Sfruttati. Sottopagati. Alloggiati in luridi tuguri. Massacrati di botte se protestano. Diario di una settimana nell'inferno. Tra i braccianti stranieri nella provincia di Foggia
Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È enza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all'uomo raccontata da Alan Parker nel film 'Mississippi burning'. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l'hanno ucciso.
Adesso è la stagione dell'oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi,
come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. 'L'espresso' ha controllato decine di campi. Non ce n'è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all'Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.
Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell'Europa agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a
sinistra appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di case nell'agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d'Avorio, aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui, che dorme in una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i pomodori devono ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.
Oggi dev'essere la giornata più torrida dell'estate. Quarantadue gradi, annunciavano i titoli all'edicola della stazione. Sperduta nei campi appare nell'aria bollente una stalla abbandonata. È abitata. Sono africani. Stanno riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani.
È così anche
nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non
ha scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al mondo gli orrori dell'apartheid. "Se sei sudafricano resta pure", dice Asserid, 28 anni. È partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. È sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l'Italia. "In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa. Non avevo alternative", ammette Asserid: "Ma spero di risparmiare presto qualche soldo e di arrivare a Parigi". Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A
Parigi è atterrato in aereo, con un visto da turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l'hanno espulso come lavoratore clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell'oro rosso. "Questo è l'accampamento tuareg più a Nord della storia", ride Adama. Ma c'è poco da ridere. L'acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi buttati a terra,
devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all'inverosimile. "Davvero
questo è africano?", chiede agli altri davanti all'unico bianco.
Nessuno sa dare risposte sicure. "Io pago tre euro l'ora. Ti vanno bene? Se è così, sali", offre l'uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di schiena.
Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile
dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale
posteriore. Solo per questo trasporto di dieci minuti il caporale
incasserà quaranta euro. I ragazzi lo chiamano Giovanni. Loro hanno
già lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due ore non è una
cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché
rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo,
guardando attraverso lo specchietto retrovisore: "Io John e tu?".
Poi avverte: "John è bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo...". Non
capisce l'inglese né il francese. E questo basta a far cadere il
discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in vista sul
cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue,
rivela lo stato d'animo dei ragazzi: "Giovanni, oggi è venerdì e
non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di
pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi
sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare". I tre euro
l'ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora.
Quando risponde dice sempre: "Noi turchi". Anche se la targa della
macchina è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo
oppure ucraino. "Ti giuro su Dio", continua il caporale, "oggi
arrivano i soldi e vi paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come
te a Stornara. Non prendo in giro i miei colleghi". Giovanni abita
alla periferia. Un villino di mattoni sulla destra, a metà del
rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un'altra stalla
pericolante senz'acqua, riempita di materassi e schiavi.
La Golf stracarica corre e sbanda sulla stretta provinciale per Lavello. Il contachilometri segna 100 all'ora. Una follia. Alle
prime aziende agricole del paese, Giovanni svolta a destra dentro
una strada sterrata. Altri due chilometri e si è arrivati. Si
prosegue a piedi, in fila indiana. Il campo è tra due vigneti.
Questi pomodori vanno raccolti a mano. Quando il padrone vede
arrivare il gruppo di africani, imita il verso delle scimmie. Poi
dà gli ordini con gli insulti resi celebri dal vicepresidente del
Senato, Roberto Calderoli: "Forza bingo bongo". Nello stesso
istante un furgone scarica nove rumeni. Tra loro tre ragazze, le
uniche nella squadra. Si lavora a testa bassa. Guai ad alzare lo
sguardo: "Che cazzo c'è da guardare? Giù e raccogli", urla il
padrone avvicinandosi pericolosamente. Si chiama Leonardo, una
trentina d'anni. È pugliese. Indossa bermuda, canottiera e occhiali
da sole alla moda come se fosse appena rientrato dalla spiaggia. Da
come parla è il proprietario dell'azienda agricola. O forse è il
figlio del proprietario. Si occupa della manodopera. Una sorta di
comandante dei caporali. La sua azienda è a una decina di
chilometri, alle porte di Stornara. Proprio sulla strada che
Giovanni percorre per portare gli schiavi al campo. Leonardo si fa
aiutare da un altro italiano, il caporale dei rumeni. Uno con la
maglietta bianca, i capelli lunghi e i baffetti curati. Il terzo
italiano è probabilmente il compratore del raccolto. Magro. Capelli
biondi corti. Telefonino appeso al petto in fondo a una catena
d'oro. Parla con un forte accento napoletano. Parcheggia il suo Suv
e si fa subito sentire. Qualcuno ha appoggiato per sbaglio le
cassette piene sulle piante di pomodoro. E lui grida come un pazzo:
"Il primo che rimette una cassetta sulle piante, com'è vero Gesù
Cristo, gliela spacco sulla testa". I tre italiani sudano. Ma solo
per il caldo. Oltre a sorvegliare i loro schiavi, non fanno
assolutamente nulla.
Giovanni va a recapitare altri braccianti. Poi torna due volte con
i rifornimenti d'acqua. Quattro bottiglie di plastica da un litro e
mezzo da far bastare nelle gole di 17 persone assetate. Sono
bottiglie riempite chissà dove. Una zampilla da un buco e arriva
quasi vuota. L'acqua ha un cattivo odore. Ma almeno è fresca.
Comunque non basta. Due sorsi d'acqua in oltre quattro ore di
lavoro a quaranta gradi sotto il sole non dissetano. La maggior
parte dei ragazzi africani non ha nemmeno pranzato né fatto
colazione. Così ci si arrangia mangiando pomodori verdi di nascosto
dai caporali. Anche se sono pieni di pesticidi e veleni. E forse è
proprio per questo che sulla pelle, per giorni, non comparirà più
nemmeno una puntura di zanzara.
Leonardo vuole sapere com'è che in Africa ci siano i bianchi. Gira
tra le schiene curve come un professore tra i banchi. E dà il
permesso a Mohamed, 28 anni, un ragazzo della Guinea. Per smettere
di lavorare o parlare, qui bisogna sempre chiedere il permesso.
Mohamed sa bene perché ci sono i bianchi in Sudafrica. È laureato
in scienze politiche e relazioni internazionali all'Università di
Algeri. Parla italiano, inglese, francese e arabo. E risponde
rimanendo in ginocchio, davanti a quell'italiano che confessa senza
pudore di non aver mai sentito parlare di Nelson Mandela. "Avete
capito?", ripete dopo un po' Leonardo agli altri due italiani: "In
Italia quelli chiari stanno al Nord mentre noi al Sud siamo scuri.
In Africa invece al Sud sono bianchi e questi qua del Nord sono
neri".
L'incidente accade all'improvviso. Michele è il più anziano tra i
rumeni. Ha una sessantina d'anni, i capelli grigi. Sta caricando
cassette piene sul rimorchio del trattore. Il legno è troppo
sottile, è secco. E una cassetta si sfonda rovesciando dodici chili
di pomodori. Michele non fa in tempo ad abbassarsi a raccoglierli.
Leonardo, con la mano chiusa a pugno, lo colpisce. Una sventola
sulla testa. "Stai attento, coglione", urla, "credi che noi stiamo
ad aspettare mentre tu butti le cassette?". Michele forse chiede
scusa. È troppo stanco e offeso per parlare ad alta voce. "Scusa un
cazzo", continua Leonardo, "devi stare più attento". Ci fermiamo
tutti a guardare. Una ragazza si alza in piedi per protesta. Quello
con l'accento napoletano accorre come una furia: "Giù, non è
successo niente. Giù o stasera non si va a casa finché non si
finisce". Come se questi ragazzi avessero una casa.
Michele ritorna a caricare il rimorchio aiutato da altri
rumeni. Ma dopo mezz'ora è ancora seduto a terra. Si tiene la
testa. Perde molto sangue dal naso. Un suo compagno di lavoro
spreme un pomodoro maturo per bagnarli la fronte. Cosa ha fatto lo
spiega a Leonardo l'uomo con i baffetti curati: "Ho dovuto
spaccargli una pietra in mezzo agli occhi. Ho dovuto. Quello
stronzo se l'è presa con me perché tu prima l'hai picchiato. E poi
perché stasera non ci sono i soldi per pagarli. Ma che c'entro io?
Lui ha raccolto una pietra e io gliel'ho tolta dalle mani. Tu pensa
se un rumeno di merda mi deve minacciare". Leonardo sorride.
Si smette solo quando il sole va a nascondersi dietro i monti
Dauni. Michele sta meglio. I rumeni si raccolgono intorno al loro
caporale. Giovanni scatta una foto ai suoi ragazzi. Serve per i
pagamenti e per scoprire se qualcuno scappa dal gruppo. Poi fa
firmare il registro con le ore lavorate. Oggi si finisce prima del
solito. Il perché lo racconta il caporale ad Amadou, in macchina
durante il ritorno: "Ci sono in giro i carabinieri". Giovanni
segnala un campo di pomodori lungo la strada: "Vedi qua? Questo
pomeriggio i carabinieri sono venuti a prendere dei miei ragazzi.
Io lavoro anche qui. Africani come te e rumeni. Li hanno portati
via per il rimpatrio. Ma non avere paura, il campo dove lavorate
voi", dice indicandosi le spalle come se avesse i gradi, "è
controllato dalla mafia". Succede spesso quando è giorno di paga. A
volte sono gli stessi padroni a chiamare vigili, polizia o
carabinieri e a segnalare gli immigrati nelle campagne. Basta una
telefonata anonima. Così i caporali si tengono i loro soldi. E la
prefettura aggiorna le statistiche con le nuove espulsioni.
Amadou però fa notare che nemmeno oggi i ragazzi verranno pagati:
"Tu sei musulmano?", chiede Giovanni: "Sì? Allora io ti giuro su
Allah che la prossima settimana vi pago tutti. E se avete bisogno
di carne, ti giuro che vi invito tutti a casa mia. Ovviamente la
prossima settimana. Quando potrete pagare la carne".
Il 14 maggio 1904 qua vicino la polizia attaccò una manifestazione
di braccianti. C'era anche il giovane Giuseppe Di Vittorio.
Morirono in quattro quel giorno. Tra le vittime Antonio Morra, 14
anni, amico d'infanzia del futuro leader sindacale. Adesso le
proteste vengono spente prima che possano dilagare. I caporali
agiscono come una polizia parallela. Gli imprenditori si rivolgono
a loro se ci sono problemi. A cominciare dall'imposizione delle
regole: "Domani mattina vengo a prendervi alle cinque", annuncia
Giovanni dopo aver scaricato i suoi passeggeri. Sono quasi le dieci
di sera ormai. Calcolando una doccia improvvisata con l'acqua del
pozzo e la misera cena, restano appena cinque ore di sonno. I
ragazzi africani spiegano subito le sanzioni. Chi si presenta
tardi, una volta al campo viene punito a pugni. Chi non va a
lavorare deve versare al caporale la multa. Anche se si ammala.
Sono venti euro, praticamente un giorno di lavoro gratis.
Una cinquantina di chilometri più a nord, stesse storie. La carta
stradale indica Villaggio Amendola. Era un borgo agricolo. Ora è
solo un paese fantasma riempito da immigrati rumeni e bulgari
ridotti in schiavitù. Come l'ex zuccherificio di Rignano o il
Ghetto che la sera, al suono della township music, sembra Soweto.
Al Villaggio Amendola perfino la chiesa abbandonata è stata
riempita di materassi. Qui il cento per cento degli abitanti non è
italiano. Tutti raccoglitori. E tutti stranieri. Tranne una.
Giuseppina Lombardo, 51 anni. Viene dalla Calabria. Per gli
agricoltori del posto è una santa donna. Lei e il suo amico
tunisino che si fa chiamare Asis sono capaci di mettere insieme una
squadra di raccoglitori di pomodori in meno di mezz'ora. Giuseppina
e Asis con gli schiavi ci campano. L'unico pozzo di Villaggio
Amendola è loro. L'acqua è inquinata ma la vendono ugualmente:
cinquanta centesimi una tanica da 20 litri. Anche l'unico negozio
del borgo è loro. Hanno bottiglie di minerale, se uno proprio non
vuole perdere la giornata per la dissenteria. E hanno carne e
pollame: "A prezzi maggiorati del cento per cento e di dubbia
qualità", dicono gli abitanti. Non è facile infiltrarsi come
immigrato in questo ghetto e vincere la paura dei suoi prigionieri.
Perché Asis, come tutti i caporali, non perdona chi parla. Lui e la
sua compagna qui sono l'unica legge. Chi c'era si ricorda bene cosa
è successo la settimana di Pasqua del 2005. Quel pomeriggio un
ragazzo rumeno, 22 anni, arrivato da appena quattro giorni, torna
al Villaggio Amendola con i sacchetti della spesa. È stato a Foggia
e cammina davanti al negozio del caporale con quello che si è
procurato. Una bottiglia d'olio, un po' di pasta. Il testimone che
parla con 'L'espresso' è convinto che Asis abbia considerato quel
gesto una ribellione al suo controllo. I rumeni raccontano di aver
visto poco dopo due uomini affrontare il nuovo arrivato. Uno,
secondo i testimoni, è parente di Asis. Con una spranga lo centrano
in mezzo alla testa. Un colpo solo. Poi trascinano il corpo
sanguinante e semisvenuto su un furgone. Nessuno al villaggio
rivedrà più quel ragazzo.
Lo stesso accade il 20 luglio di quest'anno. Il giorno prima Pavel,
39 anni, ha una discussione con Giuseppina Lombardo. Gli sono
caduti quindici euro nel negozio e lei crede che glieli abbia
rubati dalla cassa. Pavel in Romania faceva il cuoco per 150 euro
al mese. Dal 20 marzo 2004, quando è arrivato in Puglia, sopporta
violenze e angherie. Lo fa per mandare quanto risparmia alla moglie
e alla sua "fata", la figlia studentessa, che ha 15 anni. Pavel ha
braccia veloci. L'anno scorso è riuscito a riempire fino a 15
cassoni al giorno: 45 quintali di pomodori, lavorando dall'alba a
notte. Con il cottimo a 3 euro a cassone, era una buona paga
secondo lui: tolti il trasporto al campo e la tangente per il
caporale, Pavel riusciva a guadagnare anche 25 o 30 euro al giorno.
Ma il 20 luglio Asis gli impedisce di ripetere il record. Qualcuno
gli ha riferito che Pavel ha protestato per la faccenda dei soldi e
per lo sfruttamento dei braccianti. Il tunisino lo colpisce nel
sonno, in una giornata senza lavoro, alle due del pomeriggio. Pavel
si protegge la testa con le braccia. La sbarra di ferro gli rompe
le ossa e apre profonde ferite nella carne.
Lui è sicuro di non essere stato ucciso soltanto per l'intervento
dei suoi compagni di stanza. Ma lo lasciano lì a sanguinare sul
materasso fino all'una di notte. Gli altri stranieri hanno troppa
paura di Asis. Anche di chiamare la polizia e correre il rischio di
essere rimpatriati. Alle otto di sera qualcuno finalmente telefona
di nascosto all'ospedale. L'ambulanza e una pattuglia dei
carabinieri, al Villaggio Amendola, arrivano soltanto cinque ore
dopo. Così è andata, secondo la denuncia.
Il 31 luglio Pavel viene dimesso dall'ospedale di Foggia. È stato
operato da appena quattro giorni. Ha quasi due mesi di prognosi.
Ferri e chiodi nelle ossa. Le braccia ingessate. Medici e
infermieri lo consegnano alla polizia, violando il codice
deontologico. E in questura lo trattano da clandestino. Anche se
dal primo gennaio 2007 tutti i rumeni potrebbero essere cittadini
dell'Unione europea. Con le braccia immobilizzate, Pavel non riesce
a impugnare la penna. Il 'Primo dirigente dottoressa Piera
Romagnosi', siglando la notifica del decreto di espulsione, scrive
che lui 'si rifiuta di firmare'. Anche la prefettura di Foggia va
per le spicce: nel decreto di espulsione annota che Pavel è
'sprovvisto di passaporto'. Un'aggravante. Eppure Pavel il
passaporto ce l'ha. Alla fine, non trovando alternative, un
ispettore gli dona dieci euro. E una macchina della questura lo
riporta al Villaggio Amendola. Lo scaricano davanti al negozio di
Giuseppina e Asis. Il tunisino se ne occupa subito. Vuole
dimostrare a tutti chi comanda. Minaccia Pavel e lui va a
rifugiarsi in un casolare a un chilometro dal villaggio. Qualche
connazionale gli porta in segreto un po' di pane e da bere. Dopo
nove giorni di dolori e sofferenze un amico rumeno riesce a
contattare un avvocato di Foggia, Nicola D'Altilia, ex poliziotto
al Nord. L'avvocato trova il casolare. Incontra Pavel e lo riporta
immediatamente in ospedale. Le ferite sono infette. Il bracciante
rumeno è grave. Denutrito. Viene ricoverato per setticemia. Il
resto è cronaca degli ultimi giorni. Il 21 agosto Pavel è di nuovo
dimesso dall'ospedale. Va in questura a completare la denuncia
contro il caporale tunisino e la sua complice italiana, che era
riuscito a presentare al posto di polizia del pronto soccorso
soltanto il 14 agosto. Lo accompagna l'avvocato che l'ha salvato.
Ma dopo una giornata in questura, la Procura fa arrestare Pavel
come immigrato clandestino: non ha rispettato il decreto di
espulsione che, così è scritto, lo obbligava a lasciare l'Italia
dall'aeroporto di Roma Fiumicino. Non importa se in quelle
condizioni comunque non avrebbe potuto viaggiare. Lo costringono a
dormire su una panca di legno nelle camere di sicurezza. Nonostante
le operazioni, le ossa rotte e le ferite ancora fresche.
Il giorno dopo si apre il processo, immediatamente rinviato a
ottobre. Oltre ad aver perso il lavoro, grazie alla legge
Bossi-Fini Pavel rischia da uno a quattro anni di prigione. Più di
quanto potrebbe prendersi il suo caporale che intanto resta libero.
"Quell'uomo", racconta Pavel terrorizzato, "mirava alla testa.
Voleva uccidermi".
Qualche bracciante morto da queste parti l'hanno già trovato.
Slavomit R., polacco, aveva 44 anni quando è stato bruciato il 2
luglio 2005 in un campo a Stornara. Un caso irrisolto. Come quello
di due cadaveri mai identificati abbandonati a Foggia. Le scomparse
sono un altro capitolo dell'orrore. Nessuno sa quanti siano i
lavoratori rumeni, bulgari o africani spariti. I caporali, quando
li ingaggiano o li massacrano di botte, non sanno nemmeno come si
chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce
dell'ambasciata di Polonia. Hanno dovuto insistere i diplomatici di
Varsavia. È dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali.
Erano venuti a lavorare come stagionali nel triangolo degli
schiavi. E non sono più tornati a casa. L'elenco compilato in
agosto dal consolato sulle ricerche delle persone scomparse non
rende onore all'Italia. Su dodici "richieste indirizzate alla
questura di Foggia", l'ambasciata ha dovuto prendere atto che per
nove casi non c'è stata "nessuna risposta da parte della questura".
Dopo mesi di inutile attesa l'appello è stato girato al Comando
generale dei carabinieri. E, attraverso gli investigatori del Ros,
la Procura antimafia di Bari ha finalmente aperto un'inchiesta.
Nessuno sta invece indagando sulla morte di un bambino. Perché
quello che è successo apparentemente non è reato. Il piccolo
sarebbe nato a fine settembre. Liliana D., 20 anni, quasi
all'ottavo mese di gravidanza, la settimana di Ferragosto arranca
con il suo pancione tra piante di pomodoro. La fanno lavorare in un
campo vicino a San Severo. Né il marito, né il caporale, né il
padrone italiano pensano a proteggerla dal sole e dalla fatica.
Quando Liliana sta male, è troppo tardi. Ha un'emorragia. Resta due
giorni senza cure nel rudere in cui abita. Gli schiavi della
provincia di Foggia non hanno il medico di famiglia. Sabato 18
agosto, di pomeriggio, il marito la porta all'ospedale a San
Severo. La ragazza rischia di morire. Viene ricoverata in
rianimazione. Il bimbo lo fanno nascere con il taglio cesareo. Ma i
medici già hanno sentito che il suo cuore non batte più. Anche lui
vittima collaterale. Di questa corsa disumana che premia chi più
taglia i costi di produzione.
L'industria alimentare campana paga i pomodori pugliesi da 4 a 5
centesimi al chilo. Sulle bancarelle lungo le strade di Foggia i
perini salgono già a 60 centesimi al chilo. A Milano 1,20 euro
quelli maturi da salsa e 2,80 euro al chilo quelli ancora dorati.
Al supermercato la passata prodotta in Campania costa da 86
centesimi a 1,91 euro al chilo. I pelati da 1,04 a 3 euro al chilo.
Eppure, nel ghetto di Stornara, nemmeno stasera che il mese è quasi
finito ci sono i soldi per comprare un pezzo di carne. "Donald, non
te ne andare", si fa avanti Amadou, "Giovanni è molto arrabbiato
con te perché hai lasciato il gruppo. Ti sta cercando, vado a
dirgli che sei qui". Nel fondo di questa miseria, Amadou sa già con
chi stare. Tra tanti uomini costretti a inginocchiarsi, lui ha
scelto i caporali. È il momento di prendere la bici e scappare. Nel
buio. Prima che Giovanni decida di chiamare i suoi sgherri. E di
dare il via alla caccia nei campi.
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I MEDICI ACCUSANO: ARRIVANO SANI E SI AMMALANO QUI
Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite per le pessime condizioni dell'acqua. Ma anche quest'anno, l'Asl Foggia 3 ha rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell'associazione francese Medici senza frontiere che invece ha ottenuto la collaborazione dell'Asl Foggia 2 per l'assistenza sanitaria e umanitaria nel Sud della provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di guerra. Ci sono un medico, un'assistente sociale e un coordinatore: quest'anno Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. "Per il terzo anno consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto", spiega Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: "E ancora una volta nell'estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai sindacati".
Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto 'I frutti dell'ipocrisia' sulle drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24 mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell'agricoltura vive in edifici abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche forma di abuso, violenza o maltrattamento negli ultimi sei mesi. E nell'82,5 per cento dei casi l'aggressore era un italiano.
PADRONI SENZA LEGGE
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori dell'agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l'ora (ai quali però vanno tolti tutti i 'servizi' per il caporale). Anche per questo gli italiani sono scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli agricoltori interpellati da 'L'espresso' dice di pagare i braccianti da 4 a 4,50 euro l'ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l'ora più i contributi, se in regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l'ora se ingaggiato in nero.
La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo dell'8,54% che il bracciante deve dare all'Inps è rimasto inalterato. I controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell'ultimo anno in provincia di Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per sfruttamento dell'immigrazione clandestina.
REPORTAGE FOTOGRAFICO
IO TRA GLI SCHIAVI
http://espresso.repubblica.it/multimedia/389758
LA RACCOLTA
http://espresso.repubblica.it/multimedia/389694
VITA IN UNA STALLA
http://espresso.repubblica.it/multimedia/389659
IL GHETTO RUMENO
http://espresso.repubblica.it/multimedia/389727
Fabrizio Gatti<br>
Fonte:
http://espresso.repubblica.it<br>
Link:
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Io%20schiavo%20in%20Puglia/1370307//0<br>
L'Espresso, Numero 35, Venerdì 1 settembre 2006
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