Il Rwanda abolisce la pena capitale e commuta le
sentenze di morte in ergastoli: una decisione con precise motivazioni di
politica interna. Nel nostro paese la si collega al dibattito sulla
moratoria: collegamento corretto, purché sia chiaro che…
E’ un altro caso
di notizia decontestualizzata, o meglio presentata e spiegata
esclusivamente lungo i binari del dibattito politico italiano: una
cattiva abitudine che ritroviamo troppo spesso in questo nostro paese e
che non permette di cogliere nella loro complessità reale le vicende che
si svolgono oltre e al di là del parlare e del vociare della politica
italiana. La notizia in questione è l’abolizione della pena di morte in
Rwanda, il paese delle mille colline nel cuore dell’Africa dei Grandi
Laghi: una decisione particolarmente significativa che giunge nel mezzo
dei lavori che Italia e Germania stanno svolgendo su incarico
dell’Unione Europea circa la preparazione del testo di una risoluzione
pro-moratoria della pena capitale da presentare all’Assemblea generale
delle Nazioni Unite.
Si tratta senza dubbio di un segnale incoraggiante, che nel nostro paese
è stato salutato con soddisfazione soprattutto dai rappresentanti di
Nessuno tocchi Caino, l’associazione radicale che da anni sostiene la
necessità di una immediata presentazione da parte dell’Unione Europea di
una risoluzione in ambito Onu: una eventualità che – viste le bocciature
rimediate in passato su testi simili – i paesi europei hanno finora
scelto di rimandare. Impegnati nell’ennesima dimostrazione di protesta
davanti alla Rai con tanto di sciopero della fame e della sete, i
militanti radicali chiedono che sul tema della pena di morte il servizio
pubblico radiotelevisivo compia uno sforzo informativo che finora non si
sarebbe visto e intanto descrivono la decisione ruandese come un segnale
eccezionale che conferma la certezza di una maggioranza assoluta alla
Assemblea generale dell’Onu. Un segnale ancor più significativo se si
ricorda che nella sua storia recente – afferma Nessuno tocchi Caino - il
paese “ha conosciuto le più gravi violazioni al diritto umanitario
internazionale: genocidi, mutilazioni e stupri di massa, esecuzioni
sommarie, deportazioni”.
Certamente vero. Altrettanto vero è che la decisione del Rwanda ha poco
a che vedere con le decisioni che saranno assunte in sede Onu, poiché
discende anzitutto da una chiara necessità politica del governo del
presidente Paul Kagame, alla guida del paese da ormai tredici anni, cioè
dalla conclusione del genocidio della primavera del 1994 durante il
quale sulle mille colline morirono oltre 800mila persone. La riforma
della giustizia ruandese, alle prese da allora con una quantità
inimmaginabile di procedimenti, sancisce un passaggio chiave nel Rwanda
del dopo-genocidio, perché avvicina il ritorno in patria dei
responsabili della carneficina del ’94 e di tutte quelle persone che
parteciparono alla mattanza, e che lasciarono il paese per non farvi
fino ad ora ritorno. Sono centinaia i condannati alla pena di morte, e
per essi è stata prevista ora la commutazione in ergastolo: una scelta
peraltro avversata dalla gran parte dei sopravvissuti e delle loro
associazioni.
Delicati equilibri di politica interna spingono dunque il presidente
Kagame ad abolire la pena di morte. E’ certamente una buona notizia, ma
non se ne dovrebbero trarre, forse, conseguenze a livello planetario: la
battaglia per la moratoria internazionale resta una partita difficile da
combattere. Ma che certamente, comunque, va combattuta.
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