Un libro che andrebbe fatto leggere nelle scuole:
una risposta alla leggerezza con cui alle ragazze e ai ragazzi si
racconta che abortire non è che una tra le opzioni di fronte ad una
gravidanza più o meno desiderata.
Quello che
resta (Editrice
Vita Nuova - Associazione "Il Dono", Euro 16,00) denuncia l’urgenza
di affrontare il problema dell’aborto, partendo dall’aborto. Partendo
dalla donna. Storie di donne, storie di bambini, vita vera. Vengono
messe in luce, una volta per tutte, senza ipocrisie, le conseguenze
drammatiche delle donne che decidono di interrompere volontariamente la
propria gravidanza. Paura, solitudine, sofferenza, illusioni ed infine
un dolore profondo che non dà tregua e non passa nemmeno a distanza di
anni. Psicologi, medici, psichiatri, mettono a disposizione la loro
esperienza professionale per "spiegare" questo dolore e aiutare la donna
ad attraversare il lutto, perchè diventi un cammino verso la redenzione,
la rinascita, il perdono. Un tema scottante, senza bandiere, senza
politica e al di là del proprio credo religioso, perché a raccontarsi
sono proprio le protagoniste, le donne in quanto esseri umani, in quanto
persone.
La presentazione di Ester Palma, giornalista del Corriere della
Sera
Solitudine, speranze, illusioni e infine un dolore profondo, che non
dà tregua e non passa neppure a distanza di anni: si assomigliano un po’
tutte le storie raccontate in questo libro sconvolgente. Che ha un
merito indiscutibile, quello di dare voce al tabù politicamente
scorrettissimo della sofferenza, spesso silenziosa e solitaria, delle
donne che hanno deciso (o verrebbe da dire, subìto) un’IVG (Interruzione
Volontaria di Gravidanza): un vero pugno nello stomaco di quella "consumerist
society", dove i rapporti interpersonali sono e devono essere "liquidi",
impersonali, senza forma né valori, secondo l’analisi del sociologo
polacco Zygmunt Bauman già citata in uno dei saggi che compongono la
seconda parte del libro.
L’aborto costa dolore, non è "una cosuccia da nulla", "l’unica soluzione
sensata", "il modo per rimettere a posto le cose". Questo libro e
soprattutto il lavoro costante, faticoso e instancabile di Serena
Taccari e dell’associazione "Il Dono" lo mettono in luce una volta per
tutte, senza ipocrisie. Insieme ad un’altra drammatica verità, spesso
taciuta: l’interruzione di una gravidanza non è quasi mai la "scelta
libera e consapevole delle donne". Il panorama disegnato da queste
pagine, dalle storie, dalle vite di queste madri mancate è fatto spesso
di passività e accettazione supina degli eventi, sebbene la posta in
gioco sia tanto alta e drammatica: "Mi facevo guidare" - si legge in
alcune di queste vicende -, "Mi sono lasciata trasportare", "Che cosa
sto facendo? Non lo so", "Speravo che qualcuno scendesse a portarmi
via".
È anche vero che l’aborto, l’uccisione "a freddo" di un figlio nella
pancia di colei che è stata chiamata a dargli la vita, è un atto così
feroce e innaturale che forse solo in questo modo lo si può accettare e
compiere: "Nelle altre leggevo le stesse mie emozioni e cioè la totale
assenza di emozioni. Credo sia solo una questione di sopravvivenza,
anestetizzare l’anima". "Ero morta, morta insieme a mio figlio…".
E nel compiere il percorso verso la sala operatoria in cui verrà
effettuato l’intervento, la donna di turno è accompagnata in genere da
una rete di false premure e di un dichiarato "rispetto" per la sua
scelta ("fai come vuoi, la decisione è tua") che in realtà è solo
l’altra faccia di una prevaricazione letale. E in questo scenario
popolato da ombre cupe, da un freddo di morte, spiccano per assenza e
insensibilità, fatte salve le dovute eccezioni, ginecologi, ostetriche,
operatori dei consultori, assistenti sociali, che sembrano fare a gara
ad "aiutare" la donna a liberarsi del suo piccolo.
Passo dopo passo si arriva dunque all’altro comune denominatore di
queste storie: il risveglio amarissimo dopo l’intervento, il senso di
colpa, il rimorso invincibile. "Dopo l’operazione, il vuoto", "Ho
cercato e desiderato la morte", "Dopo sei finalmente libera di impazzire
con il tuo dolore", "Ho tradito e ucciso mio figlio… la mia ferita si
chiama rimorso" "Sono solo 5 anni che sto scontando questa pena e spesso
temo di essermi inflitta l’ergastolo". E allora in questo mondo
disperato, "claustrofobico", come lo definisce la stessa Serena, risalta
con ancora maggiore forza l’importanza del ruolo de "Il Dono": scegliere
di immergersi in questo genere, bistrattato e misconosciuto, di
sofferenza richiede coraggio, intelligenza e una non comune
disponibilità a dare. Perché il passaggio attraverso la morte di queste
donne dolenti non sia definitivo, ma solo una tappa di una cammino verso
la redenzione, la rinascita, il perdono. E che ciò in qualche misura sia
possibile lo provano le brevi note poste al termine di alcune storie,
che spiegano come il percorso verso la ripresa sia stato avviato quando
non, in alcuni casi, concluso.
Resta il dolore, la "cicatrice", come la definiscono molte delle stesse
protagoniste delle storie del libro, che ogni tanto torna a dolere,
resta il senso di un gesto incancellabile, resta una vita strappata e
conclusa nel peggiore dei modi. Ed è significativo che il libro (e
quindi il sito, e l’associazione) non dimentichi di dare voce anche al
soggetto meno desiderato del dramma che si mette in scena: il padre.
Perché, e questo aldilà degli slogan femministi più vieti, quella vita
che si pretenderebbe di eliminare o selezionare con tanta
"scientificità" nasce e si forma all’interno di un rapporto che non può
essere cancellato, è comunque vada una "partita a tre", fin dall’inizio.
Ed è bene ricordarlo, in un mondo in cui i bambini vengono sempre più
prodotti "à la carte", scartando quelli meno "riusciti", in cui un
figlio viene considerato "un diritto" e non un dono da crescere e
accompagnare, appunto.
Quello che resta è un libro che andrebbe fatto leggere nelle
scuole, come contrappasso e contrappeso alla leggerezza con cui alle
ragazze e ai ragazzi si racconta che abortire non è che una delle
possibili opzioni di fronte ad una gravidanza più o meno desiderata.
Perché un figlio si può uccidere, è vero, la società di oggi ne dà alle
donne ampia, troppo ampia facoltà, ma non dimenticare: tanto che la
maggior parte delle protagoniste del libro esprimono il proprio
disperato bisogno di dare un volto, un nome, un’anima al bambino
perduto, in un tentativo di dialogo mai compiuto e sfinente. Un dialogo
i cui fili possono essere ripresi e annodati da questo libro e dal
lavoro costante e prezioso de "Il Dono".
Presentazione di Francesco Agnoli, giornalista, scrittore e
professore in umanistica
Storie di donne, storie di bambini, vita vera … Qualcosa di ben
diverso da quello che siamo abituati a sentire, dalla televisione, o a
leggere, sui quotidiani, quando si parla di aborto. Ci sono un
linguaggio, una serie di eufemismi, di non detti, di espressioni fasulle
e mimetiche dettate dal politicamente corretto, nei media, che
impediscono a chi legge o ascolta di capire la realtà, di penetrare
nella vita, di comprendere realmente cosa ci sia dietro una sigla
apparentemente neutra, insignificante, fredda e asettica: "IVG",
interruzione volontaria di gravidanza. Perché una sigla di questo tipo è
stata studiata a tavolino, nell’epoca della comunicazione e delle
strategie di marketing, appositamente per nascondere, per isolare il
dramma, per costruire prima un valido alibi, per la coscienza di chi vi
ricorre, e poi un bel recinto, intorno a lei, alla donna, perché rimanga
accuratamente sola: è "volontaria", la hai voluta tu, hai scelto tu…
Come se veramente vivessimo da soli, ci realizzassimo da soli,
costruissimo in solitudine la nostra esistenza. Così si ragiona,
purtroppo, nell’epoca in cui ognuno vive come un atomo isolato nello
spazio e nel tempo, in cerca di una felicità che fiorisca, non si sa
come, dall’egoismo, e dalla affermazione prepotente di tutti gli
istinti, i desideri, i capricci personali…
Ma quale è la realtà? Ce lo dicono le donne, che hanno vissuto l’aborto,
perdonate se lo chiamo così, poco tecnicamente, sulla loro pelle, sul
loro spirito, nella loro unità di carne e di anima. Quante di loro sono
state ingannate, dalle false rassicurazioni, dal linguaggio artefatto e
menzognero, che si rifiuta di chiamare le cose col loro nome, credendo
così di depotenziarle, di neutralizzarle; ingannate dai consigli di chi
dovrebbe guidare, aiutare, prendersi una responsabilità… "Mi sentii
sola", questo è il concetto che ritorna, "sola": "per rispetto della tua
libertà", dicono i genitori, o gli amici, in realtà ben poco disposti a
farsi carico dell’altro, ad aiutarlo, a sostenerlo nei momenti
difficili. "I miei genitori non mi guidarono nella scelta da prendere,
perché la ritenevano una cosa troppo personale", scrive una donna,
facendo capire che la sua scelta di tenere il bambino, maturata sin
dall’inizio, perché naturale per ogni madre, ha trovato di fronte a sé
la freddezza delle persone più vicine, travestita da rispetto, la non
disponibilità a mettersi in gioco, presentata come attenzione a non
invadere il campo altrui. Accade come se di fronte ad un uomo che
annega, o che muore di fame, o che è depresso, aspettassimo che ci
chieda, in carta bollata, con linguaggio corretto e forbito, di cosa ha
bisogno, se vuole o meno un aiuto, e come lo vuole!
E quante altre donne, poi, si sono ritrovate d’improvviso, come in un
incubo, abbandonate, respinte, coartate, dal loro compagno o marito, che
non voleva, non riteneva che fosse giunto il "momento giusto", che non
si sentiva "all’altezza", che non voleva un "impegno così gravoso"
...che mascherava disperatamente il suo egoismo dietro una serie di
frasi fatte, condivise ormai dal senso comune, ma non meno meschine.
Sempre, in ognuna di queste circostanze, vi è una vita nata dall’amore
tra due persone, privata da subito di un genitore, e affidata al
coraggio, alla volontà, alla forza di una "sola". E questa persona,
"sola", a inseguire un aiuto, se non in famiglia, se non nella persona
amata, ma incapace di amare, almeno all’esterno, nella società. Ma la
società ha già deciso, ormai più di trent’anni fa, quando l’aborto è
stato presentato come una conquista, un diritto, una operazione
semplicissima, una semplice asportazione, come eliminare un neo, diceva
qualcuno; quando si urlava "l’utero è mio e lo gestisco io", non capendo
che così ci si rinchiudeva nell’egoismo più nero, e si offriva agli
uomini l’alibi più grande per disinteressarsi di un eventuale figlio,
per potersi tirare fuori, al momento opportuno, con apparente eleganza.
Oggi, dopo trent’anni di sofferenze, di disillusioni, di traumi post
aborto, di donne che ci hanno raccontato la loro esperienza, sappiamo
sempre meglio che non è così: un bimbo è parte di una donna, mette
radici nel suo corpo, si fa sentire dal primo istante, reclama cibo e
amore quando ancora è piccolo come un puntino. E la mamma, qualsiasi
mamma, non fa che venire incontro a questa creaturina, a questo
"fagiolino", come dice qualcuna, intenerita dalla piccolezza di quell’essere
indifeso, bisognoso di tutto, dipendente in tutto dagli altri, come
anche noi grandi, in fondo, lo siamo, senza però più rendercene conto.
La società, dicevo, ha deciso: per questo, conquistato il "diritto"
all’aborto da parte delle donne, non serve più fare nulla, né aiutare le
famiglie, né costruire asili per sostenere i genitori, né aiutare le
madri in difficoltà. "Nelle tre settimane successive [dopo il
concepimento, ndr], scrive Bijoux, mi porta in due diversi consultori
per parlare con gli psicologi i quali, invece di aiutarmi a far
ragionare il padre di mio figlio, mi invitano a firmare il foglio per il
consenso all’intervento": se l’aborto è giusto, un diritto, chi dovrebbe
aiutare diventa un burocrate, un passacarte, incaricato semplicemente di
firmare un foglio, affinché un medico che ha tradito il giuramento di
Ippocrate possa compiere "il suo lavoro". Nient’altro. Per fortuna,
mentre qualcuno lotta per ricostruire una cultura della vita, e della
famiglia, per arginare l’egoismo eretto a sistema di vita, associazioni
come "Il Dono" si fanno carico molto concretamente di chi ha sofferto,
lo accolgono, col suo carico di dolore, e lo aiutano a riprendere il
cammino…
Prefazione di Serena Taccari, presidente dell’Associazione "Il Dono"
Onlus
Far parte di un’associazione di volontari in un campo minato come
quello dell’aborto è un’esperienza grande, incredibile e per certi versi
spaventosa. Si affronta un argomento in qualche modo inaffrontabile, un
taboo sociale, qualcosa di semplicemente politico e non realmente umano.
Sì, perché nonostante la battaglia sia sul fronte dei diritti della
donna, questa è risultata, in ultima istanza, l’unica ad essere davvero
lasciata fuori.
Ma questa considerazione la lascio a voi, alla fine della lettura.
Noi dell’Associazione "Il Dono" riteniamo che al di là delle discussioni
politiche pro o contro aborto, che sono incentrate sulla vita e sulla
morte del bambino, è urgente guardare all’aborto partendo dall’aborto.
Partendo dalla donna.
Trovarsi a parlare con una donna che ha dovuto affrontare
un’interruzione volontaria di gravidanza (per qualsiasi motivo essa si
sia trovata a farla), e condividere con lei i sentimenti e le emozioni,
è qualcosa di claustrofobico.
Mura altissime cingono d’assedio quella che è la paura più grande:
affrontare se stessi.
L’assordante silenzio che circonda chi ha vissuto l’IVG è l’espressione
più alta del disinteresse verso la donna, mascherato di pietismo e
libertà, incoronato di falsa condivisione e guarnito di menzogna.
"Scegli tu" è l’inizio dell’inganno. "Durerà poco, non sentirai dolore"
è la consacrazione dell’incubo.
Dove socialmente è riconosciuto un diritto a questo tipo di "libera
scelta", è invece misconosciuto il diritto al pentimento, al dubbio, al
dolore, al pianto. Ho sentito equiparare il post aborto a un trauma
quotidiano (= normale): come un trasloco o un cambio di lavoro... o una
relazione che si interrompe. Insomma una scelta difficile ma niente di
più. Nessuno lo paragona alla morte di un figlio, eppure è di questo che
si parla.
Perché mentre una madre che perde spontaneamente una gravidanza può
piangerne con amici e parenti, la libera scelta dell’IVG inchioda la
donna - che pure ha comunque "perso un figlio" - al muro della
solitudine. Tu hai scelto. Perché piangi?
Non stiamo parlando di donne portate a forza all’aborto, se per forza
intendiamo legate e condotte per mano, no, non è necessario parlare dei
casi estremi. Parliamo invece, di donne portate a forza dalla
disperazione, dalla paura, da compagni "premurosi" che al momento del
dunque tagliano la corda, da parenti "comprensivi" che rifiutano l’onta,
da un lavoro precario cui sacrifichi tutto (anche te stessa), da tutto
quello che, intorno, ti convince che è meglio cercare di tornare
indietro a prima del test positivo e "rimettere a posto le cose".
Cosa rimetti a posto?
Come torni indietro nel tempo?
Indietro non si torna. Per forza di cose bisognerà andare avanti. Ma
quelle lineette che un giorno hanno gridato al tuo stupore l’arrivo di
un figlio, restano impresse nella mente come un marchio a fuoco.
Indelebile, doloroso, una cicatrice profonda che col cambiare del tempo
- come ogni cicatrice - torna a dare fastidio anche a distanza di anni,
che tira, prude o dà stilettate acute.
Le storie che verranno raccontate in questo libro sono storie vere,
tratte dal forum di supporto dell’associazione italiana "Il Dono" Onlus,
l’unica ad occuparsi - come associazione di volontariato - di sostegno
alle conseguenze psicologiche dell’aborto volontario. I nomi sono quelli
usati come nickname dalla persona che ha scritto nel forum. I titoli
sono quelli originali, dati dalla persona stessa che ha scritto la sua
storia nel forum. Sono frutto di un pensiero personale e non dettati da
nessuno, per questo vanno rispettati.
Leggerete storie di persone che hanno fatto un percorso e hanno
elaborato il loro dolore con noi: ascoltate, accolte, non giudicate,
aiutate non a nascondere a se stesse la realtà dei fatti ma a prendere
coscienza di quello che è stato e a rialzarsi camminando a testa alta.
C’è una base comune, eppure sono storie diversissime. Cambia l’approccio
iniziale con l’Associazione, con gli operatori (a volte è aggressivo,
altre timido a volte dubbioso, altre subito grato). Cambia il modo di
vedere l’intorno - le relazioni interpersonali e le circostanze - e le
reazioni individuali, che hanno reso questo percorso più lungo o più
breve. Ma le conclusioni sono le stesse sempre e non vengono tratte a
priori.
Sono le vite che parlano, sono le donne che traggono conclusioni. Noi le
accompagniamo semplicemente senza imporre niente e senza dettare frasi
fatte, semplicemente ascoltando, lungo una strada in salita per
recuperare la propria identità e la stima di sé; non cancellando il
passato ma costruendo a partire da esso.
Perché un giorno ti è stato dato un figlio e questo ti ha cambiato la
vita.
Non è nostro intento fare una cronaca del percorso di guarigione (che va
vissuto, non incatenato a uno schema), per questo ciascuna storia non
sarà introdotta da nulla.
Verrà semplicemente offerto lo stesso spaccato cui si trova dinanzi chi
entra nel sito internet e sfoglia le pagine virtuali del forum;
piuttosto, quando possibile, la storia verrà conclusa con una breve nota
che delinei il cambiamento.
Se qualcuno, leggendo, ritrova se stessa, le proprie situazioni ed
emozioni, sappia anche che c’è un posto dove si può essere ascoltati e
compresi.
Entrare in contatto con il dramma dell’aborto è aprire una porta nel
muro del silenzio, dell’indifferenza di chi ti circonda, di chi per non
sentire parlare di morte ti costringe a chiuderti in te stessa e a
portare quella morte da sola.
La speranza per tutte le donne che hanno affrontato questa esperienza
drammatica, anzi che l’hanno subita, è trovare qualcuno che dia ascolto
a quel grido, perché non sia la morte quello che resta.
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