Gran parte degli analisti internazionali punta oggi gli occhi sull’Iran e
sfoglia la margherita: gli USA attaccheranno Teheran? Israele parteciperà
all’attacco? Gli iraniani si vendicheranno facendo “saltare per aria” ancor più
il vicino Iraq?
Mentre si disserta sui possibili scenari, fino ad ipotizzare le più strampalate
ipotesi e le inverosimili connivenze, la storia prende forma vicino a noi, si
manifesta ai nostri occhi. Che, ostinatamente, continuano ad osservare il dito.
Nella settimana appena trascorsa si sono svolte nell’Europa orientale due
tornate elettorali di una certa importanza: la riconferma del presidente
bielorusso Lukashenko e l’amletico risultato delle elezioni ucraine.
Entrambe le consultazioni ci consentono di “tastare il polso” al grande est, a
ciò che un tempo era URSS ed oggi è diventato un evanescente “non so”.
I due risultati – all’apparenza diversi – raccontano in realtà la stessa
vicenda: la difficoltà per gli ex satelliti di Mosca di ritrovare una propria
identità, una strada che non sia il vecchio e putrescente “grande mondo antico”
di nonno Breznev od i salti nel buio dell’iperspazio liberista. Proprio un bel
dilemma.
In Bielorussia gli elettori hanno scelto la conservazione dell’apparato:
elezioni dove si vince con il 93% dei suffragi non indicano certo una
cristallina democrazia, ma manifestazioni dell’opposizione che si zittiscono
dopo poche ore testimoniano che il dissenso non è fortemente radicato nella
società bielorussa. C’è stata anche la repressione di regime, ma nessun regime
riesce a sopravvivere se non gode dell’appoggio di vasti strati della
popolazione.
La Bielorussia
è una delle spine nel fianco dell’amministrazione USA – che giunse a finanziare
centinaia di ONG per sottrarre consensi a Lukashenko – perché l’affermazione di
una fazione filo-occidentale nel paese consentirebbe a Bush di “chiudere il
cerchio” nei confronti di Mosca.
In Ucraina, invece, dopo la travolgente affermazione d’appena un anno fa della
fazione filo-occidentale si torna agli amletici dubbi, con la parte filo-russa
che vince sì, ma di misura.
Cosa raccontano le due vicende? Sostanzialmente la stessa storia, osservata da
due distinti punti di vista.
Ciò che unisce i due fenomeni è la percezione che qualcosa è cambiato: il “sogno
occidentale” – sotto forma di dollari o di euro – non s’è visto mentre lo
spauracchio orientale – che ha assunto le forme del ricatto energetico – è
apparso evidente, tangibile per tutti.
Inutile raccontare frottole: né gli USA – impelagati nel pantano iracheno e con
un dollaro che attira sempre meno fiducia – né l’Unione Europea – alle prese con
una costituzione che pochi approvano e con una risibile crescita economica –
possono diventare sicuri approdi per chi vuole fuggire da un passato che rose e
fiori non era di certo.
A Minsk hanno preferito le poche sicurezze del fatiscente stato sociale
d’ispirazione sovietica alle sirene occidentali; a Kiev hanno provato per un
anno le aperture liberiste ed oggi sono nuovamente dubbiosi.
Se allarghiamo la prospettiva geografica riusciamo a capire le radici del
problema:
la Cina
incrementa il proprio PIL del 9% circa l’anno, l’India del 6% e
la Russia del
7%. L’UE cresce meno del 2% e gli USA appena un poco di più (ma estendendo
sempre di più il debito interno ed estero). Fredde cifre che indicano chiari
orizzonti.
Se l’incremento cinese ed indiano è dovuto al settore industriale, quello russo
nasce dalla vendita di prodotti energetici e – in minor misura – dal mercato
delle armi.
Pochi giorni or sono, il presidente russo Putin si è recato a Pechino per
intessere trattative in vari settori commerciali ma, uno su tutti, nel settore
energetico. Sta prendendo forma l’idea di costruire un gasdotto che porti il gas
siberiano in Cina, assetata d’energia al punto da dover praticare la politica
dei “distacchi programmati” per sopperire al fabbisogno, insufficiente per
coprire l’intera domanda d’energia elettrica. Nelle aree meridionali ad alta
densità d’insediamenti industriali mancano all’appello 500 MW giornalieri, ed
allora si ricorre alla turnazione delle forniture: un espediente che non può
durare se il paese vuole diventare veramente la nuova “locomotiva” del pianeta.
Per il russo Putin, cosa rappresenta un nuovo gasdotto che porterà il metano in
Cina? Una sola parola: diversificazione. Maggiori sono le possibilità
d’esportare il prezioso gas dai giacimenti verso i potenziali clienti, più la
trattativa sui prezzi fornisce frecce all’arco dei russi. La costruzione del
nuovo gasdotto che arriverà in Germania direttamente dalla Russia – e che sarà
posato sul fondo del Baltico – è parte dello stesso progetto, tanto che il
programma fu definito quando Schroeder era cancelliere tedesco ed oggi lo stesso
Schroeder è a capo della joint venture russo-tedesca che costruirà la
conduttura: 4,6 miliardi di euro di costo, che sarà pronta per il 2010.
Il nuovo gasdotto taglierà fuori tutti: Polonia, Lituania, Bielorussia ed
Ucraina, che dovranno – per continuare a ricevere le forniture – presentarsi
alla corte moscovita con il saio addosso.
La “spada” dell’energia coinvolge anche altri paesi: dalla poverissima Moldavia
al co-dominio russo-americano sulla Georgia, unico paese al mondo ad avere sul
proprio territorio truppe d’entrambe le nazioni.
All’indomani della caduta dell’URSS nessuno avrebbe puntato un centesimo su
Mosca: la forza delle armi regalava a Washington il dominio sul pianeta, ma per
muovere un carro armato bisogna riempirgli il serbatoio, altrimenti rimane muta
ferraglia che può solo osservare gli eventi senza intervenire.
Per trovare risposte che possano illuminare il futuro dovremo allora chiederci
quanto può durare l’egemonia delle armi americana e quanto quella dell’energia,
ovvero l’altro piatto della bilancia, quello russo.
Dopo la fine della guerra fredda nessuno ha più investito molto in armamenti:
ciò che rimaneva dopo l’estenuante corsa durata decenni era ed è più che
sufficiente per dominare un mondo di nazioni sì emergenti sotto l’aspetto
economico, ma ancora estremamente arretrate sotto il profilo militare.
Né
la Cina né
l’India potranno far valere la forza delle loro armi nel pianeta: potranno
intervenire nei conflitti locali, ma nessuno può sfidare il colosso americano e,
anche se in minor misura, quello russo.
La differenza fra USA e Russia è che i primi continuano a basare la loro
politica sul predominio delle armi mentre Mosca, consapevole di non poter
reggere allo scontro, ha preferito mantenere quel tanto che basta per
scoraggiare qualsiasi avventura sul proprio territorio e di puntare sull’energia
come terreno d’incontro/scontro politico.
Sulla consistenza attuale dell’apparato militare russo, però, non si deve
correre il rischio della sottovalutazione: lo spiegamento in Asia centrale del
nuovo missile strategico Topol-M è iniziato nel 2002, e la modernità del vettore
rende inutile qualsiasi tentativo di “scudo stellare”. Questo gli americani lo
sanno benissimo, nonostante continuino a gettare al vento dollari nel programma
“Scudo stellare”, che serve oramai solo ad “ingrassare” i fondi delle lobbies.
Con un ristretto numero di sottomarini nucleari d’ultima generazione Mosca sa di
poter dormire sonni tranquilli; d’altro canto, come dichiarò a suo tempo un alto
ufficiale francese – ai tempi dell’URSS – “ comunque si voglia osservare la
cosa, la distanza fra Parigi e Kiev rimane un quinto di quella fra Kiev e
Vladijvostok”.
Se nessuna “avventura” militare può turbare i sonni al Cremlino, per quanto
tempo Mosca avrà a disposizione l’arma energetica?
La consistenza delle riserve russe di metano consente a Mosca di giocare l’arma
per almeno mezzo secolo: dopo – in ogni modo – le rimarranno secoli di carbone.
Per quanto tempo gli USA potranno reggere nella loro politica d’espansione nel
pianeta, che coinvolge ovviamente il controllo delle fonti petrolifere?
Qui i tempi, invece che in decenni, si misurano in anni o, al massimo, in
qualche lustro.
Fra dieci anni gli USA dovranno ricostruire completamente le loro forze aeree,
giacché F-16 ed F-15 saranno oramai obsoleti, e se vorranno mantenere la
superiorità di mezzi nei confronti del resto del pianeta non dovranno certo
badare a spese.
Il programma del nuovo caccia F-22 è stato rallentato per motivi economici e
tecnici: la sofisticata avionica del velivolo era disturbata a bassa quota dalle
chiamate dei telefoni cellulari, ed il gioiello dovette rientrare in officina.
L’unico programma che sembra seriamente avviato è quello dello JSF (Joint Strike
Fighter): un velivolo ad alte prestazioni a decollo corto/verticale. Basterà?
Le forze armate americane sono sovradimensionate rispetto alle possibilità
economiche del paese: il mantenimento di dodici task group – ciascuno
basato su una portaerei a propulsione nucleare – è astronomico e già parecchi
anni or sono si levarono critiche verso
la Marina ,
colpevole di “prosciugare” i bilanci della Difesa.
D’altro canto non si tratta certo di una novità: la “corsa delle corazzate” che
Gran Bretagna e Germania intrapresero prima della Prima Guerra Mondiale
dissanguò entrambi i contendenti.
L’unica politica possibile, però – per chi basa la propria strategia sulla forza
– è quella del mantenimento di un elevato standard, quantitativo e qualitativo.
Alcuni segnali stridenti si sono avvertiti già in Iraq, dove le truppe si sono
lamentate direttamente con Rumsfeld per i ritardi con i quali giungono i
rifornimenti ed i ricambi: un giovane ufficiale chiese in pubblico al Segretario
alla Difesa “perché erano obbligati a recuperare pezzi di blindatura dai mezzi
corazzati distrutti per rimettere in sesto quelli acciaccati”. Non è il miglior
viatico per chi vorrebbe dominare con la forza.
D’altro canto, sappiamo benissimo che l’avventura irachena altro non è che il
tentativo di mettere sotto controllo USA le principali risorse petrolifere del
pianeta: gran parte dei 40 anni di petrolio che rimangono sono sotto le sabbie
del Golfo Persico.
Ci sono riusciti? Per ora sì, ma se vorranno esser certi che il greggio iracheno
passi alle compagnie americane dovranno mantenere le truppe in Iraq per molti
anni, e da come stanno andando le cose è difficile immaginare una loro
permanenza oltre il mandato di Bush, che scade nel 2008.
E dopo la fine del decennio? Dovranno inventarsi dell’altro, perché un
presidente che ha oramai meno del 30% dello share non può sperare d’essere
rieletto. E allora?
Per continuare “la guerra infinita” – ossia il tentativo d’appropriarsi con la
forza di consistenti porzioni dei fossili che ancora rimangono nel pianeta – la
fazione neocon deve rimanere la potere, con un Bush III od un predicatore
televisivo – non importa – l’importante è che le lobbies dell’energia e delle
armi, con la “copertura” ideologica del più perfido integralismo cristiano,
possano continuare a decidere la politica USA.
Ecco pronte le contromisure per il 2008, riprese dalla cronaca di un giornalista
americano – Chris Floyd – e pubblicate da “Il Manifesto” il 16 marzo del 2006:
Una delle poche certezze nelle moderne faccende di politica interna statunitensi
è che nessun candidato democratico può sperare di vincere la corsa alla Casa
Bianca senza vincere in California…Mettere in saccoccia
la California
non garantisce ovviamente la vittoria democratica, ma senza
la California
i conteggi elettorali mozzafiato delle taroccate elezioni del 2000 e del 2004
non sarebbero stati neanche necessari…E dunque: la decisione del segretario di
stato della California Bruce McPherson, presa in segreto e all’improvviso, di
passar sopra alle obiezioni avanzate dai suoi stessi esperti e di certificare
come valide per uso ufficiale in tutto lo stato delle «macchine per votare»
Diebold – completamente aperte all’intervento di hackers e prodotte da
un’azienda privata politicamente schierata – significa molto semplicemente che
per le presidenziali del 2008 l’imbroglio è già fatto…Un buon esempio di come
questo controllo effettivamente funziona può essere visto nel caso dell’Alaska.
Lì, il partito democratico dello stato ha cercato lungamente di ottenere una
verifica di alcuni dei risultati del 2004 «contati» dalle macchine Diebold, che
avevano presentato una serie di strane anomalie, tra cui l’omaggio a George Bush
di centomila voti extra che erano poi risultati inesistenti. Dapprima, dei
funzionari dello stato avevano bloccato la richiesta perché questo tipo
d’informazioni – il conteggio dei voti di un’elezione pubblica – era un «segreto
aziendale » che apparteneva esclusivamente alla Diebold. Poi decisero che i
risultati potevano in effetti essere verificati, ma solo a condizione che alla
Diebold ed ai funzionari repubblicani fosse consentito di «mettere le mani nei
dati» prima di lasciarli verificare. Alla fine, persino questa sporchissima
trasparenza è apparsa eccessiva per gli sgranocchiatori di schede bushisti: il
mese scorso, i funzionari dell’amministrazione dell’Alaska ci hanno ripensato e
hanno improvvisamente dichiarato che verificare i risultati avrebbe posto un
terribile ma non precisato «rischio per la sicurezza» dello stato…Teocrazia
totalitaria. Le votazioni in America sono sempre più controllate da un piccolo
numero di corporations legate tra loro: Diebold, Es&S[1],
Sequoia, tutte aziende che hanno strettissimi legami politici e finanziari con
la fazione di Bush.
Se qualcuno pensa ancora che le nazioni siano governate dai rappresentati
legittimamente eletti, può anche credere a Cappuccetto Rosso od alla favola di
Aladino: per quasi mezzo secolo in Italia nessuno ha avuto la possibilità di
vincere le elezioni al di fuori dei partiti di centro, questo per l’appartenenza
dell’Italia alla NATO.
I governi dell’epoca (Democrazia Cristiana in testa) giunsero a pagare sette
milioni e mezzo di pensioni d’invalidità: chi ha orecchie per intendere intenda,
per capire cosa portavano in cambio quei milioni di pensioni regalate; d’altro
canto, è una realtà che hanno ammesso parecchi ex democristiani.
Oggi – apparentemente – le cose sembrano più semplici: senza un mondo diviso in
blocchi, parrebbe assurdo dover controllare il voto.
Invece, bisogna preparare la polpetta avvelenata per gli elettori USA senza che
sospettino nulla: non si può lasciar perdere l’Iraq dopo i costi astronomici
della spedizione; lo ammise lo stesso ex governatore coloniale americano – Paul
Bremer – quando affermò che “i proventi della vendita del petrolio iracheno non
compensano ancora gli ingenti costi della guerra”.
Per “compensare” i costi della guerra servono molti anni d’estrazione
petrolifera: ricordiamo – per chi l’avesse scordato – che sia Powell sia
la Rice hanno
sempre parlato di un impegno americano “per molti anni”.
Potremmo tornare alla battuta con la quale Bill Clinton affossò Bush senior
nelle elezioni del 1992: “It’s the economy, stupid!”. L’economia va male,
e questo gli americani lo avvertono perché scemi non sono, però potrebbe andare
ancor peggio se, il paese che consuma il 40% delle risorse energetiche del
pianeta (a fronte del 4% della popolazione), non sapesse ribattere alla politica
dei ”gasdotti” di Putin con quella “esportazione della democrazia” nel mondo
arabo che maschera i loro veri interessi.
Questo però non si può dire – perché non è politically correct – e gli
americani credono ancora che il loro paese sia il santuario dei valori
democratici: bisogna quindi fare di necessità virtù, e far girare meglio che si
può le macchinette della Diebold.
A fronte di un simile scenario viene da chiedersi se sia ancora necessario
ascoltare notizie dove si comunicano dei risultati elettorali: siano le
infernali macchinette della Diebold, sia l’apparato di polizia di Lukashenko,
del vero concetto di democrazia rimane ben poco.
Forse oggi ha più senso – per capire chi potrà vincere una tornata elettorale –
osservare, al posto dei tabelloni televisivi, i numeri del contatore del gas
oppure lo scorrere degli euro in quello del distributore all’angolo.
Carlo Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
[1]
La ES &S è stata
scelta anche dal governo Berlusconi per la cosiddetta “sperimentazione” del voto
in Liguria, Lazio, Sardegna e Puglia, guarda a caso quattro regioni dove il
risultato è in bilico fra i due schieramenti. In realtà sperimentazione non è,
visto che faranno fede i risultati elettronici, mentre le schede potranno essere
ricontrollate solo se ci saranno contestazioni: se il buon giorno si vede dal
mattino…
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