Mentre
stanno iniziando le audizioni di fronte alle varie
commissioni del Congresso per i candidati ad entrare a far
parte della nuova amministrazione democratica, il 44esimo
presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, sta
imprevedibilmente incontrando una serie di ostacoli nel
promuovere il suo piano di stimolo per un’economia in fase
di recessione. A sollevare qualche dubbio non è stata
tanto l’agguerrita minoranza repubblicana arroccata su
posizioni sempre più tendenti verso destra, bensì la
sinistra del suo stesso partito. Nel muovere i primi passi
del suo primo mandato alla guida del paese, Obama rischia
così di essere scavalcato da subito nel suo ruolo di
principale agente di cambiamento dai colleghi di partito
del Senato e della Camera dei Rappresentanti, i quali
temono l’inefficacia di un intervento governativo troppo
timido di fronte alla situazione in cui versa il paese.
Che la crisi economica sia l’emergenza principale da
affrontare per Obama non appena si installerà alla Casa
Bianca è fuori discussione. Prima ancora del pacchetto in
fase di definizione dai membri del team del
presidente-eletto, il Congresso sarà chiamato a sbloccare
- o a respingere - la seconda metà del controverso fondo
da 700 miliardi di dollari (“TARP” o “Troubled Asset
Relief Program”) stanziato da Bush e dal segretario al
Tesoro, Hank Paulson, lo scorso autunno all’esplodere
della bolla finanziaria. Se l’efficacia dell’erogazione
della prima tranche del denaro in questione, finito in
gran parte a dare ossigeno a banche e industrie
automobilistiche in affanno, risulta quanto meno
discutibile, Barack Obama ha cercato di assicurare i
membri del Congresso che il saldo, in attesa del via
libera definitivo, sarà vincolato a più rigide condizioni
da imporre ai beneficiari. Ciò ha consentito a Obama di
incassare l’OK da parte del Senato e non ci saranno troppe
difficoltà anche alla Camera, dove i democratici godono di
una maggioranza più ampia.
Con una serie di visite al Campidoglio, il neo-presidente
americano ha voluto definire da subito il suo
atteggiamento di collaborazione con il ramo legislativo.
Un modo di procedere ben diverso da quello adottato negli
ultimi otto anni da George W. Bush e che è stato accolto
molto positivamente dagli ex colleghi del Congresso. Anche
se c’è da presumere che i rapporti tra Obama e il
Congresso a maggioranza democratica saranno improntati
alla cordialità, per lo meno nei primi mesi del suo
mandato, all’orizzonte si prevedono comunque negoziati
piuttosto serrati sul piano di stimolo all’economia che
finiranno per rinviarne l’approvazione a non prima della
metà di febbraio.
Il pacchetto Obama, nel frattempo, è lievitato fino a
circa 850 miliardi di dollari ed ha cambiato fisionomia
sotto l’aspetto della ripartizione della spesa. Il tutto
sotto la spinta delle richieste dei deputati democratici.
Mentre l’intenzione iniziale del nuovo presidente era
quella di porre l’accento su nuovi tagli alle tasse per
aziende e privati, i leader della maggioranza al Congresso
hanno insistito invece per indirizzare oltre il 60% del
totale stanziato verso spese che dovrebbero creare, nella
più ottimistica delle ipotesi, da 3 a 4 milioni di posti
di lavoro nei prossimi due anni. Più della metà delle
nuove spese del governo federale saranno destinate agli
stati con problemi di bilancio, in modo da permettere loro
di continuare ad erogare ai cittadini almeno i servizi
essenziali. Tradotti in numeri, gli interventi
riguarderanno 80 miliardi di dollari per la scuola
pubblica, 90 miliardi per il programma di assistenza
sanitaria Medicaid e 85 miliardi per la costruzione di una
nuova rete di infrastrutture (in gran parte strade e
ponti).
Accordo totale dunque sullo spirito dell’intervento per
invertire la rotta dell’economia americana tra Casa Bianca
e Congresso, ma differenze anche rilevanti sui dettagli
dell’operazione che, secondo alcuni, al termine del
processo legislativo potrebbe sforare il tetto dei mille
miliardi di dollari. È rientrata, ad esempio, una proposta
iniziale (messa verosimilmente in campo per conquistare
qualche consenso tra i repubblicani) che prevedeva un
credito fiscale di 3.000 dollari per ogni posto di lavoro
creato o salvato dalle aziende statunitensi. Troppo
complesso implementarlo e soprattutto inutile per la
creazione di nuovi posti di lavoro, hanno obiettato i
parlamentari democratici. Una posizione generale condivisa
a tratti anche da molti deputati e senatori del Midwest e
del Sud, generalmente più moderati e attenti alle
problematiche di bilancio. I provvedimenti superstiti
legati al taglio delle imposte inoltre hanno ricevuto una
chiara spinta verso l’incoraggiamento delle energie
alternative e delle fonti rinnovabili, uno dei punti
centrali della campagna elettorale di Obama e che molti
altri paesi occidentali sembrano quanto meno ritardare
alla luce del recente crollo delle quotazioni del
petrolio.
Nonostante quello che sarà uno dei primi atti ufficiali di
Barack Obama ammonterà alla fine - come fa notare il
Washington Post - più o meno alla stessa cifra
necessaria per finanziare annualmente tutte le agenzie
federali americane, in molti stanno sollecitando il
presidente-eletto ad avere maggiore coraggio. Tra le voci
più prestigiose tra quelle che hanno manifestato
perplessità circa l’efficacia del pacchetto di stimolo
prospettato dalla prossima amministrazione per resuscitare
l’economia c’è quella del premio Nobel Paul Krugman.
Secondo l’autorevole economista, un intervento nell’ordine
degli 800 / 900 miliardi di dollari non sarebbe infatti in
grado di risollevare pienamente l’economia, ma basterebbe
piuttosto a rallentare e attenuare la recessione in corso.
L’esplosione della bolla finanziaria che ha messo in
ginocchio numerosi colossi di Wall Street lo scorso
settembre e il successivo processo involutivo che ha
coinvolto l’economia mondiale sembrava far presagire anche
in America - e di riflesso negli altri paesi occidentali -
l’avvento di una riforma complessiva del sistema economico
mondiale, approntata ad una maggiore regolamentazione e ad
un intervento più deciso dei governi per riequilibrare le
distorsioni del mercato. Pur non potendo giudicare
l’amministrazione Obama prima ancora del suo insediamento,
le scelte operate dal neo-presidente nella creazione dello
staff di governo che dovrà farsi carico dell’economia non
sono tuttavia per nulla incoraggianti.
Non solo il prossimo Segretario al Tesoro Tim Geithner e
il direttore del “National Economic Council” Lawrence
Summers hanno dimostrato nel corso della loro carriera un
chiaro orientamento “business friendly”, ma anche i due
organi deputati al controllo delle operazioni di borsa (“Securities
and Exchange Commission” e “Commodity Futures Trading
Commission”) saranno guidati da personalità coinvolte
nella creazione del caos finanziario degli ultimi mesi:
Mary Schapiro e Gary Gensler, rispettivamente ex
presidente dell’autorità preposta all’autoregolazione
dell’industria finanziaria ed ex sottosegretario al Tesoro
tra i più convinti sostenitori della liberalizzazione del
mercato dei derivati.
Particolarmente sconfortanti risultano le decisioni prese
da Obama per il suo staff economico, soprattutto alla luce
dell’audacia dimostrata nel riempire altre posizioni della
sua amministrazione. Basti pensare al nuovo segretario del
Lavoro, Hilda Solis, molto vicina alle organizzazioni
sindacali, a quello dell’Energia Steven Chu, premio Nobel
per la fisica e autorevole ricercatore nell’ambito delle
fonti energetiche alternative, oppure al prossimo
direttore della C.I.A. Leon Panetta, uno dei politici
democratici più critici dei metodi di tortura impiegati
dall’agenzia.
http://altrenotizie.org
Quest'opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons
Archivio Elezioni Americane
|