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11/01/2007 Storia del voto alle donne in Italia (Barbara Marino, http://www.korazym.org)

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  • Emancipazione femminile - che cosa è, e voto alle donne


  • Il volume di Giulia Galeotti edito da Biblink verrà presentato lunedì 15 gennaio presso il Palazzo del Seminario a Roma, alla presenza del presidente della Camera dei Deputati. Uno studio che va alle radici di un difficile rapporto tra donne e politica.

    Il  Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea della Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università di Roma "La Sapienza", diretto da Maria Antonietta Visceglia, ha promosso una presentazione del volume di Giulia Galeotti Storia del voto alle donne in Italia. Alle radici di un difficile rapporto tra donne e politica, che avrà luogo lunedì 15 gennaio 2007 alle ore 16 (ingresso sino alle 15.45) nella sala del Refettorio di Palazzo del Seminario (via del Seminario 76 a Roma). È necessario comunicare la partecipazione al cellulare 339 4912450. Interverranno Anna Finocchiaro, Rosa Iervolino Russo, Adriana Poli Bortone e Giovanni Sabbatucci. Modera Lucetta Scaraffia. Sarà presente il presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti.

    La strada che portò al voto alle donne è una vicenda di lotta e sofferenza, di ostinazione ottusa e caparbia determinazione "che ha condotto le italiane da soggetti esclusi dall’agorà a cittadine". Il voto alle donne non ha riguardato solo l’ambito politico, ma ha avuto a che fare con una mentalità radicata nei secoli che ha visto la contrapposizione tra uomo/pubblico e donna/privato. Una specie di ghettizzazione delle donne "incompatibili per la natura muliebre votata alla casa e alla famiglia", che rappresentò un escamotage per entrare ma che successivamente (e ancora oggi ne risentiamo) ha rallentato la possibilità di affrancarsi dallo stereotipo secondo il quale le donne rappresentano solo se stesse mentre gli uomini rappresentano tutti.

    Il volume di Giulia Galeotti Storia del voto alle donne in Italia. Alle radici di un difficile rapporto tra donne e politica (Roma, Biblink editori, 2006, pp. 317, volume rilegato Euro 24,00 e file PDF Euro 12,00), basata su una ricchissima mole di fonti inedite, è la ricostruzione completa delle vicende che - a partire dall’Unità d’Italia - hanno messo fine all'esclusione politica delle donne, riconoscendole cittadine. Una storia delle ragioni e degli argomenti di chi invoca diritti e di chi vi si oppone, analizzata per analogie e differenze con le lotte di altri Paesi.

    Accanto alla dimensione politica e istituzionale, lo studio mostra come la conquista del voto abbia coinvolto il vissuto quotidiano della società del tempo: un insieme di emozioni, vicende e personaggi la cui voce non va dimenticata, per non ricadere in nuove sordità. Emergono così le implicazioni di lungo periodo di lotte e contraddizioni non superate, che si riverberano tuttora nella vita politica italiana.

    Il lungo saggio è diviso in due parti: l’accidentato percorso di emancipazione femminile dall’Unità d’Italia al fascismo e poi dalla Resistenza all’Assemblea costituente. Ma sarà solo la partecipazione delle donne alla lotta partigiana a dare la spinta per l’attuazione del decreto Bonomi che decise il voto alle donne.

    Indice

    Introduzione: Tutta colpa d’una scelta sbagliata?

    Parte I. Dall’Unità al fascismo: il non expedit maschile verso le donne
    1: La sconfitta di Atena
    Diritti civili e diritti politici - Il voto amministrativo concesso ad alcune - Il voto politico negato a tutte - Separate dalla nascita: l’elettrice e l’eletta2. Elettrici perché madri
    L’internazionale suffragista - «Le suffragette viste in casa loro»: chi sono le italiane - Gli argomenti per il voto - La pratica: un’azione «seria e dignitosa»
    3. Tanti nemici e pochi alleati: le risposte degli uomini
    I contrari: «deficienza d’attitudine» - I favorevoli: «non vi saranno motivi per negarglielo, ma ragioni anzi positive per concederglielo» - I giudici e il prezzo del voto alle donne

    Parte II. Il biennio rosa 1945-1946: tante elettrici e poche elette
    4. Il Decreto Bonomi 
    La Resistenza - Tempi di grande fermento - Il Consiglio dei Ministri del 30 gennaio: elettrici (senza alcune prostitute) - Quote e Consulta
    5. Le amministrative della primavera 1946
    Il completamento della cittadinanza: anche eleggibili - Finalmente l’8 marzo - I preparativi - Una nuova figura nell’immaginario collettivo
    6. Il 2 giugno 1946
    La campagna elettorale - Il gran giorno delle (89%) elettrici - I risultati: 14 milioni di accusate e 21 elette - Le Costituenti, madri di uguaglianza

    Conclusioni. 1946-2006: ancora il problema delle quote?

    Indice dei nomi

    Gli interventi di Barbara Pollastrini e Giuliano Amato sul Corriere della Sera

    Riportiamo due interventi, che sono senza dubbio segnali positivi della volontà politica di risolvere con competenza e coraggio il gap ancora pesante nel nostro Paese tra mondo maschile e femminile. Ottima occasione per riaprire il dibattito è stato l’articolo di Giovanni Belardelli sul libro di Giulia Galeotti Storia del voto alle donne in Italia che risolleva l’annosa questione della scarsa presenza delle donne italiane nelle istituzioni politiche.

    La tesi centrale del libro, come già anche il ministro Amato ha sottolineato, enfatizza una con-causa, ossia i tempi accelerati dell’acquisizione del diritto di eleggere e di essere elette da parte delle italiane, ottenuti d’un sol colpo e in fretta nel 1946 quando gli italiani e le italiane furono chiamati a pronunciarsi sul referendum monarchia-repubblica.

    Se però gettiamo uno sguardo comparato sull’Europa, notiamo che, ad eccezione del Nord e della Gran Bretagna, le donne di altri paesi, come ad esempio il Belgio e la Francia, hanno ottenuto nello stesso periodo, rispettivamente nel ’48 e nel ’44, il diritto di voto. Eppure là le percentuali di rappresentanza politica delle donne sono ben più alte che in Italia. Inoltre la partecipazione delle donne italiane alla politica, inizialmente molto alta, è andata decrescendo negli anni e i dati sull’astensione femminile sono in aumento.

    Quindi, senza togliere nulla allo studio approfondito in questione, sposterei l’accento sul fatto che non c’è stato in Italia un movimento suffragista che abbia lottato per ottenere i diritti politici, ciò che invece è accaduto negli altri paesi. In Italia l’assenza storica di un movimento unitario femminil/femminista che si mobilita periodicamente sui temi della parità e del diritto all’eguaglianza di genere, si traduce nel silenzio della maggior parte delle rappresentanti dell’associazionismo femminile su questioni importanti che riguardano anche i diritti di donne appartenenti a culture e religioni diverse.

    Questo vuoto imbarazzante non può certo contribuire ad elevare i toni di un dibattito pubblico sempre più necessario né a stimolare gli intellettuali ad intervenire.

    Oggi si sta di nuovo riproducendo la stessa situazione di sessant’anni fa, quando fu il legislatore a decidere per le donne. Come allora, è necessario ancora una volta demandare al legislatore il compito di decidere per noi tutte? Senza dover ricorrere alle "quote", ci sarebbero da percorrere altre strade di rinnovamneto della politica, come ad esempio la modifica del sistema elettorale e l’imposizione ai partiti politici di regole per selezionare le candidature.

    Tutto il Paese ne trarrebbe vantaggio.

    Ma occorre parlare di ciò con serietà e competenza creando occasioni di incontro.

    Società. Una nuova spiegazione della scarsa presenza femminile nel Parlamento
    Politica, non è il maschilismo a frenare le italiane
    Alle origini del disimpegno: le conquiste furono troppo improvvise
    di Giovanni Belardelli
    Corriere della Sera, 24 ottobre 2006

    Siamo abituati a pensare che se le donne sono assai poco presenti nel Parlamento italiano, ciò avvenga anzitutto a causa delle resistenze e dei pregiudizi maschili. Pur senza negare il peso delle une e degli altri è chiaro che si tratta di una spiegazione insufficiente, visto che da 60 anni le donne, esercitando il diritto di voto, condividono con gli uomini la responsabilità di inviare alle Camere un’esigua rappresentanza femminile.

    Ora il libro di una giovane ricercatrice Giulia Galeotti (Storia del voto alle donne in Italia, Biblink editori, pp. 318, Euro 24), ricostruendo la storia delle battaglie che hanno portato al suffragio femminile fornisce una spiegazione piuttosto originale di questo fenomeno.
    Ad ostacolare la presenza in politica delle donne italiane, osserva l’autrice, sono state in fondo le modalità stesse con cui il voto venne concesso, cioè tutto in una volta nel 1946.

    In molti altri Paesi l’estensione del suffragio aveva rappresentato un processo graduale: sia perché il voto politico era stato concesso dapprima a un numero limitato di donne e solo successivamente (spesso dopo molti anni) a tutte; sia perché il voto amministrativo era stato introdotto anteriormente al voto politico In casi del genere perciò l’insieme della società aveva avuto tempo e modo di abituarsi gradualmente alla presenza in politica delle donne sia come elettrici che come elette (un diritto quello all’elettorato passivo che venne generalmente ottenuto dopo l’elettorato attivo).

    La Galeotti fornisce una serie numerosa di esempi di questo processo di graduale estensione del diritto di voto, a cominciare dal fenomeno per cui, nelle elezioni locali, il voto alle donne inizialmente veniva limitato non solo in / relazione al censo (cioè alle imposte pagate), ma anche allo stato civile. Nel senso che le donne nubili o vedove votavano e quelle sposate no; questo ad esempio è ciò che disponeva una legge del 1869 in Inghilterra dove le coniugate avrebbero ottenuto un analogo diritto solo 25 anni dopo. Questa apparentemente curiosissima distinzione aveva una sua ragion d’essere nel fatto che il diritto di voto si fondava sulla proprietà; perciò le donne sposate, essendo soggette alla tutela maritale (e dunque trovandosi ad essere giuridicamente rappresentate dal coniuge) potevano venire private di un diritto concesso invece alle nubili.
    Proprio il fatto che il diritto di voto venisse concesso in molti Paesi (ma non in Italia) per tappe successive e attraverso un processo lungo permise appunto di attutire i contraccolpi di una novità che appariva, agli uomini ma anche a molte donne, sconvolgente. Il libro fornisce un ricco inventario di pregiudizi e paure legate alla presenza femminile in politica: dall’idea che fosse sommamente sconveniente una presenza di uomini e donne nello stesso seggio elettorale (vi fu perfino chi propose di separare i luoghi della votazione per sesso) al timore che la presenza delle donne in Parlamento facesse tutt’uno con il crollo dei vincoli sociali e dei valori morali tradizionali.

    In Italia, dunque, il fatto stesso che le donne ottenessero, senza nessuna gradualità, il voto sia politico sia amministrativo doveva contribuire invece a rendere più difficile il superamento degli antichi pregiudizi ostili. Ovviamente, nel 1946, non sarebbe stato neppure pensabile concedere il voto altrimenti che a tutte le donne simultaneamente; ma, appunto, questo fatto produsse, in una società come quella italiana, conseguenze che si fanno sentire ancor oggi.

    Conseguenze riassumibili nell’idea che, mentre gli uomini in Parlamento rappresentano tutti i cittadini, le donne invece «sono ancora percepite come portavoce del loro sesso, piuttosto che come espressione degli interessi generali quali sono rappresentati dai rispettivi partiti politici». Insomma, nel nostro immaginario collettivo le donne rappresentano soprattutto le donne.

    Un’idea ben testimoniata dal fatto che generalmente sono ministeri di ambito sociale-familiare-educativo quelli assegnati a donne: dalla prima donna ministro Tina Anselmi, incaricata del Lavoro e della Previdenza sociale nel 1976, fino alle titolari di dicasteri nel governo attuale. Le eccezioni alla regola non scritta che prevede per le donne incarichi politici che la nostra cultura percepisce come femminili sono pochissime: la Galeotti cita Nilde Iotti presidente della Camera dei deputati, Susanna Agnelli agli Esteri, Rosa Russo Iervolino all’Interno. Ma andrebbero almeno aggiunte Irene Pivetti, che dal 1994 al 1996 fu il più giovane presidente della Camera, ed Emma Bonino nel governo attuale.

    L’interpretazione fornita dalla Galeotti, soprattutto se non la consideriamo come una spiegazione esclusiva, appare nel complesso convincente. In ogni caso, ha il merito di cercare di superare le spiegazioni un po’ ovvie che evocano il tradizionale maschilismo delle società mediterranee e che oggi, davvero, possono spiegare ben poco. Basti ricordare che l’attuale governo spagnolo è composto per metà da donne e che la Turchia ha avuto per la prima volta a capo del governo una donna, Tansu Ciller, ormai tredici anni fa.

    Donne e voto
    Separati al seggio. Cambierò la legge
    di Giuliano Amato
    Corriere della Sera, 26 ottobre 2006

    Caro Direttore,
    ho letto con grande interesse l’articolo-recensione che Giovanni Belardelli ha dedicato sul Corriere di martedì 24 ottobre al libro di Giulia Galeotti Storia del voto alle donne in Italia. È un articolo bello e limpido, ma l’interesse, ovviamente, nasce in primo luogo dal libro e dalla sua tesi centrale.

    In altri paesi - sostiene la Galeotti - il voto alle donne fu parte di un processo graduale, che accompagnò la loro progressiva uscita dalle mura domestiche, mentre da noi arrivò invece in modo subitaneo e per ciò stesso «sconvolgente». Se ancora oggi nella stessa vita pubblica si assegnano alle donne i ruoli più vicini a quello atavico di madre e di educatrice dei figli, lo si deve alla difficoltà con cui la novità, così rapida, è stata digerita dal Paese.

    Scrive giustamente Belardelli che la tesi, se non la si prende come spiegazione unica, è persuasiva ed è convalidata proprio dal perdurare, neppure sotterraneo, di diffidenze e resistenze verso l’accesso femminile a ruoli e posizioni che si continua a ritenere maschili. Una rimanenza di questo passato, di cui non so se Belardelli e la stessa autrice sono consapevoli, riguarda un profilo che io ho sott’occhio in questo giorni e che, a quanto capisco dall’articolo, essi sembrano ritenere esaurito nello stesso passato.

    Fra i pregiudizi e le paure legate un secolo fa alla presenza femminile in politica viene citata l’idea che «fosse estremamente sconveniente una presenza di uomini e donne nello stesso seggio elettorale (vi fu persino chi propose di separare i luoghi della votazione per sesso)».

    Ebbene quell’idea è ancora viva e informa ancora oggi la nostra legislazione elettorale. L’art. 42 del testo unico del 1957 sulle elezioni per la Camera dei Deputati, un articolo modificato più volte nel corso degli anni (l’ultima volta nel 2005), continua ciò nondimeno a recitare nel suo comma uno: «La sala delle elezioni deve avere una sola porta d’ingresso aperta al pubblico, salva la possibilità di assicurare un accesso separato alle donne».

    In cinquant’anni abbiamo pensato a regolare con minuzia la posizione del tavolo con l’urna sopra rispetto ai rappresentanti di lista (in modo che «possano girarvi intorno, allorché sia stata chiusa la votazione»).

    Abbiamo altresì giustamente pensato a destinare una cabina ai portatori di handicap. Ma non abbiamo mai pensato a rimuovere quel comma uno.Mi accingo a farlo io, prima, fra l’altro, che i rappresentanti di altre culture che ora convivono in Italia con la nostra, ne traggano spunto per considerarci partecipi delle stesse arretratezze che imputiamo loro e per chiederci di non infastidirli nella loro inaccettabile lettura dei loro testi sacri.

    E già che ci sono, ne approfitto per togliere anche un’altra rimanenza, che spero davvero di poter considerare tale: è l’art. 38 del testo unico del 1960 sulle elezioni comunali, a norma del quale gli elettori non possono entrare nella sala delle elezioni «muniti di bastone».

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