Caro Direttore,
ho letto con indignazione l’articolo di Peter Gomez dal
titolo "La polpa Telecom ha riempito le loro pance", pubblicato ieri dal
Fatto Quotidiano. Il pezzo contiene una serie di affermazioni e
ricostruzioni infondate – figlie della pericolosa categoria dei “falsi
miti” che continua tristemente ad animare la vicenda dell’offerta
pubblica d’acquisto su Telecom – e che ho già avuto occasione di
smentire in innumerevoli occasioni. Ma, evidentemente, repetita
iuvant: sono costretto, quindi, a ricostruire (ancora una volta) i
fatti così come si sono realmente svolti, nonché i loro risultati
industriali e finanziari. Nella speranza che le illazioni possano
lasciare posto, finalmente, alla verità storica.
LA SCALATA. L’opa lanciata da Olivetti
su Telecom nel 1999 non rappresentò soltanto la più grande
operazione di questo tipo mai realizzata in Italia e una delle
principali effettuate a livello globale, ma anche lo strumento per
realizzare uno straordinario progetto industriale nell’interesse di
Olivetti, di Telecom Italia, del nostro Paese. Parlano i
fatti: mi limito a ricordare che nel 2001 – al termine di un’avventura
industriale complessa e appassionante – fui costretto a lasciare
un’azienda totalmente diversa da come l’avevo trovata. In soli due anni
l’azienda italiana di TLC era diventata un vero player
internazionale,in virtù di una strategia di espansione sui mercati più
promettenti del pianeta. Avevamo conquistato la maggioranza della
società di telefonia mobile in Cile, sviluppato la rete di telefonia
mobile e fissa in Brasile, razionalizzato Telecom Argentina,
rafforzato la nostra presenza in Grecia, in Turchia e in tutta l’area
del Mediterraneo orientale, avviata con Telecom Austria la
presenza del gruppo sui mercati dell’Europa centro-orientale in virtù di
un accordo con il governo austriaco, risolti gravi contenziosi come
quelli in Serbia e a Cuba nei riguardi degli Stati Uniti. Il profilo
industriale di Telecom Italia nel 2001 spaziava dalla telefonia
fissa a quella mobile, da Internet alla televisione, dalle comunicazioni
satellitari ai sistemi informatici. Altro che Telecom
"spolpata".
Sotto il profilo finanziario, l’opa del 1999 fu un’operazione
di mercato così dirompente e trasparente da cogliere di sorpresa (e
forse preoccupare) chi era abituato da decenni a considerare i "salotti
buoni" del capitalismo italiano come l’unico terreno di gioco delle
grandi operazioni industriali e finanziarie del Paese. A differenza di
quanto è successo negli altri passaggi di proprietà del gruppo
telefonico, l’offerta di Olivetti si rivolse infatti a tutti
gli azionisti ordinari di Telecom Italia dando loro la
possibilità di “incassare” un premio rilevante rispetto alle quotazioni
del titolo.
IL DEBITO. Quanto al debito, desidero ribadire con
forza che l’opa non portò indebitamento su Telecom Italia
e sulle altre società operative: per realizzare l’operazione
Olivetti utilizzò 20.000 miliardi di lire di liquidità propria, bond e
strumenti finanziari di debito, che rimasero in carico alla società di
Ivrea e che sarebbero stati quasi annullati se l’operazione – già
accettata dal mercato – di conversione delle azioni di risparmio Telecom
Italia in ordinarie e il successivo buy-back avessero trovato esecuzione
nell’estate del 2001. Ma il dato fondamentale è un altro: il debito di
Telecom, all’epoca, era largamente inferiore a quello dei grandi
competitor europei ed era perfettamente sostenibile dalla cassa
generata annualmente dal gruppo telefonico stesso.
E’ altrettanto importante inquadrare in modo corretto un altro aspetto
dell’operazione su cui vengono riproposte ciclicamente teorie
improbabili e calunniose, delle quali mi interesserebbe molto conoscere
le vere motivazioni. Nessuno chiese ed ottenne "sponsorizzazioni"
politiche o istituzionali. Non fanno parte della mia etica, sarebbero
state contrarie alle regole del diritto nonché un’evidente
contraddizione rispetto alla logica esclusivamente di mercato che
caratterizzò l’intera operazione. All’epoca dei fatti le istituzioni
competenti – in primis l’allora presidente del Consiglio Massimo
D’Alema, il ministero del Tesoro, Consob e Borsa
Italiana – controllarono severamente ogni dettaglio di questa
operazione, garantendo il rigoroso rispetto delle leggi. Il modello di
relazioni con tutti i rappresentanti del mondo istituzionale si basò
sulla trasparenza e sulla tutela della neutralità: elementi richiesti –
anzi pretesi – dal mercato, che fu in grado di stabilire l’esito
dell’operazione al di fuori di ogni condizionamento esterno. L’opinione
pubblica e il mondo finanziario e del risparmio furono informati
quotidianamente dai media italiani e internazionali, che per la prima
volta in Italia ebbero la possibilità di seguire, analizzare e valutare
in ogni dettaglio un’offerta di pubblico acquisto verso tutti gli
azionisti di Telecom Italia, dalla sua nascita alla sua
conclusione.
Nel dettaglio, all’assemblea degli azionisti Telecom che doveva
deliberare l’opa di Telecom sulla controllata Tim
si presentò soltanto il 22,3 per cento del capitale della società:
l’assemblea, dunque, non poté né costituirsi né deliberare, a
prescindere dalla decisione del ministero del Tesoro e del fondo
pensioni della Banca d’Italia. Questi due soggetti erano
titolari rispettivamente del 3,4 per cento e del 2,3 per cento del
capitale di Telecom: se anche si fossero presentati a Torino,
il quorum non sarebbe stato raggiunto.
BELL. Voglio ribadire per l’ennesima volta, inoltre,
che non ho mai posseduto nessuna azione di qualsivoglia società
lussemburghese e in particolare di Bell. Nel luglio 2001,
quando gli azionisti di Bell decisero di vendere a
Tronchetti Provera, lo fecero contro la mia volontà e quindi
senza alcun mio coinvolgimento nella trattativa. A quel punto la mia
decisione – proprio perché in contrasto con la strategia del gruppo
Gnutti – fu quella di vendere tutte le mie partecipazioni in
Hopa, Fingruppo e Olivetti al gruppo Gnutti. E’
doveroso ricordare, infine, che i frutti di questa e di tutte le mie
operazioni sono sempre rimasti integralmente in Italia e hanno generato
ingenti imposte a favore dell’erario.
Da il Fatto Quotidiano del 16 aprile
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