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07/03/2006 Incomprensibile BCE - Lo Stato dei Tassi in Europa (Tommaso Monacelli, www.lavoce.info)

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Alla luce del rialzo dei tassi d’interesse della BCE sorgono inevitabili alcune domande sul perché di tale operazione e sull’opportunità della strategia adottata. Soprattutto dopo il rialzo di Novembre scorso. Sulla carta il provvedimento è stato adottato per arginare il persistente effetto inflazionistico causato dal rialzo dei prezzi energetici. Ma il metodo di decisione che la BCE utilizza, l’analisi incrociata dei c.d. pilastri (pillar), lascia alcuni interrogativi in sospeso.

Se un vostro amico continua a dirvi che non ha nessuna intenzione di diventare un fumatore abituale, e poi una sera a cena lo vedete fumare una sigaretta, la sera successiva a casa di amici un’altra sigaretta, che cosa siete indotti a pensare? Che sia credibile? Sostituite voi stessi con mercati finanziari, imprese e consumatori, e il vostro amico con la Banca Centrale Europea (BCE), e chiedetevi: quanto è credibile la politica monetaria della BCE?
E’ noto che la BCE ha deciso, dopo quello di Novembre, per un nuovo rialzo dei tassi di un quarto di punto, portando il tasso principale di riferimento al 2.5%. Ci sarebbe da dire: niente di sorprendente. Negli ultimi mesi, sia i dati attuali che le previsioni sul tasso di inflazione armonizzato per l’area Euro (il cosiddetto indice HICP) sono chiaramente al di sopra del limite di riferimento del 2%. Le previsioni indicano, per il 2006, un incremento dell’indice HICP (su base annua) compreso tra l’1.9% e il 2.5%, e per il 2007 un incremento compreso tra l’1.6% e il 2.8%.

Ma qual è la strategia?

La motivazione principale di questa nuova stretta monetaria, come si può dedurre dal contenuto della conferenza stampa del Presidente Trichet, risiede nel persistente effetto inflazionistico del rialzo dei prezzi energetici. Un caso scuola, quindi. Politica monetaria restrittiva in presenza di pressioni inflazionistiche provenienti dal lato dell’offerta.
Non è qui in discussione il fatto che la BCE abbia rialzato i tassi, ma il come ci sia arrivata (a partire dal primo rialzo di Dicembre 2005). Ancora una volta la strategia della BCE (ivi inclusa quella comunicativa) lascia perplessi. Ricordiamo che, commentando il precedente rialzo del 1 Dicembre 2005, il Presidente Trichet aveva insistito oltremisura su un particolare aspetto: "Non ci stiamo vincolando ex-ante ad una serie di rialzi dei tassi". Dopodichè, ecco che a Marzo 2006 i tassi salgono ancora. Che cosa dovremmo dedurne? Logicamente, che siano intervenuti fatti nuovi a giustificare tale mossa. In realtà, non c’è traccia di tutto ciò. Che la dinamica dei prezzi energetici degli ultimi due anni (unita in Europa ad una fiacca dinamica della produttività) potesse mettere a rischio la stabilità dei prezzi era fatto noto da tempo. Ed è altrettanto noto ad ogni macroeconomista che l’effetto inflazionistico di un rialzo del prezzo del petrolio si manifesta in modo ritardato e, purtroppo, molto persistente.
Come già argomentato, la migliore risposta della politica monetaria ad una spinta inflazionistica proveniente dal lato dei costi è una strategia di orientamento ottimale delle aspettative degli operatori economici. Possiamo pensare a due possibili alternative, una di tipo "miope", l’altra di tipo "lungimirante". La strategia miope consiste nell’alzare i tassi oggi (leggi Dicembre 2005), annunciare che non c’è nessun impegno preventivo a rialzarli anche successivamente, e poi (pur in assenza di fatti nuovi) in realtà finire per alzarli nuovamente (leggi decisione di Marzo 2006). La seconda strategia (lungimirante), tenendo conto della prevedibile persistenza inflazionistica degli effetti dello shock petrolifero, consiste nell’alzare i tassi oggi e preannunciare (già oggi) che si continueranno probabilmente ad alzare i tassi in futuro fino a quando le aspettative di inflazione (il vero oggetto del contendere) non saranno sotto controllo.

Il pilastro monetario

La prima strategia è simile ad una navigazione a vista (magari grossolanamente nella giusta direzione), la seconda ad una navigazione programmata con un computer di bordo.
Ai fini di un orientamento ottimale delle aspettative, una cosa è decidere di alzare i tassi solo ex-post, altra è preannunciare di farlo ex-ante. Preannunciare già oggi un probabile sentiero di rialzo dei tassi, agisce in modo virtuoso sulle aspettative di inflazione, e quindi direttamente già sull’inflazione di oggi. Questa strategia preventiva minimizza i costi complessivi (in termini di inflazione e crescita) della politica rialzista, rendendo il secondo rialzo possibilmente anche più contenuto di quello attuato ex-post con la strategia miope. In altre parole: attuando la strategia miope si giunge apparentemente alla stessa destinazione (tassi al 2.5%), ma con costi maggiori.
C’è poi un altro aspetto dell’ intervento della BCE che lascia perplessi: il ricorso al cosiddetto "pilastro monetario" (pillar). E’ noto che la BCE basa le proprie decisioni su due cosiddetti pilastri: l’analisi economica (che consiste nella valutazione degli effetti di tutte le componenti di domanda e offerta sulla dinamica dei prezzi), e l’analisi monetaria. La seconda (di tradizionale scuola Bundesbank) trova radice nella vecchia proposizione secondo cui "l’inflazione è nel lungo periodo comunque un fenomeno monetario". In altre parole, più cresce la quantità di moneta nell’economia, maggiore è la dinamica al rialzo dei prezzi. Secondo la BCE, nell’area Euro, il tasso di crescita annuale di M3 (una misura della base monetaria), rimane robusta, e la direzione tendenziale dell’espansione monetaria continua a riflettere lo stimolo dei bassi tassi di interesse. Questo secondo insieme di informazioni contribuisce quindi a giustificare la mossa rialzista.
Si noti innanzitutto la circolarità del ragionamento: alziamo i tassi oggi (anche) perché la crescita della quantità di moneta è forte a causa dei tassi bassi. Insomma: alziamo i tassi perché i tassi sono bassi!
Ma c’è di più. La BCE conclude che la decisione di rialzare i tassi di interesse di ieri scaturisce dal confronto incrociato di entrambe le analisi, quella economica (che segnala la spinta sui prezzi derivante dal lato dei costi) e quella monetaria (che preoccupa per la crescita della quantità di moneta). Come avviene sempre con le decisioni della BCE basate su questa fantomatica strategia dei due pilastri, c’è da chiedersi: che cosa sarebbe successo se l’analisi monetaria avesse fornito indicazioni contraddittorie rispetto a quella economica? Insomma, basta che uno solo dei due pilastri dia indicazioni in una certa direzione, o sono strettamente necessari entrambi? Misteri della politica monetaria in stile BCE.

 
Tattica giusta, strategia sbagliata

La stretta monetaria della Banca centrale europea, per quanto largamente anticipata dai mercati, suscita una serie di reazioni contrastanti. I più ottimisti vi leggono un segnale di ripresa economica imminente: la Bce attua oggi una stretta monetaria preventiva per evitare futuri rialzi dell’inflazione. I più pessimisti vi leggono invece la fine dell’era del denaro facile e predicono scenari difficili per le finanze pubbliche dei paesi più indebitati (ogni riferimento all’Italia è puramente casuale), nonché per le famiglie diventate più inclini ad accendere mutui sulla casa. In realtà, le decisioni delle banche centrali andrebbero lette con occhi più tecnici.

I perché di una decisione

La decisione di rialzare i tassi oggi è di per sé formalmente impeccabile. Ciò che non convince è invece il contesto in cui è stata presa. In altre parole, come questa decisione di oggi debba leggersi nel quadro della strategia di medio periodo della Bce.
La figura qui sotto spiega meglio di ogni argomentazione il perché della decisione della Bce di alzare i tassi. La figura mostra l’andamento (dal 1999, data di nascita della Bce, a oggi) di due diverse misure di inflazione: (i) la misura headline, cioè l’indice armonizzato che costituisce la misura ufficiale dei prezzi nell’area dell’euro adottata dalla Bce, e (ii) la misura core, che si differenzia dalla precedente perché non include nel paniere i prezzi dei beni energetici e dei beni alimentari.

 

Fonte: Oecd Economic Outlook, novembre 2005

La figura riporta anche l’indicazione del limite del 2 per cento di inflazione.

Si noti che un giudizio sulla performance complessiva della Bce a partire dal 1999 dipende in modo cruciale da quale misura di inflazione si considera. Stando allo statuto ufficiale, l’obiettivo della Banca centrale europea è quello di mantenere l’indice headline "al di sotto ma vicino al 2 per cento". La figura suggerisce che il suo raggiungimento è stato una eccezione più che una regola. Non solo, ci dice anche che la vexata quaestio sul presunto eccesso di restrittività della politica monetaria della Bce in questi ultimi anni è del tutto infondato. Dalla metà del 2004 l’indice headline è chiaramente al di sopra dell’obiettivo del 2 per cento. Basta questo semplice dato per giustificare la decisione attuale di rialzo dei tassi.
Se invece consideriamo l’andamento dell’indice core di inflazione, il giudizio sulla Bce è molto più positivo: dal 2003 tale indice è rimasto sempre in linea con l’obiettivo del 2 per cento.
Un elemento importante che emerge dalla figura è l’andamento divergente delle due misure di inflazione a partire dalla metà 2004. La spiegazione è semplice: l’evoluzione del prezzo del petrolio, che ha spinto al rialzo l’inflazione headline, senza intaccare (per definizione) l’indice core. Ne segue che il rialzo dei tassi della Bce può leggersi come essenzialmente motivato dai timori di ripresa inflazionistica in seguito al recente shock petrolifero.

I prezzi dell’energia

Secondo una lettura semplicistica della situazione - che trova però riscontro in ambienti economicamente ben istruiti (1) -, poiché le fluttuazioni dei prezzi energetici sono essenzialmente temporanee, il rialzo dell’inflazione headline sopra il 2 per cento è a sua volta da considerarsi temporaneo. Ne segue che la risposta migliore della politica monetaria è quella di lasciare i tassi invariati in attesa che inflazione headline e core ritornino essenzialmente in linea.
Questo tipo di analisi lascia perplessi, per due principali motivi. Primo, perché sembra suggerire che le banche centrali non debbano mai rispondere a fluttuazioni dei prezzi energetici (una eco di errori grossolani già commessi negli anni Settanta). Secondo, perché in realtà la teoria più recente ci spiega come rispondere in modo ottimale a shock (come quelli petroliferi) che incidono direttamente sul tasso di inflazione. Questo tipo di shock è problematico per le banche centrali, perché crea un dilemma di politica monetaria: da un lato l’inflazione sale, ma dall’altro il Pil scende (non necessariamente in termini assoluti, ma quanto meno al di sotto del potenziale). Perciò alzare i tassi per combattere la ripresa inflazionistica rischia di aggravare la situazione dal lato della crescita reale.
La teoria macroeconomica recente ci viene però in aiuto. Ci spiega che sono due le determinanti principali dell’inflazione corrente: (1) il livello corrente dell’output rispetto al potenziale (se questo sale, l’economia si surriscalda e l’inflazione cresce); (2) il livello dell’inflazione attesa in futuro. Questo secondo elemento è quello cruciale. Ma perché una più alta inflazione attesa domani implica una più alta inflazione oggi? Supponete di essere un lavoratore che, contrattando il proprio salario nominale oggi, voglia difendersi da future erosioni inflazionistiche. Se vi attendete una più alta inflazione in futuro, vorrete incorporare queste aspettative in più alti salari nominali correnti. Questo genera un rialzo del costo del lavoro, e quindi dell’inflazione corrente.
Chiarito questo, chiediamoci in che modo la banca centrale può rispondere a uno shock (come quello petrolifero) che fa salire il livello dell’inflazione corrente anche a parità di livello dell’output. Una reazione, la più classica, è quella di incidere sulla prima determinante dell’inflazione: quindi rialzare i tassi, abbassare il livello dell’output (con costi recessivi) e ridurre l’inflazione corrente. C’è però un’altra strada, più sofisticata, che consiste nel riuscire a incidere anche sulle aspettative di inflazione (la seconda determinante). Per esempio, lasciando trasparire che la stretta monetaria di oggi sarà parte di un sentiero restrittivo di politica monetaria che, seppur gradualmente, si prolungherà nel tempo. Se gli agenti si aspettano che la banca centrale continuerà a essere restrittiva anche in futuro, rivedranno già oggi al ribasso le loro aspettative di inflazione. Incidendo così anche sulla seconda delle due determinanti dell’inflazione, la banca centrale riesce non solo a far meglio in termini di inflazione oggi (rispetto a un ipotetico scenario in cui le aspettative rimangono invariate), ma anche a generare minori costi in termini di recessione. (2)
Ne consegue una lezione fondamentale. Le decisioni delle banche centrali non contano più tanto per ciò che attiene alle mosse sui tassi correnti (oramai spesso ampiamente previste dai mercati). Ma soprattutto per ciò che le banche stesse riescono (o vogliono) far trasparire sulle loro intenzioni future. La trasparenza delle decisioni, le modalità di comunicazione con i mercati, la credibilità diventano quindi requisiti fondamentali.

Che farà la Banca centrale?

La domanda rilevante sulla decisione della Bce è quindi: questo aumento dei tassi è parte di una strategia di rialzo dei tassi in futuro? Non a caso, nella consueta conferenza stampa di presentazione delle decisioni del Governing Council della Bce, la prima domanda dei giornalisti è stata proprio sulla strategia futura . Il presidente Jean-Claude Trichet è stato molto chiaro al proposito: "Non ci stiamo impegnando ex-ante in una serie di ritocchi dei tassi al rialzo (…)". Eppure, durante la stessa conferenza stampa, Trichet ha a lungo insistito sull’importanza cruciale di mantenere le aspettative di inflazione fermamente ancorate, ritenendo però che questa singola stretta monetaria sia da ritenersi sufficiente a tale scopo.
Una chiara contraddizione, nell’ambito di una strategia comunicativa che continua a lasciare perplessi. L’annuncio della Bce stimola un paragone. È come se io annunciassi di fare il primo passo fuori dalla porta di casa mia pretendendo che con ciò tutti si aspettino che io andrò a piedi da casa in centro città. Ma alla domanda: "Quali passi farà dopo il primo fuori dalla porta di casa?", rispondere: "Non posso impegnarmi ex-ante in una serie di passi consecutivi da qui in centro, ma ritengo che il fatto che io abbia fatto il primo sia sufficiente a far credere a tutti che camminerò effettivamente fino in centro".
Il primo passo (tassi più alti oggi) è quindi certamente una tattica giusta. Ma la strategia (dove andrà la Bce in futuro?) appare ancora molto confusa. E di fronte a uno shock come quello petrolifero, che rischia di influenzare fortemente al rialzo le aspettative di inflazione, la tattica giusta serve poco: quello che conta è la chiarezza nella strategia.

(1) Si veda l’Oecd Economic Outlook di novembre 2005.

(2) Questo perché se anche l’inflazione attesa scende sarà necessaria una minore caduta del Pil oggi per ottenere la stessa riduzione dell’inflazione corrente.

 
Lo stato dei tassi in Europa

La crescita reale langue in Europa e molti invocano un ruolo più attivo della BCE nel sostenere la ripresa. Al proposito, vanno subito chiariti due aspetti. Primo, il problema di crescita dell’Europa (almeno per alcuni grandi malati come Italia, Francia e Germania) è di lungo periodo, riguarda cioè il tasso di crescita del livello potenziale del prodotto. Per definizione, questa variabile non è influenzabile dalla politica monetaria, ma dipende principalmente dall’andamento della produttività e, in parte, dalla politica fiscale. Secondo, il mandato della BCE prevede una attenzione esclusiva all’obiettivo di inflazione (fermo restando che sbaglia chi, all’opposto, lamenta che la Fed ha invece un obiettivo di crescita, suggerendo così una spiegazione erronea al differenziale di crescita tra USA e Eurolandia: semplicemente, la Fed non ha target espliciti).

 

Tra arte e scienza

 

Condurre la politica monetaria vuol dire muoversi con perizia nel territorio di confine tra arte e scienza. Uno dei semplici "principi scientifici" (intendendo con ciò un principio con un minimo di fondamento nella teoria economica) per valutare la correttezza della posizione della politica monetaria è la cosiddetta regola di Taylor (1). Questa prescrive che le deviazioni del tasso di interesse corrente da quello "naturale di lungo periodo" (per definizione, quello compatibile con la stabilità dei prezzi) debbano dipendere da due fattori. Primo, le deviazioni dell’inflazione dal target di riferimento (con un "peso" 1.5). Secondo, le deviazioni del PIL corrente dal livello potenziale, il cosiddetto output gap (con peso 0.5).
Per semplicità, e vista la definizione dell’ obiettivo prioritario di inflazione, la migliore approssimazione per la BCE è quella che fissa il peso dell’output gap a zero. Adottando questa metrica possiamo valutare la condotta della politica monetaria della BCE e paragonarla al "paradigma di Taylor". La figura qui sotto illustra il confronto. La retta continua indica, per ogni livello di inflazione osservato dal 1999 a oggi, dove la regola di Taylor prescriverebbe di fissare i tassi (2). La nuvola di punti indica invece dove la BCE ha effettivamente fissato i tassi dall’inizio del proprio mandato. Appare subito chiaro un punto centrale. La BCE è stata quasi sempre più espansiva rispetto a quanto indicato da una buona regola di condotta della politica monetaria, fissando i tassi mediamente al di sotto di quanto prescritto dalla regola di Taylor.


Questo contraddice la visione comune che indica nell’eccesso di rigore della BCE una delle cause principali della stagnazione europea. Se di qualcosa la BCE ha peccato, forse, è stato di "lassismo". Lo conferma il fatto che in questi anni il conseguimento dell’ obiettivo di inflazione (per quanto opaco nella sua formulazione: "al di sotto ma vicino al due per cento") è stato più una eccezione che una regola.

 

L’andamento dei tassi di interesse

 

Data questa evidenza, non solo andrebbero smorzati i toni sull’eccesso di rigidità della BCE, ma probabilmente rivedute le aspettative di un abbassamento dei tassi in Eurolandia. Se i tassi di interesse sono destinati a variare, quindi, lo faranno verso l’alto. Non solo per la dinamica al rialzo che si osserva negli USA e in generale nel mondo (dovuta al graduale contrarsi dell’offerta di risparmio proveniente dall’area asiatica, in particolare dalla Cina). La stagnazione europea sembra in particolare guidata da un rallentamento della produttività. Poiché, come indicato all’inizio, questa è la determinante centrale del livello potenziale del prodotto, è presumibile che l’output gap di Eurolandia (come ricordato, la differenza tra prodotto effettivo e potenziale) stia subendo pressioni al rialzo. Come tali, queste sono pressioni inflazionistiche. Accomodarle con una discesa dei tassi oggi significherebbe, probabilmente, una pericolosa ripresa inflazionistica che richiederebbe rapide e indesiderate strette monetarie future.

 

(1) Si veda http://www.stanford.edu/~johntayl/
(2) Questa retta di Taylor è ottenuta assumendo un livello del tasso di interesse naturale (o di equilibrio) del 2.5%, la media dei tassi reali in Germania dal 1960 a oggi.



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