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05/11/2008 L' America entra alla casa bianca (Fabrizio Casari, http://altrenotizie.org)

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Il quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America è Barak Hussein Obama, democratico e di colore. Mentre sono ancora in corso le operazioni di spoglio, Obama si è già aggiudicato 330 grandi elettori, quando ne bastavano 270 per vincere. La vittoria garantisce la maggioranza al Congresso e al Senato. E’ dunque un successo straordinario per il senatore afroamericano, che ha saputo convincere gli americani dell’urgenza del cambiamento. E che si siano convinti che solo il candidato democratico potesse rappresentare la via d’uscita dalla crisi economica, politica e morale che colpisce gli Usa, lo si evince dall’affluenza record alle urne. Quello che questa vittoria rappresenta, infatti, è in primo luogo la fine del reaganismo, imperante negli Usa dall’inizio degli anni ’80 e che nemmeno i due mandati di Clinton avevano messo in discussione, essendo stati caratterizzati da una sorta di continuità nelle politiche economiche e nella politica estera. Il voto americano si presenta comunque come una sentenza senz’appello nei confronti dell’Amministrazione Bush, la peggiore della storia americana; Bush che aveva ormai come unico estimatore Berlusconi, visto che gli stessi repubblicani - McCain per primo – hanno tentato di prendere le distanze in ogni modo dal texano dalla bottiglia facile.

La sconfitta dell’anziano senatore dell’Arizona si deve in primo luogo proprio alla paura (più che giustificata) che una sua affermazione avrebbe, in sostanza, rappresentato un elemento di continuità delle politiche della gang texana insediata da due mandati a Washington. Gli otto anni di Bush sono apparsi come i più catastrofici sotto ogni profilo: la sua Amministrazione ha infatti distrutto l’economia statunitense, stracciato i diritti civili ed il codice penale, rovinato l’immagine democratica degli Usa, azzerato le sue capacità di dissuasione militare e annichilito sotto il peso delle menzogne e sotto l’infamia delle torture, quello che gli americani considerano ( a torto più che a ragione) la loro “superiorità etica”.

Guerre ingaggiate e perse, centinaia di miliardi di dollari in spese militari e migliaia di vite buttate al vento, allo scopo di arricchire le lobby petrolifere e quelle delle armi che avevano nel presidente Bush il burattino da muovere tirando i fili a seconda delle loro convenienze. E le immagini dell’ormai ex-presidente ubriaco fradicio sulle scalinate dello stadio di Pechino, portato a braccio dalla scorta sotto gli occhi attoniti della sua stessa figlia, simbolizzano meglio di ogni parola la fine ingloriosa di un alcolizzato incompetente che mai avrebbe dovuto arrivare dove è arrivato; l’ultimo (almeno per ora) pegno che la democrazia americana paga da trentacinque anni alla dinastia dei Bush.

Con la vittoria di Obama il quadro cambia sensibilmente, in profondità, annunciando un nuovo New Deal, cioè una politica attenta alle fasce più deboli della popolazione. Sul piano economico, grazie anche alla crisi del modello monetarista, riprende vigore una concezione keynesiana dell’economia, concepita come produzione di beni e servizi e vitalità del consumo interno, e non come pura speculazione finanziaria. Il lavoro riprende la sua centralità nelle politiche economiche, dato che il programma elettorale che ha portato il senatore dell’Illinois alla Casa Bianca prevede importanti politiche attive per il lavoro e riduzione delle imposte per i lavoratori. E anche sul piano specifico del welfare, di conseguenza, la promessa d’investire sull’istruzione costruendo più scuole e di estendere con appositi programmi l’assicurazione sanitaria a coloro che non possono permettersela - e di renderla comunque gratuita per i bambini fino a due anni di vita - rappresenta già un evidente segno di cambiamento per quei 45 milioni di americani disoccupati e privi di copertura sanitaria. Proprio qui – e non solo qui - sta la spiegazione dell’affluenza record alle urne, con un impegno diretto sia della middle-class che delle minoranze etniche (afroamericani ed ispanici in primo luogo) che hanno votato in massa per Obama.

Sull’ambiente e sui diritti civili, oltre che sulle scelte sociali ed economiche, il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà cercare di ricostruire il cemento di una nazione in preda ad una frammentazione epocale, proponendosi come il Presidente degli americani e non solo di quelli a reddito stellare, ma anche in politica estera Obama avrà un compito non certamente facile. Dovrà in primo luogo ricostruire l’immagine e l’autorevolezza della superpotenza malata e questo non potrà che esser fatto cominciando a ridisegnare completamente la politica internazionale statunitense. L’unipolarismo di Bush, che ha tentato di schiacciare il mondo sotto il tallone dello zio Sam, dovrà lasciare il posto ad una nuova concezione della governance globale, concepita sulla base del multipolarismo e della condivisione con gli altri partners, ma soprattutto sulla base della mediazione internazionale che riduca di gran lunga la gittata degli “interessi vitali degli Usa”, in nome della cui difesa, gli ultimi otto anni sono stati disegnati da Washington sulla punta delle armi e degli interessi delle sue aziende. Ma Obama è anche atteso da segnali precisi sullo scacchiere internazionale, in particolare sulle aree di crisi.

Ritiro dall’Iraq, riapertura delle trattative per la nascita effettiva dello Stato palestinese e contrasto del fondamentalismo islamico in Asia, anche attraverso la revisione delle politiche delle alleanze, quella con il Pakistan in primo luogo; riapertura del dialogo con Mosca, a partire dallo stop al programma di scudo missilistico in funzione antirussa nell’Europa dell’Est e dalla fine del finanziamento e dell’organizzazione dei processi secessionistici nell’ex Urss; allargamento e approfondimento del dialogo con Pechino, che non può continuare ad essere tenuto ai margini dei processi di governo della globalizzazione. E, nello specifico dell’America Latina, molti sperano che la sua vittoria migliori le relazioni con Cuba e quindi la vita sull'isola. In campagna elettorale Obama ha promesso di allentare l'embargo commerciale e ha mostrato disponibilità a dialogare con il governo caraibico. La sua elezione comunque, avrà importanti ripercussioni su tutto il continente centro e sud americano, anche se su temi quali la riforma dell'immigrazione, i trattati di libero commercio e gli equilibri geopolitici, ci sono state più dichiarazioni retoriche che non prese di posizioni concrete.

Solo a queste condizioni il “cambiamento” potrà avere un riscontro tangibile e lo stesso ruolo degli Stati Uniti potrà risentire positivamente della novità per ora solo annunciata. Resta forte, comunque, il dubbio che Obama potrà superare i “blocchi” che i poteri forti statunitensi - il complesso militar-industriale in primo luogo - sono in grado di esercitare sulla Casa Bianca. Ma oggi, per la prima volta, il Presidente è meno condizionabile che in passato ed è probabilmente meno inquinato dalle diverse lobbies che stritolano Washington. In questo senso l’autonomia politica del neopresidente ha un peso maggiore che nel passato, dal momento che dalle urne americane, del resto, è uscito un segnale non equivocabile, con una forza anche numerica mai conosciuta in precedenza. Sarà questo il capitale vero di cui godrà Barak Obama per mantenere ciò che ha promesso. Speriamo che l’investa nella direzione giusta.

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