Sono uno degli n+k firmatari del cosiddetto
appello degli economisti, in cui, per farla breve, si esprime l’esigenza
di maggiore concorrenza e maggiore rigore fiscale.
Alberto Alesina, Roberto Perotti e Guido Tabellini (Il Sole-24Ore
del 24 giugno; d’ora in avanti APT), non dissentono da queste richieste,
ma lamentano, in quell’appello, genericità di indicazioni, che lo rendono
"poco produttivo", e pertanto mancanza di efficacia. Intendono porre rimedio
con alcune indicazioni sul versante del fisco ("Il rigore che serve"
si intitola il loro articolo; sulla concorrenza deprecano di più, ma non
aggiungono molto): a) con una spesa pubblica intorno al 48 per cento del Pil
e un cuneo fiscale sul lavoro fra i più alti del mondo, è impensabile
aumentare le tasse ("il solo metodo fin qui applicato in Italia"); b)
occorre pertanto ridurre la spesa pubblica di almeno 5 punti di Pil in pochi
anni; c) intervenendo subito sulle pensioni, sul pubblico impiego, sui
"sussidi a pioggia per il Sud e alle imprese".
Diminuire il rapporto debito/Pil
Premesso che il genere letterario dell’appello soffre sempre di
genericità (misurata forse dal numero di adesioni ottenute) e manca quasi
sempre di efficacia, vorrei esercitarmi anch’io a riempire i vuoti,
stimolato dalle censure e ancor più dalle indicazioni dei tre colleghi.
Cominciando dagli aggregati, io mi porrei come obiettivo una regolare
diminuzione del rapporto debito/Pil di un paio di punti
all’anno, la dimensione di quel rapporto essendo il nostro problema
principale. Prenderei perciò le mosse non dal 48 per cento di APT, ma dal
43,4 per cento delle spese al netto degli interessi e dal 41,7 di pressione
fiscale. Non mi lascerei consolare dalla constatazione che queste cifre non
sono fuori norma rispetto all’Europa (a non parlare dei noiosi outlier
scandinavi, di cui sempre si tace), per tre ragioni. a) Mentre la
pressione fiscale, che si era episodicamente impennata negli anni di
ingresso nell’euro, è tornata al livello del 1994 (diversamente da quanto
APT sembrano pensare), la spesa al netto degli interessi ha compiuto un
percorso inverso: calata sino al 2000, è risalita ai livelli del 1994. b) Si
è in conseguenza ridotto l’avanzo primario e si è pertanto interrotta la
riduzione del rapporto debito/Pil. c) Soffriamo di un grave problema di
crescita, che aggrava quello di finanza pubblica.
Una maggiore crescita allevierebbe l’onere che l’obiettivo di debito impone
all’avanzo primario. D’accordo con APT, indicherei in una sostanziosa
riduzione del cuneo fiscale sul lavoro (un paio di punti?) una strada
comunque opportuna. Come finanziarla? Sul versante delle entrate, lamenterei
anzitutto che si siano dedicati troppi soldi a sgravi dell’Irpef invece che
a quel fine e proporrei un rinvio sine die del "terzo modulo" della
riforma. Mi esprimerei invece a favore di un moderato aumento dell’Iva
(anche perché l’Iva colpisce le importazioni, ma non le esportazioni) e, ben
studiato e preparato, di un aumento dell’imposta sostitutiva su
interessi e dividendi (indecentemente bassa a favore dei possidentes).
Affermerei certamente che la pressione fiscale non deve essere aumentata;
destinerei anzi alla sua riduzione la riduzione della spesa per interessi
conseguente al calo del debito.
Le complicazioni della spesa
Sul versante della spesa, le cose sono forse un po’ più complicate di
quanto APT pensino, e non solo per basse ragioni politiche. La spesa per
prestazioni sociali è un po’ minore che in Europa, ma ha una composizione
anomala ed economicamente sciagurata. Al primo posto per i trattamenti
pensionistici (15,6 per cento del Pil), siamo invece all’ultimo per
trattamenti di disoccupazione e integrazione salariale (0,4) e per sostegno
alla famiglia (0,5). Un risparmio sulla spesa pensionistica, ora, lo vorrei
dedicato a un più efficace (e più costoso) sistema di sussidi di
disoccupazione (ammortizzatori sociali), anche per incoraggiare mobilità, e
di assistenza alla famiglia: le innovazioni svedesi di ausilio alle
lavoratrici madri hanno avuto, almeno in apparenza, effetti demografici di
rilievo. Un punto di riduzione sul pubblico impiego, ad aumento
dell’avanzo primario, lo si può ottenere (anche ponendo un limite alle
conseguenze della privatizzazione dei contratti dirigenziali) e qualcosa
altro sui consumi intermedi (peraltro all’incirca costanti nel decennio). I
trasferimenti correnti e in conto capitale alle imprese private
e pubbliche sono il 2,6 per cento del Pil, in calo, soprattutto
per la diminuzione degli incentivi per il Mezzogiorno. Per ridurli –
osserverei – occorrerebbe anche smetterla con la lotta all’inflazione
fatta a carico del bilancio pubblico: ad esempio, abbiamo le tariffe
ferroviarie più basse d’Europa e continuiamo a impedirne un fisiologico
aumento.
Ecco, in pillole, la mia versione integrata dell’appello. Temo di essere
stato un po’ più specifico di APT: ma almeno darò loro modo di dissentire
non solo per la genericità di enunciazione del documento, ma anche per il
merito dell’interpretazione che ne dà uno dei firmatari.
|