Governi di Francia e Olanda non
dovrebbero farsi scudo dell’allargamento dell’
Unione europea ai paesi dell’Est per la sconfitta nei referendum
sulla Costituzione europea. Certamente, un alto tasso di disoccupazione (in
Francia) e il timore di "welfare shopping" da parte degli immigrati dai
paesi dell’Est (in Olanda) hanno contribuito a far crescere il "no" nella
consultazione. Ma disoccupazione e dipendenza dal sistema di welfare sono
frutto di politiche sbagliate, non dell’allargamento dell’Europa: chiudere
le frontiere o le porte del welfare ai lavoratori dei nuovi Stati membri
avrebbe solo effetti negativi. Il mito del numero fisso di posti di
lavoro
È facile attribuire la responsabilità della disoccupazione agli
immigrati. Si comincia con il sovrastimare in modo consistente il numero
degli immigrati: i cittadini di tutti i paesi lo fanno invariabilmente, come
ci dicono i sondaggi dell'European Social Survey. Si assume, poi, che il
numero dei posti di lavoro sia fisso. Ne discende che ogni immigrato che
trova lavoro si appropria del posto di lavoro di un lavoratore del luogo,
cosicché la disoccupazione può essere eliminata solo riducendo
l’immigrazione. Gli economisti la chiamano "the lump of labour fallacy", la
fallacia del numero fisso di posti di lavoro. È un luogo comune e anche
qualche serio commentatore ne è stato vittima. Ma è una convinzione
profondamente sbagliata.
Dal 1960 al 2000, la Germania ha accolto 8,5 milioni di immigrati.
Anche la forza lavoro tedesca è cresciuta di 1,3 milioni perché più donne
sono andate a lavorare. In totale, la forza lavoro nella Germania
occidentale è cresciuta di 6 milioni di unità. E’ pur vero che la
disoccupazione è aumentata di 2,7 milioni, ma questo è accaduto quando
l’immigrazione ha iniziato a decelerare e un maggior numero di persone ha
scelto la pensione anticipata. La crescita della disoccupazione in Germania
ha coinciso con politiche volte alla riduzione dell’offerta di lavoro, non
il contrario. L’unica eccezione si è avuta negli anni Novanta, quando
l’unificazione del paese ha portato a una grave disoccupazione nella
Germania orientale e a un flusso migratorio interno verso i lander
occidentali. Il caso della Germania dimostra che anche con mercati del
lavoro rigidi si possono accogliere grandi flussi di immigrazione, senza
che per questo la disoccupazione aumenti. Se però le istituzioni impediscono
l’aggiustamento dei salari, l’immigrazione può temporaneamente aumentare
disoccupazione. Evidentemente, gli elettori di Francia e Olanda hanno
percepito questo rischio. Ma l’immigrazione legata all’allargamento a Est
dell’Unione è stata finora molto inferiore alle attese, specialmente in quei
paesi, come la Francia e la Germania, che applicano un periodo di moratoria
per l’ingresso di lavoratori dai nuovi Stati membri. Queste disposizioni
transitorie hanno dirottato i lavoratori dai paesi che hanno chiuso le
frontiere (Germania e Austria in primis) verso quelli con norme più liberali
(soprattutto Regno Unito e Irlanda). (1)
E i flussi migratori dai nuovi Stati membri sono stati di gran lunga
inferiori alle proiezioni stimate assumendo una completa mobilità del
lavoro. Nel Regno Unito si stima che nel 2004 i nuovi arrivi siano stati
meno di 100mila, nonostante che l’azione di "dirottamento" abbia contribuito
a farli crescere.
Chi ha bisogno degli immigrati
Disposizioni transitorie asimmetriche impediscono ai flussi migratori dai
nuovi paesi membri di dirigersi laddove potrebbero essere di maggior
beneficio: in quei paesi dove sistemi centralizzati di contrattazione
impongono alla forza lavoro nel suo complesso salari fissati con riferimento
al mercato del lavoro delle regioni caratterizzate da alta produttività. Ciò
crea disoccupazione nelle regioni a bassa produttività – il Mezzogiorno
d’Italia, la Germania orientale o il Sudovest della Spagna. Gli immigrati
dai nuovi Stati membri potrebbero eliminare questi differenziali di
produttività tra regioni e così contribuire ad abbassare la disoccupazione
nelle aree più povere, dato il sistema centralizzato di determinazione dei
salari. Gli immigrati infatti vanno nelle regioni ricche: solo cinque
immigrati su cento che arrivano in Italia vivono e lavorano nel Sud, e la
quota di popolazione immigrata nella Germania orientale è un sesto di quella
della Germania occidentale. Così come avviene con l’integrazione del mercato
dei prodotti, l’immigrazione esercita una pressione sulle istituzioni
rigide. E questa pressione è tanto più benefica proprio nei paesi più
rigidi. Chiudere le porte ai lavoratori dei nuovi stati membri per alcuni
decenni, finché non si sia raggiunta una convergenza economica, o chiudere
loro l’accesso al welfare ha effetti controproducenti. Entrambe queste
politiche bloccano proprio quel tipo di immigrazione che è più facile
assimilare: l’immigrazione legale e all’interno dell'Unione
Europea di persone mediamente o altamente qualificate.
I flussi migratori diminuiranno non perché i lavoratori dei nuovi Stati
membri progettano di venire a vivere da noi per farsi mantenere dal nostro
sistema di welfare, ma perché l’immigrazione verso i paesi dell'Unione
Europea e ad alto tasso di disoccupazione implica il forte rischio di non
trovare un lavoro, e molte decisioni legate alla migrazione sono
irreversibili, per esempio l’abbandono del precedente impiego. In termini di
parità di potere d’acquisto, raramente i benefici dell’assistenza sociale
compensano i costi di un trasferimento lontano dal paese d’origine. Anche
per gli Stati Uniti, l’evidenza empirica sull’immigrazione o sui flussi
migratori interni conferma questo fatto. La discriminazione dei sistemi di
welfare verso i lavoratori stranieri incoraggia l’accesso a lavori
nell’economia sommersa, non coperti da assicurazione sociale, e
incrementa il numero di lavoratori impiegati e pagati da imprese nei paesi
di origine. Invece di creare grandi profitti per le società che vendono
servizi di lavoro, è meglio ammettere un maggior numero di immigrati che
spendono il loro reddito nel nuovo paese e che dirottano i loro risparmi
verso il paese d'origine (attraverso le rimesse). Invece di privare gli
immigrati dei benefici del welfare, è meglio utilizzare le politiche di
attivazione, applicate con successo in molti paesi dell'Unione Europea, e in
particolare in Svezia e nel Regno Unito, per ridurre la dipendenza di lungo
periodo dai trasferimenti. Queste politiche aumentano l’offerta di lavoro,
così necessaria ai paesi con una popolazione che invecchia e dove la forza
di lavoro si restringe.
La migrazione internazionale crea grandi benefici sia per il paese che la
riceve sia per il paese d’origine. Le migliori stime del potenziale
migratorio da Est a Ovest nella nuova Europa lo indicano attorno al 3
per cento della popolazione dell’Europa dell’Est. Nostri calcoli
indicano che con l’attuale divario di salari e produttività tra Europa
dell’Est e dell’Ovest, una migrazione di queste proprzioni incrementerebbe
il Pil totale dell'Europa allargata di quasi mezzo punto percentuale.
L’Europa non può permettersi di rinunciarvi.
(1) T. Boeri e H. Brücker, "Migration, Co-ordination Failures
and EU Enlargement", www.frdb.org
L'articolo è apparso in versione ridotta sul Financial Times del 10
giugno 2005.
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