Il volume di Giulia Galeotti edito da
Biblink verrà presentato lunedì 15 gennaio presso il Palazzo del
Seminario a Roma, alla presenza del presidente della Camera dei
Deputati. Uno studio che va alle radici di un difficile rapporto
tra donne e politica.
Il Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea della
Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università di Roma "La
Sapienza", diretto da Maria Antonietta Visceglia, ha promosso
una presentazione del volume di Giulia Galeotti Storia del
voto alle donne in Italia. Alle radici di un difficile rapporto
tra donne e politica, che avrà luogo lunedì 15 gennaio 2007
alle ore 16 (ingresso sino alle 15.45) nella sala del Refettorio
di Palazzo del Seminario (via del Seminario 76 a Roma). È
necessario comunicare la partecipazione al cellulare 339
4912450. Interverranno Anna Finocchiaro, Rosa Iervolino Russo,
Adriana Poli Bortone e Giovanni Sabbatucci. Modera Lucetta
Scaraffia. Sarà presente il presidente della Camera dei Deputati
Fausto Bertinotti.
La strada che portò al voto alle donne è una vicenda di lotta e
sofferenza, di ostinazione ottusa e caparbia determinazione "che
ha condotto le italiane da soggetti esclusi dall’agorà a
cittadine". Il voto alle donne non ha riguardato solo l’ambito
politico, ma ha avuto a che fare con una mentalità radicata nei
secoli che ha visto la contrapposizione tra uomo/pubblico e
donna/privato. Una specie di ghettizzazione delle donne
"incompatibili per la natura muliebre votata alla casa e alla
famiglia", che rappresentò un escamotage per entrare ma che
successivamente (e ancora oggi ne risentiamo) ha rallentato la
possibilità di affrancarsi dallo stereotipo secondo il quale le
donne rappresentano solo se stesse mentre gli uomini
rappresentano tutti.
Il volume di Giulia Galeotti Storia del voto alle donne in
Italia. Alle radici di un difficile rapporto tra donne e
politica (Roma, Biblink editori, 2006, pp. 317, volume
rilegato Euro 24,00 e file PDF Euro 12,00), basata su una
ricchissima mole di fonti inedite, è la ricostruzione completa
delle vicende che - a partire dall’Unità d’Italia - hanno messo
fine all'esclusione politica delle donne, riconoscendole
cittadine. Una storia delle ragioni e degli argomenti di chi
invoca diritti e di chi vi si oppone, analizzata per analogie e
differenze con le lotte di altri Paesi.
Accanto alla dimensione politica e istituzionale, lo studio
mostra come la conquista del voto abbia coinvolto il vissuto
quotidiano della società del tempo: un insieme di emozioni,
vicende e personaggi la cui voce non va dimenticata, per non
ricadere in nuove sordità. Emergono così le implicazioni di
lungo periodo di lotte e contraddizioni non superate, che si
riverberano tuttora nella vita politica italiana.
Il lungo saggio è diviso in due parti: l’accidentato percorso di
emancipazione femminile dall’Unità d’Italia al fascismo e poi
dalla Resistenza all’Assemblea costituente. Ma sarà solo la
partecipazione delle donne alla lotta partigiana a dare la
spinta per l’attuazione del decreto Bonomi che decise il voto
alle donne.
Indice
Introduzione: Tutta colpa d’una scelta sbagliata?
Parte I. Dall’Unità al fascismo: il non expedit maschile verso
le donne
1: La sconfitta di Atena
Diritti civili e diritti politici - Il voto amministrativo
concesso ad alcune - Il voto politico negato a tutte - Separate
dalla nascita: l’elettrice e l’eletta2. Elettrici perché madri
L’internazionale suffragista - «Le suffragette viste in casa
loro»: chi sono le italiane - Gli argomenti per il voto - La
pratica: un’azione «seria e dignitosa»
3. Tanti nemici e pochi alleati: le risposte degli uomini
I contrari: «deficienza d’attitudine» - I favorevoli: «non vi
saranno motivi per negarglielo, ma ragioni anzi positive per
concederglielo» - I giudici e il prezzo del voto alle donne
Parte II. Il biennio rosa 1945-1946: tante elettrici e poche
elette
4. Il Decreto Bonomi
La Resistenza - Tempi di grande fermento - Il Consiglio dei
Ministri del 30 gennaio: elettrici (senza alcune prostitute) -
Quote e Consulta
5. Le amministrative della primavera 1946
Il completamento della cittadinanza: anche eleggibili -
Finalmente l’8 marzo - I preparativi - Una nuova figura
nell’immaginario collettivo
6. Il 2 giugno 1946
La campagna elettorale - Il gran giorno delle (89%) elettrici -
I risultati: 14 milioni di accusate e 21 elette - Le
Costituenti, madri di uguaglianza
Conclusioni. 1946-2006: ancora il problema delle quote?
Indice dei nomi
Gli interventi di Barbara Pollastrini e Giuliano Amato
sul Corriere della Sera
Riportiamo due interventi, che sono senza dubbio segnali
positivi della volontà politica di risolvere con competenza e
coraggio il gap ancora pesante nel nostro Paese tra mondo
maschile e femminile. Ottima occasione per riaprire il dibattito
è stato l’articolo di Giovanni Belardelli sul libro di Giulia
Galeotti Storia del voto alle donne in Italia che
risolleva l’annosa questione della scarsa presenza delle donne
italiane nelle istituzioni politiche.
La tesi centrale del
libro, come già anche il ministro Amato ha sottolineato,
enfatizza una con-causa, ossia i tempi accelerati
dell’acquisizione del diritto di eleggere e di essere elette da
parte delle italiane, ottenuti d’un sol colpo e in fretta nel
1946 quando gli italiani e le italiane furono chiamati a
pronunciarsi sul referendum monarchia-repubblica.
Se però
gettiamo uno sguardo comparato sull’Europa, notiamo che, ad
eccezione del Nord e della Gran Bretagna, le donne di altri
paesi, come ad esempio il Belgio e la Francia, hanno ottenuto
nello stesso periodo, rispettivamente nel ’48 e nel ’44, il
diritto di voto. Eppure là le percentuali di rappresentanza
politica delle donne sono ben più alte che in Italia. Inoltre la
partecipazione delle donne italiane alla politica, inizialmente
molto alta, è andata decrescendo negli anni e i dati
sull’astensione femminile sono in aumento.
Quindi, senza
togliere nulla allo studio approfondito in questione, sposterei
l’accento sul fatto che non c’è stato in Italia un movimento
suffragista che abbia lottato per ottenere i diritti politici,
ciò che invece è accaduto negli altri paesi. In Italia l’assenza
storica di un movimento unitario femminil/femminista che si
mobilita periodicamente sui temi della parità e del diritto
all’eguaglianza di genere, si traduce nel silenzio della maggior
parte delle rappresentanti dell’associazionismo femminile su
questioni importanti che riguardano anche i diritti di donne
appartenenti a culture e religioni diverse.
Questo vuoto
imbarazzante non può certo contribuire ad elevare i toni di un
dibattito pubblico sempre più necessario né a stimolare gli
intellettuali ad intervenire.
Oggi si sta di nuovo riproducendo
la stessa situazione di sessant’anni fa, quando fu il
legislatore a decidere per le donne. Come allora, è necessario
ancora una volta demandare al legislatore il compito di decidere
per noi tutte? Senza dover ricorrere alle "quote", ci sarebbero
da percorrere altre strade di rinnovamneto della politica, come
ad esempio la modifica del sistema elettorale e l’imposizione ai
partiti politici di regole per selezionare le candidature.
Tutto
il Paese ne trarrebbe vantaggio.
Ma occorre parlare di ciò con
serietà e competenza creando occasioni di incontro.
Società. Una nuova spiegazione della scarsa presenza
femminile nel Parlamento
Politica, non è il maschilismo a frenare le italiane
Alle origini del disimpegno: le conquiste furono troppo
improvvise
di Giovanni Belardelli
Corriere della Sera, 24 ottobre 2006
Siamo abituati a pensare che se le donne sono assai poco
presenti nel Parlamento italiano, ciò avvenga anzitutto a causa
delle resistenze e dei pregiudizi maschili. Pur senza negare il
peso delle une e degli altri è chiaro che si tratta di una
spiegazione insufficiente, visto che da 60 anni le donne,
esercitando il diritto di voto, condividono con gli uomini la
responsabilità di inviare alle Camere un’esigua rappresentanza
femminile.
Ora il libro di una giovane ricercatrice Giulia
Galeotti (Storia del voto alle donne in Italia, Biblink
editori, pp. 318, Euro 24), ricostruendo la storia delle
battaglie che hanno portato al suffragio femminile fornisce una
spiegazione piuttosto originale di questo fenomeno.
Ad ostacolare la presenza in politica delle donne italiane,
osserva l’autrice, sono state in fondo le modalità stesse con
cui il voto venne concesso, cioè tutto in una volta nel 1946.
In
molti altri Paesi l’estensione del suffragio aveva rappresentato
un processo graduale: sia perché il voto politico era stato
concesso dapprima a un numero limitato di donne e solo
successivamente (spesso dopo molti anni) a tutte; sia perché il
voto amministrativo era stato introdotto anteriormente al voto
politico In casi del genere perciò l’insieme della società aveva
avuto tempo e modo di abituarsi gradualmente alla presenza in
politica delle donne sia come elettrici che come elette (un
diritto quello all’elettorato passivo che venne generalmente
ottenuto dopo l’elettorato attivo).
La Galeotti fornisce una
serie numerosa di esempi di questo processo di graduale
estensione del diritto di voto, a cominciare dal fenomeno per
cui, nelle elezioni locali, il voto alle donne inizialmente
veniva limitato non solo in / relazione al censo (cioè alle
imposte pagate), ma anche allo stato civile. Nel senso che le
donne nubili o vedove votavano e quelle sposate no; questo ad
esempio è ciò che disponeva una legge del 1869 in Inghilterra
dove le coniugate avrebbero ottenuto un analogo diritto solo 25
anni dopo. Questa apparentemente curiosissima distinzione aveva
una sua ragion d’essere nel fatto che il diritto di voto si
fondava sulla proprietà; perciò le donne sposate, essendo
soggette alla tutela maritale (e dunque trovandosi ad essere
giuridicamente rappresentate dal coniuge) potevano venire
private di un diritto concesso invece alle nubili.
Proprio il fatto che il diritto di voto venisse concesso in
molti Paesi (ma non in Italia) per tappe successive e attraverso
un processo lungo permise appunto di attutire i contraccolpi di
una novità che appariva, agli uomini ma anche a molte donne,
sconvolgente. Il libro fornisce un ricco inventario di
pregiudizi e paure legate alla presenza femminile in politica:
dall’idea che fosse sommamente sconveniente una presenza di
uomini e donne nello stesso seggio elettorale (vi fu perfino chi
propose di separare i luoghi della votazione per sesso) al
timore che la presenza delle donne in Parlamento facesse tutt’uno
con il crollo dei vincoli sociali e dei valori morali
tradizionali.
In Italia, dunque, il fatto stesso che le donne ottenessero,
senza nessuna gradualità, il voto sia politico sia
amministrativo doveva contribuire invece a rendere più difficile
il superamento degli antichi pregiudizi ostili. Ovviamente, nel
1946, non sarebbe stato neppure pensabile concedere il voto
altrimenti che a tutte le donne simultaneamente; ma, appunto,
questo fatto produsse, in una società come quella italiana,
conseguenze che si fanno sentire ancor oggi.
Conseguenze riassumibili nell’idea che, mentre gli uomini in
Parlamento rappresentano tutti i cittadini, le donne invece
«sono ancora percepite come portavoce del loro sesso, piuttosto
che come espressione degli interessi generali quali sono
rappresentati dai rispettivi partiti politici». Insomma, nel
nostro immaginario collettivo le donne rappresentano soprattutto
le donne. Un’idea ben testimoniata dal fatto che generalmente
sono ministeri di ambito sociale-familiare-educativo quelli
assegnati a donne: dalla prima donna ministro Tina Anselmi,
incaricata del Lavoro e della Previdenza sociale nel 1976, fino
alle titolari di dicasteri nel governo attuale. Le eccezioni
alla regola non scritta che prevede per le donne incarichi
politici che la nostra cultura percepisce come femminili sono
pochissime: la Galeotti cita Nilde Iotti presidente della Camera
dei deputati, Susanna Agnelli agli Esteri, Rosa Russo Iervolino
all’Interno. Ma andrebbero almeno aggiunte Irene Pivetti, che
dal 1994 al 1996 fu il più giovane presidente della Camera, ed
Emma Bonino nel governo attuale.
L’interpretazione fornita dalla Galeotti, soprattutto se non la
consideriamo come una spiegazione esclusiva, appare nel
complesso convincente. In ogni caso, ha il merito di cercare di
superare le spiegazioni un po’ ovvie che evocano il tradizionale
maschilismo delle società mediterranee e che oggi, davvero,
possono spiegare ben poco. Basti ricordare che l’attuale governo
spagnolo è composto per metà da donne e che la Turchia ha avuto
per la prima volta a capo del governo una donna, Tansu Ciller,
ormai tredici anni fa.
Donne e voto
Separati al seggio. Cambierò la legge
di Giuliano Amato
Corriere della Sera, 26 ottobre 2006
Caro Direttore,
ho letto con grande interesse l’articolo-recensione che Giovanni
Belardelli ha dedicato sul Corriere di martedì 24 ottobre al
libro di Giulia Galeotti Storia del voto alle donne in Italia.
È un articolo bello e limpido, ma l’interesse, ovviamente, nasce
in primo luogo dal libro e dalla sua tesi centrale.
In altri paesi - sostiene la Galeotti - il voto alle donne fu
parte di un processo graduale, che accompagnò la loro
progressiva uscita dalle mura domestiche, mentre da noi arrivò
invece in modo subitaneo e per ciò stesso «sconvolgente». Se
ancora oggi nella stessa vita pubblica si assegnano alle donne i
ruoli più vicini a quello atavico di madre e di educatrice dei
figli, lo si deve alla difficoltà con cui la novità, così
rapida, è stata digerita dal Paese.
Scrive giustamente
Belardelli che la tesi, se non la si prende come spiegazione
unica, è persuasiva ed è convalidata proprio dal perdurare,
neppure sotterraneo, di diffidenze e resistenze verso l’accesso
femminile a ruoli e posizioni che si continua a ritenere
maschili. Una rimanenza di questo passato, di cui non so se
Belardelli e la stessa autrice sono consapevoli, riguarda un
profilo che io ho sott’occhio in questo giorni e che, a quanto
capisco dall’articolo, essi sembrano ritenere esaurito nello
stesso passato.
Fra i pregiudizi e le paure legate un secolo fa
alla presenza femminile in politica viene citata l’idea che
«fosse estremamente sconveniente una presenza di uomini e donne
nello stesso seggio elettorale (vi fu persino chi propose di
separare i luoghi della votazione per sesso)».
Ebbene quell’idea
è ancora viva e informa ancora oggi la nostra legislazione
elettorale. L’art. 42 del testo unico del 1957 sulle elezioni
per la Camera dei Deputati, un articolo modificato più volte nel
corso degli anni (l’ultima volta nel 2005), continua ciò
nondimeno a recitare nel suo comma uno: «La sala delle elezioni
deve avere una sola porta d’ingresso aperta al pubblico, salva
la possibilità di assicurare un accesso separato alle donne».
In cinquant’anni abbiamo pensato a regolare con minuzia la
posizione del tavolo con l’urna sopra rispetto ai rappresentanti
di lista (in modo che «possano girarvi intorno, allorché sia
stata chiusa la votazione»).
Abbiamo altresì giustamente pensato
a destinare una cabina ai portatori di handicap. Ma non abbiamo
mai pensato a rimuovere quel comma uno.Mi accingo a farlo io,
prima, fra l’altro, che i rappresentanti di altre culture che
ora convivono in Italia con la nostra, ne traggano spunto per
considerarci partecipi delle stesse arretratezze che imputiamo
loro e per chiederci di non infastidirli nella loro
inaccettabile lettura dei loro testi sacri.
E già che ci sono,
ne approfitto per togliere anche un’altra rimanenza, che spero
davvero di poter considerare tale: è l’art. 38 del testo unico
del 1960 sulle elezioni comunali, a norma del quale gli elettori
non possono entrare nella sala delle elezioni «muniti di
bastone».
Archivio Donna
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