Il
quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America
è Barak Hussein Obama, democratico e di colore. Mentre
sono ancora in corso le operazioni di spoglio, Obama si è
già aggiudicato 330 grandi elettori, quando ne bastavano
270 per vincere. La vittoria garantisce la maggioranza al
Congresso e al Senato. E’ dunque un successo straordinario
per il senatore afroamericano, che ha saputo convincere
gli americani dell’urgenza del cambiamento. E che si siano
convinti che solo il candidato democratico potesse
rappresentare la via d’uscita dalla crisi economica,
politica e morale che colpisce gli Usa, lo si evince
dall’affluenza record alle urne. Quello che questa
vittoria rappresenta, infatti, è in primo luogo la fine
del reaganismo, imperante negli Usa dall’inizio degli anni
’80 e che nemmeno i due mandati di Clinton avevano messo
in discussione, essendo stati caratterizzati da una sorta
di continuità nelle politiche economiche e nella politica
estera. Il voto americano si presenta comunque come una
sentenza senz’appello nei confronti dell’Amministrazione
Bush, la peggiore della storia americana; Bush che aveva
ormai come unico estimatore Berlusconi, visto che gli
stessi repubblicani - McCain per primo – hanno tentato di
prendere le distanze in ogni modo dal texano dalla
bottiglia facile.
La sconfitta dell’anziano senatore dell’Arizona si deve in
primo luogo proprio alla paura (più che giustificata) che
una sua affermazione avrebbe, in sostanza, rappresentato
un elemento di continuità delle politiche della gang
texana insediata da due mandati a Washington. Gli otto
anni di Bush sono apparsi come i più catastrofici sotto
ogni profilo: la sua Amministrazione ha infatti distrutto
l’economia statunitense, stracciato i diritti civili ed il
codice penale, rovinato l’immagine democratica degli Usa,
azzerato le sue capacità di dissuasione militare e
annichilito sotto il peso delle menzogne e sotto l’infamia
delle torture, quello che gli americani considerano ( a
torto più che a ragione) la loro “superiorità etica”.
Guerre ingaggiate e perse, centinaia di miliardi di
dollari in spese militari e migliaia di vite buttate al
vento, allo scopo di arricchire le lobby petrolifere e
quelle delle armi che avevano nel presidente Bush il
burattino da muovere tirando i fili a seconda delle loro
convenienze. E le immagini dell’ormai ex-presidente
ubriaco fradicio sulle scalinate dello stadio di Pechino,
portato a braccio dalla scorta sotto gli occhi attoniti
della sua stessa figlia, simbolizzano meglio di ogni
parola la fine ingloriosa di un alcolizzato incompetente
che mai avrebbe dovuto arrivare dove è arrivato; l’ultimo
(almeno per ora) pegno che la democrazia americana paga da
trentacinque anni alla dinastia dei Bush.
Con la vittoria di Obama il quadro cambia sensibilmente,
in profondità, annunciando un nuovo New Deal, cioè una
politica attenta alle fasce più deboli della popolazione.
Sul piano economico, grazie anche alla crisi del modello
monetarista, riprende vigore una concezione keynesiana
dell’economia, concepita come produzione di beni e servizi
e vitalità del consumo interno, e non come pura
speculazione finanziaria. Il lavoro riprende la sua
centralità nelle politiche economiche, dato che il
programma elettorale che ha portato il senatore
dell’Illinois alla Casa Bianca prevede importanti
politiche attive per il lavoro e riduzione delle imposte
per i lavoratori. E anche sul piano specifico del welfare,
di conseguenza, la promessa d’investire sull’istruzione
costruendo più scuole e di estendere con appositi
programmi l’assicurazione sanitaria a coloro che non
possono permettersela - e di renderla comunque gratuita
per i bambini fino a due anni di vita - rappresenta già un
evidente segno di cambiamento per quei 45 milioni di
americani disoccupati e privi di copertura sanitaria.
Proprio qui – e non solo qui - sta la spiegazione
dell’affluenza record alle urne, con un impegno diretto
sia della middle-class che delle minoranze etniche (afroamericani
ed ispanici in primo luogo) che hanno votato in massa per
Obama.
Sull’ambiente e sui diritti civili, oltre che sulle scelte
sociali ed economiche, il nuovo inquilino della Casa
Bianca dovrà cercare di ricostruire il cemento di una
nazione in preda ad una frammentazione epocale,
proponendosi come il Presidente degli americani e non solo
di quelli a reddito stellare, ma anche in politica estera
Obama avrà un compito non certamente facile. Dovrà in
primo luogo ricostruire l’immagine e l’autorevolezza della
superpotenza malata e questo non potrà che esser fatto
cominciando a ridisegnare completamente la politica
internazionale statunitense. L’unipolarismo di Bush, che
ha tentato di schiacciare il mondo sotto il tallone dello
zio Sam, dovrà lasciare il posto ad una nuova concezione
della governance globale, concepita sulla base
del multipolarismo e della condivisione con gli altri
partners, ma soprattutto sulla base della mediazione
internazionale che riduca di gran lunga la gittata degli
“interessi vitali degli Usa”, in nome della cui difesa,
gli ultimi otto anni sono stati disegnati da Washington
sulla punta delle armi e degli interessi delle sue
aziende. Ma Obama è anche atteso da segnali precisi sullo
scacchiere internazionale, in particolare sulle aree di
crisi.
Ritiro dall’Iraq, riapertura delle trattative per la
nascita effettiva dello Stato palestinese e contrasto del
fondamentalismo islamico in Asia, anche attraverso la
revisione delle politiche delle alleanze, quella con il
Pakistan in primo luogo; riapertura del dialogo con Mosca,
a partire dallo stop al programma di scudo missilistico in
funzione antirussa nell’Europa dell’Est e dalla fine del
finanziamento e dell’organizzazione dei processi
secessionistici nell’ex Urss; allargamento e
approfondimento del dialogo con Pechino, che non può
continuare ad essere tenuto ai margini dei processi di
governo della globalizzazione. E, nello specifico
dell’America Latina, molti sperano che la sua vittoria
migliori le relazioni con Cuba e quindi la vita
sull'isola. In campagna elettorale Obama ha promesso di
allentare l'embargo commerciale e ha mostrato
disponibilità a dialogare con il governo caraibico. La sua
elezione comunque, avrà importanti ripercussioni su tutto
il continente centro e sud americano, anche se su temi
quali la riforma dell'immigrazione, i trattati di libero
commercio e gli equilibri geopolitici, ci sono state più
dichiarazioni retoriche che non prese di posizioni
concrete.
Solo a queste condizioni il “cambiamento” potrà avere un
riscontro tangibile e lo stesso ruolo degli Stati Uniti
potrà risentire positivamente della novità per ora solo
annunciata. Resta forte, comunque, il dubbio che Obama
potrà superare i “blocchi” che i poteri forti statunitensi
- il complesso militar-industriale in primo luogo - sono
in grado di esercitare sulla Casa Bianca. Ma oggi, per la
prima volta, il Presidente è meno condizionabile che in
passato ed è probabilmente meno inquinato dalle diverse
lobbies che stritolano Washington. In questo senso
l’autonomia politica del neopresidente ha un peso maggiore
che nel passato, dal momento che dalle urne americane, del
resto, è uscito un segnale non equivocabile, con una forza
anche numerica mai conosciuta in precedenza. Sarà questo
il capitale vero di cui godrà Barak Obama per mantenere
ciò che ha promesso. Speriamo che l’investa nella
direzione giusta.
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