoca, non fu assolutamente consentito a
Fazio: “difendere l’italianità e la competitività delle banche italiane
all’estero”. Probabilmente perché Fazio era, e resta, estraneo al
centrosinistra degli affari e vicino al centrodestra e al mondo cattolico
(che irriconoscente lo “scaricò” subito...).
Il secondo, come dire, di tipo demistificatorio. E consiste nel
rimproverare, evidenziandola caso per caso, la contraddizione tra liberismo
teorico e antiliberismo pratico che caratterizza il dibattito
politico-economico italiano. Valga per tutti l’editoriale su Repubblica di
oggi, di Giuseppe Turani, dove si incensa, come segno di modernità questa
fusione perché “contribuirà a rendere i giochi più chiari e trasparenti” per
i consumatori. Ma quando mai: meno banche ci sono meno possibilità di scelta
ha il consumatore. E soprattutto più facile sono gli accordi sottobanco tra
gli oligopolisti a danno dei consumatori ( e di sempre più fittizie
Authorities…). Ma basti anche pensare alle dichiarazioni favorevoli di
Padoa-Schioppa, Montezemolo di solito iperliberisti. In realtà, come sanno
gli economisti veri (pochi in verità) il mercato in genere ha struttura
oligopolistica (più o meno flessibile, secondo il tipo di beni prodotti), e
teme sia l’eccessiva polverizzazione, sia l’eccessiva concentrazione,come
appunto sta avvenendo nel mercato bancario italiano. Le palinodie di Turani,
Padoa-Schioppa, Montezemolo e altri ancora, sono legate al fatto che il
liberismo puro, che celebrano così volentieri (a parole) non esiste di
fatto. Di qui certe pessime figure.
Il terzo approccio, è di tipo sociologico. Le macrostrutture (di ogni tipo)
“non funzionano”: sono burocratiche, antieconomiche e “autoritarie”. Certo
razionalizzano, perché riducono il numero degli attori sociali ( o dei
competitori), ma come insegna Max Weber, la razionalizzazione
“politicamente” non mai è sinonimo di “buon governo” di un gruppo sociale,
dal momento che la razionalità pura finisce per prevalere su ogni altra
considerazione di tipo morale e sociale. E attenzione: la “razionalità” che
“vince” è sempre quella ideologicamente espressa dal gruppo dirigente.
“Razionalità che difficilmente si discosta dal peso di quelli che sono gli
interessi materiali ed economici di coloro che sono nella “stanza dei
bottoni". Ad esempio, e a proposito della fusione Intesa-San Paolo,
l’integrazione prevede, come su modello tedesco, due consigli (uno di
supervisione e l’altro di gestione). Il che significa che ci si è guardati
bene, dall'imitare in toto il modello tedesco, che prevede anche la
partecipazione decisionale, all’interno dei consigli, di rappresentanti dei
lavoratori. Sotto questo aspetto, per i centomila lavoratori del futuro
gruppo si preparano giorni difficili.
Un ultimo punto. Si è pure dichiarato che con due “colossi” (Unicredit e
Intesa-San Paolo), l’Italia potrà essere più competitiva all’esterno. Per
essere competitivi serve una strategia politico-economica, che l’Italia non
ha più dai tempi di Enrico Mattei. E poi che senso può avere di fronte
all’aggressività delle banche americane e giapponesi nel mondo, un
confronto, anche duro tra le banche europee? Nessuno. Dunque, si tratta di
un’operazione, di corto respiro. Rafforza chi è già troppo forte (i Bazoli e
i Salza) e presto penalizzerà i deboli: dipendenti e consumatori.
Roba, se ci si passa l’espressione da “furbetti del quartierone”.
Carlo Gambescia
Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/
Link: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2006/08/la-fusione-intesa-san-paolo-imi-i.html
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