Un’interruzione di gravidanza a sette settimane,
poi un mese dopo scopre di essere ancora incinta e decide di tenere il
bambino. Dopo l’altro caso di qualche giorno fa, si riapre il confronto
intorno alle norme di legge.
Pensava di aver
abortito ma un mese dopo ha scoperto di avere il feto ancora in grembo,
vivo e vitale. E’ la storia di un aborto fallito quella avvenuta
all’ospedale del Ceppo di Pistoia. La donna, 30 anni, sposata con un
operaio edile e già madre di due figli piccoli, aveva deciso di
interrompere la terza gravidanza per ragioni economiche. Secondo una
prima ricostruzione, dopo l' iter previsto dalla legge 194, il 7
febbraio scorso e' andata all'ospedale di Pistoia per l'interruzione
volontaria di gravidanza. E' stata sottoposta ad intervento sotto
anestesia generale e mediante aspirazione. Contemporaneamente, le è
stata applicata la spirale, così come proposto dal medico e accettato
dalla signora. Qualche giorno fa, a causa di forti dolori addominali, la
donna si è presentata al pronto soccorso dove è stata sottoposta a
ecografia. L' esame strumentale ha accertato che il
feto di 16 settimane era vivo. Adesso, come ha fatto sapere il legale
della donna, l'avvocato Elena Baldi, la madre vorrebbe tenere il bambino
(“L’altro mio figlio ha già dato il nome al bambino: come potrei
abortire?”) e, a questo proposito si sottoporrà presto ad una ecografia
e a un duo-test, da un medico ginecologo di fiducia, per chiarire le
condizioni del feto e per sapere se la gravidanza potrà essere portata a
termine.
Potrebbero anche partire un esposto e una denuncia-querela, ''azioni
legali - ha specificato l'avvocato - che verranno esercitate sia in sede
penale che in sede civile. In sostanza la richiesta di un risarcimento
per il mancato aborto. Con pronta la replica della direzione aziendale
della Asl 3 di Pistoia, secondo la quale ''non si può certo dichiarare
di trovarsi di fronte alla cosiddetta malasanità, ma solo in presenza di
uno degli eventi possibili”, anche perchè “come è noto, le Ivg
chirurgiche eseguite entro 90 giorni di amenorrea comportano un rischio
di insuccesso del 2,3 per mille, che è ancora piu' elevato se
l'interruzione viene praticata in epoca precoce, quando invece sono
minori i rischi di complicanze per la donna”.
La vicenda, legata al recente caso del bambino nato vivo in seguito ad
un aborto terapeutico e poi morto dopo sette giorni, riporta
l’attenzione sulla legge 194, nuovamente oggetto di dichiarazioni
politiche. La normativa è difesa dalla maggioranza, ma una riflessione
ed un confronto con il mondo scientifico sulla sopravvivenza dei feti è
ormai aperto. Ieri il ministro della Salute, Livia Turco, rispondendo
alla Camera ad un question time su quanto avvenuto all'ospedale Careggi
di Firenze ha ricordato che “non esiste alcun limite temporale per
l'interruzione volontaria della gravidanza a 24 settimane”, pur
riconoscendo la necessità di una riflessione. In realtà, se corrisponde
al vero che la 194 non fissa alcun limite temporale, è altrettanto vero
che la normativa prevede che laddove sussista possibilità di vita
autonoma del feto, quest’ultimo debba sempre essere assistito. E a 24
settimane la possibilità di vita autonoma è un fatto, e casi singoli
hanno dimostrato come lo sia ormai anche 22 settimane. E infatti uno dei
presentatori dell'interrogazione, il deputato di An, Riccardo Pedrizzi,
le ha replicando proponendo un limite di 20 settimane all'interruzione
volontaria della gravidanza. ''Il 70% dei bambini nati a 24 settimane
sopravvive - ha detto Pedrizzi - faccia lei, in attesa delle indicazioni
dei medici, una circolare per fissare il limite a 20 settimane”.
Proposta rispedita al mittente da molti esponenti della maggioranza, al
grido di “La legge 194 non si tocca”. Originale...
Il dibattito era stato alimentato nella giornata anche dai commenti di
Umberto Veronesi che aveva indicato la necessità di limitare a 22
settimane il ricorso all'aborto terapeutico. “Voglio sottolineare che
non possiamo nascondere che la scienza ha fatto enormi progressi e passi
avanti fino ad oggi, permettendo a bambini di poche settimane di
sopravvivere in seguito ad un parto prematuro” ha detto Ignazio Marino,
presidente della Commissione igiene e sanità. “E' chiaro, io credo -
continua Marino - che i nostri comportamenti e le nostre leggi devono
necessariamente tener conto dei progressi della scienza e della
tecnologia. Per quanto riguarda poi il suggerimento di Veronesi di
rendere lecita la diagnosi preimpianto - per la quale Veronesi propone
la reintroduzione - proibita oggi dalla legge 40, posso solo dire che
questa legge presenta, come ho avuto modo di sottolineare diverse volte,
caratteri antiscientifici e alcune profonde contraddizioni''. ''La
legge, infatti - conclude il senatore Ds - mentre proibisce la diagnosi
preimpianto e rende obbligatorio l'impianto degli embrioni fecondati
nella paziente, allo stesso tempo, non potendo obbligare coercitivamente
la donna, consente alla stessa di abortire una volta effettuate le
diagnosi prenatali nel caso si riscontrassero eventuali malformazioni
del feto”.
Considerazioni, queste di Marino, che riportano ai confronti e alle
discussioni di due anni fa, quando di diagnosi preimpianto e presunte
contraddizioni della legge 40 erano piene le pagine dei giornali in
piena campagna referendaria. La prova, in ogni caso, che anche di
fecondazione artificiale si tornerà prima o poi a parlare. Anche se mai
come oggi una reale modifica della legge appare del tutto improbabile.
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