Sala del Cenacolo - Vicolo Valdina, 3A, ore 15
Innanzitutto grazie. Grazie a tutti voi e, se mi permettete, un grazie
particolare a coloro che pur nel dubbio e forse anche nel dissenso,
venendo qui oggi hanno voluto testimoniare interesse per il tema e
disponibilità a discuterne.
Non vi nascondo una grande soddisfazione. Sono passati appena tre mesi
dal referendum sulla riforma costituzionale e oggi, qui, siamo riusciti
a riprendere un dialogo tra orientamenti culturali e ispirazioni
diversi, che forse da troppo tempo non riuscivano a incontrarsi. Il
rischio di essere tutti risucchiati in un permanente frontismo
istituzionale, in una logica da opposti estremismi sui temi delle
riforme, mi pare così scongiurato. E ne sono contento.
D’altra parte, oggi, in Italia, la discriminante in questa materia non è
quella tra destra e sinistra, ma – trasversalmente - tra innovazione e
conservazione dello status quo, tra coraggio di osare e rendite
di posizione.
Credo di condividere con voi l’idea che la variabile istituzionale sia
decisiva per sostenere la spinta all’innovazione. E sono altrettanto
convinto che questa prospettiva debba essere seguita perseverando nello
sforzo di costruire una democrazia competitiva, bipolare, maggioritaria,
dell’alternanza e, soprattutto, fondata su aggregazioni coese.
Purtroppo, ma non per caso, si va diffondendo la leggenda metropolitana
che il maggioritario italiano sia stato un fallimento totale, che abbia
tradito le proprie promesse, che non abbia assicurato la stabilità e i
risultati preannunziati.
La mia tesi, detto molto chiaramente, è invece che di maggioritario, in
Italia, ce ne sia stato troppo poco (basti pensare alle regole
parlamentari; ai criteri del finanziamento pubblico o dell’editoria
politica) e che quel processo di evoluzione abbia subito una terribile
battuta d’arresto con la legge elettorale approvata alla fine della
scorsa legislature.
Innanzitutto va detto che, al di là delle leggende, il maggioritario ha
funzionato. Ha dato i frutti che poteva dare. E il frutto principale si
chiama bipolarismo. Nelle ultime quattro legislature si è realizzata
un’alternanza stabile e sempre più netta tra schieramenti. E’ stato
possibile realizzare politiche impensabili solo qualche anno prima.
Ma
il bipolarismo da solo non basta.
I successi ottenuti non sono irreversibili. I limiti riscontrati non
saranno a lungo tollerabili.
E’ necessario oggi oltrepassare questa prima fase ed aprire la strada
ad un orizzonte bipartitico.
La prima fase del bipolarismo si potrebbe denominare quella del
“bipolarismo di coalizione”.
Si fonda su di un equilibrio strabico e schizofrenico che non può
durare a lungo.
E’ strabico perché crea una tensione incomponibile tra spinta
all’unità “della”
coalizione e spinta alla competizione “nella”
coalizione. Ci si unisce contro lo schieramento avversario, ma poi
l’esigenza di preservare le identità e la visibilità di ciascun partner
scatena una strisciante o conclamata concorrenza dentro la coalizione. E
quanto più sono vicini – come si dice - nel “mercato elettorale”, quanto
più la loro “offerta politica” somiglia, tanto più i partiti competono
reciprocamente nello schieramento.
Dentro le coalizioni, insomma, continua ad operare prepotentemente la
logica proporzionalistica e contrattuale.
Ed anzi in un contesto così frammentato la conflittualità è una
necessità fisiologica, non un accidente.
In un contesto del genere è fisiologico, cioè, che la conservazione
dell’identità diventi il fine ed il potere di veto e di interdizione il
mezzo con cui operano i singoli partiti.
Ma vi è di più.
Oltre a provocare l’instabilità dello schieramento, il bipolarismo di
coalizione tende a impedire l’evoluzione delle forme dell’azione
politica verso sintesi nuove, perché “ingessa” lo stato dei partiti
sulle appartenenze e identità consolidate e quindi scoraggia le
contaminazioni culturali. I partiti e gli apparati – per una logica
interna che prescinde dalle sincere volontà di molti - tendono a
riprodursi come soggetti separati che intrattengono con gli alleati
rapporti diplomatico-negozionali, diffidando e temendo la nascita di un
distinto e autonomo senso di appartenenza allo schieramento complessivo.
La nuova legge elettorale, anziché arginare questa contraddizione l’ha,
se possibile, ancora più accentuata.
Quali che ne fossero le intenzioni, gli effetti sono sotto gli occhi di
tutti.
Quell’esile, anche se instabile, equilibrio tra uninominale
maggioritario e proporzionale proprio del Mattarellum è stato
drasticamente sbilanciato a favore della logica proporzionale. Basta
guardare la scheda. E’ scomparso il nome della coalizione, è scomparso
il nome del candidato premier, sono scomparsi i collegi uninominali e
così è scomparso il nome del candidato uninominale. L’elettore intuisce
che ci sia una coalizione perché i partiti sono indicati sulla scheda
una accanto all’altro. Tutto qui.
Ed il meccanismo elettorale è perfettamente coerente con questo
sbilanciamento. Il voto va solo al partito, le soglie di sbarramento di
fatto non esistono più, i candidati sono inseriti in un elenco così
lungo e anonimo che praticamente ci si può nascondere chiunque. La
possibilità di pluricandidature conclude lo scempio. Un terzo dei
parlamentari sono oggi eletti in conseguenza delle opzioni dei
plurieletti. Detto in altri termini, sono scelti da chi è già stato
eletto. Ciò vuol dire che un terzo dei parlamentari, fino al momento
dell’opzione, sta con il cappello in mano ad attendere che il suo
dominus si decida in suo favore.
Un sistema elettorale parassitario, in cui i travet si agganciano
all’immagine di pochi leader o notabili ed affidano a loro il proprio
destino.
Inoltre un sistema elettorale che consente anche a chi abbia lo 0,7 per
cento di voti di avere una presenza in parlamento e condizionare la
coalizione, non conduce inevitabilmente allo sbriciolamento della
rappresentanza?
Questo stato di cose non può che preoccupare.
E questo è il momento di intervenire. E’ giunta l’ora di affrontare il
nodo fondamentale del rinnovamento della democrazia. E questo nodo si
chiama sistema dei partiti e della rappresentanza.
Il bipolarismo di per sé non è più sufficiente. C’è bisogno di un salto
ulteriore, se non si vuol precipitare all’indietro.
E questo salto riguarda il modo di costruire la rappresentanza. Si
chiama bipartitismo.
Si tratta di concepire infatti una nuova divisione del lavoro
politico, facendo dei partiti non il luogo delle identità statiche,
ma quello delle mediazioni culturali e programmatiche del pluralismo,
lasciando cos= all’aggregazione unitaria il compito di dare coerente e
responsabile attuazione agli indirizzi politici di governo, elaborati in
base a sintesi
nei partiti
e non
negoziati tra i partiti. Si tratta, d’altra parte,
della divisione del lavoro politico più tipica delle democrazie europee
secondo il modello che gli studiosi chiamano di “governo di partito
responsabile”.
Ed è questa una percezione presente nelle stesse forze politiche, là
dove, si fanno strada – faticosamente – proposte di riaggregazione, come
il partito dei moderati o il partito dei democratici.
Il destino dei nuovi partiti politici si gioca pertanto sulla
credibilità elettorale di essi come partiti di governo e sulla capacità
di riconoscere il ruolo del cittadino come arbitro della competizione.
Chi voglia candidarsi alla guida del paese dovrà essere in grado di
mostrare unità, coerenza e compattezza.
Le primarie (o equivalenti meccanismi di selezione delle
dirigenza politica) e la legge elettorale sono gli anelli
fondamentali di questa trasformazione in un contesto bipolare e
bipartitico.
In questa prospettiva il modello del collegio uninominale,
collegato ad un sistema di primarie di collegio mi pare ancora il
più auspicabile.
Il sistema tedesco, invece, è un abbaglio.
Si tratta di un sistema elettorale totalmente proporzionale dove i
collegi uninominali servono solo a scegliere i candidati dei partiti che
vincono nel proporzionale. In Germania funziona per tre motivi: perche'
i partiti estremisti sono stati, fin dall’inizio, posti fuori legge;
perche' la soglia di sbarramento e' molto alta; perche' non c'e' una
tradizione trasformistica e ribaltonistica. In quel sistema, per di più
sono state espressamente introdotte (nei regolamenti parlamentari) norme
antitrasformistiche e norme che impediscono di aggirare la soglia
presentandosi uniti e dividendosi poi in Parlamento.
Nessuna di queste condizioni e' presente oggi in Italia.
L’imitazione del sistema tedesco è dunque un’illusione perché,
tra i due paesi, sono del tutto diverse le condizioni politiche e
culturali, la tradizione di disciplina e autodisciplina dei partiti, la
propensione all’aggregazione, la lealtà di coalizione, ecc.
Tutti ci attendiamo che il Parlamento trovi le risorse per approdare ad
una riforma, ma certo l’imitazione della Germania sarebbe, in questo
caso, veramente faustiana.
Ma cosa fare se, ancora una volta, si registrerà l’incapacità di
autoriforma del sistema? Cosa fare nel caso in cui si materializzi il
famoso “paradosso delle riforme”: per cui quanto più le riforme del
sistema sono necessarie, tanto più è difficile farle da parte di un
sistema politico in crisi?
Ripropongo qui le idee maturate negli ultimi tempi.
La prima proposta è quella di un referendum abrogativo parziale della
legge elettorale di Camera e Senato rivolto ad eliminare le coalizioni
elettorali e i collegamenti tra più liste ed a costringere chi
voglia candidarsi al governo (e concretamente ottenere il premio di
maggioranza) a costituire un’unica lista, una lista, appunto, unitaria.
Solo singole liste infatti potrebbero, con questa ipotesi referendaria,
aspirare ad ottenere il premio di maggioranza.
D’altra parte, però, essa non impedirebbe alle minoranze più intense,
che non vogliano concorrere per il governo, di ottenere una
rappresentanza e godere di un diritto di tribuna, qualora conquistino
una sufficiente consistenza elettorale nel paese (il 4%), senza però che
ciò minacci la governabilità.
La seconda proposta mira a colpire la deriva notabilare e
oligarchica impressa dalla legge elettorale. In particolare attacca
quella odiosa forma di cooptazione che consegue alle candidature
multiple e che induce inevitabilmente atteggiamenti di sudditanza
psicologica e di disponibilità alla subordinazione dei cooptandi,
atteggiamenti che danneggiano fortemente la dignità e la natura della
funzione parlamentare.
Per questa ragione ho proposto l’eliminazione – sempre mediante
referendum - della facoltà di candidature multiple sia alla Camera
che al Senato. D’altra parte non convince l’argomento che la
presentazione in più circoscrizioni servirebbe a nazionalizzare la
competizione ed a rafforzare la leadership. Tony Blair si presenta
diligentemente in un unico collegio e non per questo, mi pare, sia
carente di leadership.
La terza proposta riguarda invece la formazione delle liste. Purtroppo
non c’è modo, in via referendaria, di intervenire sul sistema delle
amplissime liste bloccate.
Questo però non può essere un alibi.
Né una soluzione può essere l’introduzione del sistema delle preferenze
ià bocciato con il referendum del 1991. Un sistema che produrrebbe
clientela, correntismo, voto di scambio e spappolerebbe ancora di più la
rappresentanza in clan e cordate.
Anche le preferenze sono un evidente abbaglio agitato davanti agli occhi
degli elettori con l’illusione e nel nome della libertà.
Se ciò è vero, un intervento significativo sulla formazione delle liste
può essere semmai realizzato attraverso una auto-disciplina interna ai
partiti. Una disciplina che i partiti possono elaborare senza
necessità di una legge. E dunque una sfida a loro stessi, che può
smascherare anche l’eventuale pretestuosità delle relative affermazioni.
Credo che la strada da battere sia invece quella delle “primarie di
collegio”, recuperando e adattando se necessario le circoscrizioni
uninominali già previste nella legge elettorale precedente. Le
candidature dovrebbero cioè essere scelte con il sistema del collegio
uninominale.
I candidati selezionati nei singoli collegi dovrebbero poi essere
ordinati nella lista bloccata in base al proprio consenso relativo in
ciascun collegio. E’ esattamente il sistema già sperimentato
dalla vecchia legge elettorale del Senato per assegnare i seggi nella
quota proporzionale.
In questo modo le liste verrebbero composte sulla base di competizioni
primarie in collegi uninominali.
In
conclusione.
La legge elettorale è stata un fulmine a ciel sereno. Ha interrotto un
processo che, tra limiti ed esitazioni, ci stava lentamente conducendo
fuori dalle secca.
E vorrà pur dire qualcosa se il Financial Times di oggi, in un
editoriale sull’Italia, afferma senza mezzi termini che la priorità
assoluta è la riforma elettorale e che il “nuovo sistema proporzionale è
praticamente una garanzia di stallo politico”.
Tutti attendiamo un risoluto intervento del Parlamento. Ma se ciò non
avvenisse in tempi brevi credo sia doveroso assumersi la responsabilità
di un’iniziativa civile, aperta e condivisa dalle varie ispirazioni.
A quasi 15 anni dal 1993 la prima fase del bipolarismo è ormai
consolidata. I cittadini possono scegliere tra due schieramenti
contrapposti, premiando o punendo, la condotta di governo. Si tratta di
aprire una prospettiva ulteriore. Due grandi aggregazioni che raccolgano
gli orientamenti di ciascuno schieramento e facciano le sintesi da
presentare ai cittadini.
Una democrazia nella quale l’indirizzo politico è continuamente
minacciato da veti incrociati e da congiure di palazzo non può aspirare
ad un ruolo significativo nel contesto del XXI secolo.
Non c’è dubbio che la democrazia contemporanea non può che essere una
democrazia “con i partiti”, cui spetta l’ineliminabile funzione di
essere tramite tra cittadini ed istituzioni. A seconda delle fasi e dei
contesti politici, le funzioni dei partiti però variano, anche perché
varia l’equilibrio tra esigenza rappresentativa ed esigenza di
efficienza decisionale. La combinazione di questi due elementi è
l’eterna sfida della democrazia rappresentativa.
Nell’attuale scenario ai partiti è attribuito un compito più gravoso
del passato. Non si tratta più di rappresentare identità statiche,
pezzi di un mosaico da comporre dopo, in sede di contrattazione
consociativa, ma di operare una selezione ed una semplificazione
“a monte” degli interessi e delle domande, adeguata alla
complessità, senza che tutti i conflitti e i relativi costi siano
scaricati sulle istituzioni e ne paralizzino il funzionamento in
estenuanti trattative.
Anche per questi motivi, la prospettiva della costruzione di un
orizzonte bipartitico mi pare un’ardua e appassionante sfida all’altezza
dei tempi.
La costituzione affida ai partiti due funzioni: selezionare programmi
attraverso una sintesi del pluralismo e selezionare persone.
Una democrazia in cui sono necessari più di 20 partiti e 14 gruppi
parlamentari per sintetizzare il pluralismo non è una democrazia sana.
Una democrazia nella quale un terzo del parlamento è scelto da chi è già
eletto, non è una democrazia sana.
E’ necessario guardare al futuro. Ai leader moderati molti italiani
potrebbero domandare: ma siete sicuri che i De GAsperi, Moro, Ruffilli,
Nenni, Spadolini Berlinguer o
La Malfa
oggi, proprio per le diverse condizioni storiche, avrebbero sostenuto
una formula da grande centro e non, invece, offerto una spinta verso
quella fase matura della democrazia, verso la democrazia compiuta,
quella “terza fase” morotea in cui “coloro che hanno più filo tessere lo
tesseranno”?
Ai leaders dei partiti alle estreme, molti italiani potrebbero
domandare: ma siete sicuri che coltivare gelosamente un piccolo consenso
identitario e residuale, sia meglio che spenderlo in un grande partito,
contaminando della propria radicalità le posizioni altrui?
I cittadini sono preoccupati. Scandali come quello Telecom o quelli
degli scorsi mesi, diffondono un sentimento di incertezza e di doppiezza
della vita pubblica e civile che è difficilmente tollerabile. Il sistema
appare vulnerabile, penetrato da forze anonime refrattarie al controllo
democratico. E riemerge prepotentemente la tentazione di cercarsi un
“patrono” di cui essere cliente.
C’è oggi in Italia una grande bisogno di orientamento ed anche una
grande domanda di partecipazione. Tali attese possono degenerare in una
deriva populistica o evolvere verso una politica di qualità,
responsabile e operativa.
Una cornice istituzionale solida e stabile è un elemento fondamentale
per determinare quale dei due scenari prevarrà.
E’ per tutti questi motivi che l’iniziativa di oggi si rivolge a tutti
coloro che hanno a cuore il destino della nostra democrazia, siano essi
impegnati nella società civile, siano essi militanti di partito.
L’invito è quello di guardare avanti ed evitare l’errore della moglie di
Lot, che per volgersi indietro fu trasformata in una statua di sale. E
lì rimase.
Archivio Referendum elettorale
|