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18/01/2009 Il piano Obama all' esame del congresso (Michele Paris, http://www.altrenotizie.org)

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Mentre stanno iniziando le audizioni di fronte alle varie commissioni del Congresso per i candidati ad entrare a far parte della nuova amministrazione democratica, il 44esimo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, sta imprevedibilmente incontrando una serie di ostacoli nel promuovere il suo piano di stimolo per un’economia in fase di recessione. A sollevare qualche dubbio non è stata tanto l’agguerrita minoranza repubblicana arroccata su posizioni sempre più tendenti verso destra, bensì la sinistra del suo stesso partito. Nel muovere i primi passi del suo primo mandato alla guida del paese, Obama rischia così di essere scavalcato da subito nel suo ruolo di principale agente di cambiamento dai colleghi di partito del Senato e della Camera dei Rappresentanti, i quali temono l’inefficacia di un intervento governativo troppo timido di fronte alla situazione in cui versa il paese.

Che la crisi economica sia l’emergenza principale da affrontare per Obama non appena si installerà alla Casa Bianca è fuori discussione. Prima ancora del pacchetto in fase di definizione dai membri del team del presidente-eletto, il Congresso sarà chiamato a sbloccare - o a respingere - la seconda metà del controverso fondo da 700 miliardi di dollari (“TARP” o “Troubled Asset Relief Program”) stanziato da Bush e dal segretario al Tesoro, Hank Paulson, lo scorso autunno all’esplodere della bolla finanziaria. Se l’efficacia dell’erogazione della prima tranche del denaro in questione, finito in gran parte a dare ossigeno a banche e industrie automobilistiche in affanno, risulta quanto meno discutibile, Barack Obama ha cercato di assicurare i membri del Congresso che il saldo, in attesa del via libera definitivo, sarà vincolato a più rigide condizioni da imporre ai beneficiari. Ciò ha consentito a Obama di incassare l’OK da parte del Senato e non ci saranno troppe difficoltà anche alla Camera, dove i democratici godono di una maggioranza più ampia.

Con una serie di visite al Campidoglio, il neo-presidente americano ha voluto definire da subito il suo atteggiamento di collaborazione con il ramo legislativo. Un modo di procedere ben diverso da quello adottato negli ultimi otto anni da George W. Bush e che è stato accolto molto positivamente dagli ex colleghi del Congresso. Anche se c’è da presumere che i rapporti tra Obama e il Congresso a maggioranza democratica saranno improntati alla cordialità, per lo meno nei primi mesi del suo mandato, all’orizzonte si prevedono comunque negoziati piuttosto serrati sul piano di stimolo all’economia che finiranno per rinviarne l’approvazione a non prima della metà di febbraio.

Il pacchetto Obama, nel frattempo, è lievitato fino a circa 850 miliardi di dollari ed ha cambiato fisionomia sotto l’aspetto della ripartizione della spesa. Il tutto sotto la spinta delle richieste dei deputati democratici. Mentre l’intenzione iniziale del nuovo presidente era quella di porre l’accento su nuovi tagli alle tasse per aziende e privati, i leader della maggioranza al Congresso hanno insistito invece per indirizzare oltre il 60% del totale stanziato verso spese che dovrebbero creare, nella più ottimistica delle ipotesi, da 3 a 4 milioni di posti di lavoro nei prossimi due anni. Più della metà delle nuove spese del governo federale saranno destinate agli stati con problemi di bilancio, in modo da permettere loro di continuare ad erogare ai cittadini almeno i servizi essenziali. Tradotti in numeri, gli interventi riguarderanno 80 miliardi di dollari per la scuola pubblica, 90 miliardi per il programma di assistenza sanitaria Medicaid e 85 miliardi per la costruzione di una nuova rete di infrastrutture (in gran parte strade e ponti).

Accordo totale dunque sullo spirito dell’intervento per invertire la rotta dell’economia americana tra Casa Bianca e Congresso, ma differenze anche rilevanti sui dettagli dell’operazione che, secondo alcuni, al termine del processo legislativo potrebbe sforare il tetto dei mille miliardi di dollari. È rientrata, ad esempio, una proposta iniziale (messa verosimilmente in campo per conquistare qualche consenso tra i repubblicani) che prevedeva un credito fiscale di 3.000 dollari per ogni posto di lavoro creato o salvato dalle aziende statunitensi. Troppo complesso implementarlo e soprattutto inutile per la creazione di nuovi posti di lavoro, hanno obiettato i parlamentari democratici. Una posizione generale condivisa a tratti anche da molti deputati e senatori del Midwest e del Sud, generalmente più moderati e attenti alle problematiche di bilancio. I provvedimenti superstiti legati al taglio delle imposte inoltre hanno ricevuto una chiara spinta verso l’incoraggiamento delle energie alternative e delle fonti rinnovabili, uno dei punti centrali della campagna elettorale di Obama e che molti altri paesi occidentali sembrano quanto meno ritardare alla luce del recente crollo delle quotazioni del petrolio.

Nonostante quello che sarà uno dei primi atti ufficiali di Barack Obama ammonterà alla fine - come fa notare il Washington Post - più o meno alla stessa cifra necessaria per finanziare annualmente tutte le agenzie federali americane, in molti stanno sollecitando il presidente-eletto ad avere maggiore coraggio. Tra le voci più prestigiose tra quelle che hanno manifestato perplessità circa l’efficacia del pacchetto di stimolo prospettato dalla prossima amministrazione per resuscitare l’economia c’è quella del premio Nobel Paul Krugman. Secondo l’autorevole economista, un intervento nell’ordine degli 800 / 900 miliardi di dollari non sarebbe infatti in grado di risollevare pienamente l’economia, ma basterebbe piuttosto a rallentare e attenuare la recessione in corso.

L’esplosione della bolla finanziaria che ha messo in ginocchio numerosi colossi di Wall Street lo scorso settembre e il successivo processo involutivo che ha coinvolto l’economia mondiale sembrava far presagire anche in America - e di riflesso negli altri paesi occidentali - l’avvento di una riforma complessiva del sistema economico mondiale, approntata ad una maggiore regolamentazione e ad un intervento più deciso dei governi per riequilibrare le distorsioni del mercato. Pur non potendo giudicare l’amministrazione Obama prima ancora del suo insediamento, le scelte operate dal neo-presidente nella creazione dello staff di governo che dovrà farsi carico dell’economia non sono tuttavia per nulla incoraggianti.

Non solo il prossimo Segretario al Tesoro Tim Geithner e il direttore del “National Economic Council” Lawrence Summers hanno dimostrato nel corso della loro carriera un chiaro orientamento “business friendly”, ma anche i due organi deputati al controllo delle operazioni di borsa (“Securities and Exchange Commission” e “Commodity Futures Trading Commission”) saranno guidati da personalità coinvolte nella creazione del caos finanziario degli ultimi mesi: Mary Schapiro e Gary Gensler, rispettivamente ex presidente dell’autorità preposta all’autoregolazione dell’industria finanziaria ed ex sottosegretario al Tesoro tra i più convinti sostenitori della liberalizzazione del mercato dei derivati.

Particolarmente sconfortanti risultano le decisioni prese da Obama per il suo staff economico, soprattutto alla luce dell’audacia dimostrata nel riempire altre posizioni della sua amministrazione. Basti pensare al nuovo segretario del Lavoro, Hilda Solis, molto vicina alle organizzazioni sindacali, a quello dell’Energia Steven Chu, premio Nobel per la fisica e autorevole ricercatore nell’ambito delle fonti energetiche alternative, oppure al prossimo direttore della C.I.A. Leon Panetta, uno dei politici democratici più critici dei metodi di tortura impiegati dall’agenzia.

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