La Brexit continua a rimanere un rebus senza soluzione. Theresa
May ha ora concesso al parlamento di votare su un rinvio dell’uscita
definitiva dalla Ue. Ma così non si risolve nulla. E ai Comuni non
c’è una maggioranza per una reale alternativa.
Battaglie parlamentari
La farsa continua nella camera dei Comuni a Londra. Emendamenti e
mozioni che valgono meno della carta su cui sono stampati, decisioni
parlamentari che vengono ignorate e dimenticate, un governo alle cui
promesse nessuno crede più, i partiti principali che si dividono,
urla insulti e lacrime al Consiglio dei ministri; il paese una vera
“nave senza nocchiere in gran tempesta”.
Dopo l’ennesima
giornata campale, Theresa May, al cui confronto
Madame Mao appare ormai come paradigma di buon senso e
diplomazia, ha promesso che concederà al parlamento di votare su un
emendamento che impegna il governo a chiedere a Bruxelles
un’estensione del periodo di transizione prima dell’uscita dalla Ue,
per ora in programma alla mezzanotte del 29 marzo. Estensione la cui
durata rimane però nel vago: un’ora? Tre mesi, due anni? Mille anni?
Ed estensione che comunque, a meno che non sia millenaria, in
pratica non risolve nulla.
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Figura 1
La figura 1, tratta dal sito della Bbc, illustra il problema:
cosa succede se si si arriva in basso a destra e la Ue concede
l’estensione? Si ritorna al punto di partenza? L’Unione europea per
ora sembra disposta a concedere un’estensione fino al 1° luglio,
data in cui si apre il nuovo parlamento europeo, ma non più in là.
Eppur si muove
Qualcosa però si muove nel Regno Unito. Fino a poco tempo fa, le
posizioni sembravano rigide come in un braccio di ferro tra statue,
ogni concessione era vista come una resa e un tradimento, dunque
sempre meno probabile. Ma questa settimana sette deputati laburisti
si sono dimessi in blocco dal partito e hanno formato un nuovo
gruppo parlamentare; in due giorni si sono aggiunti un ottavo
laburista e tre tory, rendendo il nuovo
gruppo indipendente il quarto partito in parlamento, dopo i
conservatori, i laburisti e i nazionalisti scozzesi. Con il loro
minuscolo 1,7 per cento dei voti in parlamento hanno però costretto
entrambi i leader dei maggiori partiti a concedere due cose che
avevano giurato e promesso che non avrebbero mai concesso: l’una un
rinvio della Brexit, l’altro l’appoggio formale a un nuovo
referendum.
Il leader laburista Jeremy Corbyn, infatti,
ha prima cercato di imporre al governo di presentare alla Ue una
nuova versione del trattato secondo la quale, in pratica, il Regno
Unito avrebbe rinunciato alla partecipazione alle istituzioni
europee in cambio del diritto di limitare la libertà di movimento
(leggasi immigrazione), la vera e unica preoccupazione degli
elettori laburisti pro-Brexit. Il suo emendamento è stato respinto.
Corbyn si trova però tra l’incudine degli elettori “tradizionali”,
anti-élite e anti-immigrazione, e il martello dei giovani, il cui
entusiasmo gli aveva dato il relativo successo elettorale del 2017,
mentre ora i sondaggi elettorali predicono
un’emorragia di voti disastrosa. Ha così ascoltato la voce di
moltissimi dei suoi colleghi e si è convinto a dare
l’appoggio ufficiale al secondo referendum. Tuttavia, almeno una
ventina di deputati laburisti, eletti in collegi pro-Brexit, temono
una possibile rinascita dell’Ukip e preferiscono schierarsi contro
il ritorno al voto per non rischiare di perdere il seggio alle
prossime elezioni.
La strategia di May rimane testardamente immutata: vede il rinvio
come il modo di completare l’eliminazione, a una a una, di tutte le
possibili alternative, finché, letteralmente sull’orlo dell’abisso,
ogni deputato dovrà scegliere tra ingoiare il rospo e votare per il
suo accordo con la Ue, o ingoiare il rospo e votare per il “no
deal”.
Gruppi pro e contro Brexit
La maggioranza del paese è ora
contro la Brexit. È successo sia perché i cambiamenti
demografici e la distribuzione per età del voto sono tali per cui se
anche tutti i votanti del 2016 votassero allo stesso modo, la Brexit
sarebbe sconfitta, sia perché gli elettori che dichiarano di aver
cambiato idea e di essere ora contro la Brexit sono molti di più di
quelli che cambierebbero il voto dal “remain” al “leave”.
Nonostante il cambiamento della posizione formale di Jeremy Corbyn,
però in parlamento continua a non esserci un’alternativa che possa
arrivare ai 310-315 voti necessari per modificare lo status quo. Se
potessimo chiedere, in segreto, a ciascun deputato cosa preferirebbe
tra le possibili alternative attuali – non vale quindi la risposta
“tornare indietro nel tempo e non tenere il referendum” – penso che
otterremmo numeri non lontani da questi.
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