Alla luce del rialzo dei tassi d’interesse della BCE sorgono inevitabili
alcune domande sul perché di tale operazione e sull’opportunità della
strategia adottata. Soprattutto dopo il rialzo di Novembre scorso. Sulla
carta il provvedimento è stato adottato per arginare il persistente effetto
inflazionistico causato dal rialzo dei prezzi energetici. Ma il metodo di
decisione che la BCE utilizza, l’analisi incrociata dei c.d. pilastri
(pillar), lascia alcuni interrogativi in sospeso.
Se un vostro amico continua a dirvi che non ha
nessuna intenzione di diventare un fumatore abituale, e poi una sera a
cena lo vedete fumare una sigaretta, la sera successiva a casa di
amici un’altra sigaretta, che cosa siete indotti a pensare? Che sia
credibile? Sostituite voi stessi con mercati finanziari, imprese e
consumatori, e il vostro amico con la Banca Centrale Europea (BCE), e
chiedetevi: quanto è credibile la politica monetaria della BCE?
E’ noto che la BCE ha deciso, dopo quello di Novembre, per un nuovo
rialzo dei tassi di un quarto di punto, portando il tasso principale
di riferimento al 2.5%. Ci sarebbe da dire: niente di sorprendente.
Negli ultimi mesi, sia i dati attuali che le previsioni sul tasso di
inflazione armonizzato per l’area Euro (il cosiddetto indice HICP)
sono chiaramente al di sopra del limite di riferimento del 2%. Le
previsioni indicano, per il 2006, un incremento dell’indice HICP (su
base annua) compreso tra l’1.9% e il 2.5%, e per il 2007 un incremento
compreso tra l’1.6% e il 2.8%.
Ma qual è la strategia?
La motivazione principale di questa nuova stretta
monetaria, come si può dedurre dal contenuto della conferenza stampa
del Presidente Trichet, risiede nel persistente effetto
inflazionistico del rialzo dei prezzi energetici. Un caso scuola,
quindi. Politica monetaria restrittiva in presenza di pressioni
inflazionistiche provenienti dal lato dell’offerta.
Non è qui in discussione il fatto che la BCE abbia rialzato i tassi,
ma il come ci sia arrivata (a partire dal primo rialzo di
Dicembre 2005). Ancora una volta la strategia della BCE (ivi
inclusa quella comunicativa) lascia perplessi. Ricordiamo che,
commentando il precedente rialzo del 1 Dicembre 2005, il Presidente
Trichet aveva insistito oltremisura su un particolare aspetto: "Non ci
stiamo vincolando ex-ante ad una serie di rialzi dei tassi".
Dopodichè, ecco che a Marzo 2006 i tassi salgono ancora. Che cosa
dovremmo dedurne? Logicamente, che siano intervenuti fatti nuovi a
giustificare tale mossa. In realtà, non c’è traccia di tutto ciò. Che
la dinamica dei prezzi energetici degli ultimi due anni (unita in
Europa ad una fiacca dinamica della produttività) potesse mettere a
rischio la stabilità dei prezzi era fatto noto da tempo. Ed è
altrettanto noto ad ogni macroeconomista che l’effetto inflazionistico
di un rialzo del prezzo del petrolio si manifesta in modo ritardato e,
purtroppo, molto persistente.
Come già argomentato, la migliore risposta della politica monetaria ad
una spinta inflazionistica proveniente dal lato dei costi è una
strategia di orientamento ottimale delle aspettative degli operatori
economici. Possiamo pensare a due possibili alternative, una di tipo
"miope", l’altra di tipo "lungimirante". La strategia miope consiste
nell’alzare i tassi oggi (leggi Dicembre 2005), annunciare che non c’è
nessun impegno preventivo a rialzarli anche successivamente, e poi
(pur in assenza di fatti nuovi) in realtà finire per alzarli
nuovamente (leggi decisione di Marzo 2006). La seconda strategia
(lungimirante), tenendo conto della prevedibile persistenza
inflazionistica degli effetti dello shock petrolifero, consiste
nell’alzare i tassi oggi e preannunciare (già oggi) che si
continueranno probabilmente ad alzare i tassi in futuro fino a quando
le aspettative di inflazione (il vero oggetto del contendere) non
saranno sotto controllo.
Il pilastro monetario
La prima strategia è simile ad una navigazione a
vista (magari grossolanamente nella giusta direzione), la seconda ad
una navigazione programmata con un computer di bordo.
Ai fini di un orientamento ottimale delle aspettative, una cosa è
decidere di alzare i tassi solo ex-post, altra è preannunciare
di farlo ex-ante. Preannunciare già oggi un probabile sentiero
di rialzo dei tassi, agisce in modo virtuoso sulle aspettative di
inflazione, e quindi direttamente già sull’inflazione di oggi.
Questa strategia preventiva minimizza i costi complessivi (in termini
di inflazione e crescita) della politica rialzista, rendendo il
secondo rialzo possibilmente anche più contenuto di quello attuato
ex-post con la strategia miope. In altre parole: attuando la strategia
miope si giunge apparentemente alla stessa destinazione (tassi al
2.5%), ma con costi maggiori.
C’è poi un altro aspetto dell’ intervento della BCE che lascia
perplessi: il ricorso al cosiddetto "pilastro monetario" (pillar).
E’ noto che la BCE basa le proprie decisioni su due cosiddetti
pilastri: l’analisi economica (che consiste nella valutazione degli
effetti di tutte le componenti di domanda e offerta sulla dinamica dei
prezzi), e l’analisi monetaria. La seconda (di tradizionale scuola
Bundesbank) trova radice nella vecchia proposizione secondo cui
"l’inflazione è nel lungo periodo comunque un fenomeno monetario". In
altre parole, più cresce la quantità di moneta nell’economia, maggiore
è la dinamica al rialzo dei prezzi. Secondo la BCE, nell’area Euro, il
tasso di crescita annuale di M3 (una misura della base monetaria),
rimane robusta, e la direzione tendenziale dell’espansione monetaria
continua a riflettere lo stimolo dei bassi tassi di interesse. Questo
secondo insieme di informazioni contribuisce quindi a giustificare la
mossa rialzista.
Si noti innanzitutto la circolarità del ragionamento: alziamo i tassi
oggi (anche) perché la crescita della quantità di moneta è forte a
causa dei tassi bassi. Insomma: alziamo i tassi perché i tassi sono
bassi!
Ma c’è di più. La BCE conclude che la decisione di rialzare i tassi di
interesse di ieri scaturisce dal confronto incrociato di entrambe le
analisi, quella economica (che segnala la spinta sui prezzi derivante
dal lato dei costi) e quella monetaria (che preoccupa per la crescita
della quantità di moneta). Come avviene sempre con le decisioni della
BCE basate su questa fantomatica strategia dei due pilastri, c’è da
chiedersi: che cosa sarebbe successo se l’analisi monetaria avesse
fornito indicazioni contraddittorie rispetto a quella economica?
Insomma, basta che uno solo dei due pilastri dia indicazioni in una
certa direzione, o sono strettamente necessari entrambi? Misteri della
politica monetaria in stile BCE.
Tattica giusta, strategia sbagliata
La stretta monetaria della Banca centrale europea, per
quanto largamente anticipata dai mercati, suscita una serie di
reazioni contrastanti. I più ottimisti vi leggono un segnale di
ripresa economica imminente: la Bce attua oggi una stretta monetaria
preventiva per evitare futuri rialzi dell’inflazione. I più pessimisti
vi leggono invece la fine dell’era del denaro facile e predicono
scenari difficili per le finanze pubbliche dei paesi più indebitati
(ogni riferimento all’Italia è puramente casuale), nonché per le
famiglie diventate più inclini ad accendere mutui sulla casa. In
realtà, le decisioni delle banche centrali andrebbero lette con occhi
più tecnici.
I perché di una decisione
La decisione di rialzare i tassi oggi è di per sé
formalmente impeccabile. Ciò che non convince è invece il contesto in
cui è stata presa. In altre parole, come questa decisione di oggi
debba leggersi nel quadro della strategia di medio periodo
della Bce.
La figura qui sotto spiega meglio di ogni argomentazione il perché
della decisione della Bce di alzare i tassi. La figura mostra
l’andamento (dal 1999, data di nascita della Bce, a oggi) di due
diverse misure di inflazione: (i) la misura headline,
cioè l’indice armonizzato che costituisce la misura ufficiale dei
prezzi nell’area dell’euro adottata dalla Bce, e (ii) la misura
core, che si differenzia dalla precedente perché non include nel
paniere i prezzi dei beni energetici e dei beni alimentari.
Fonte: Oecd Economic Outlook, novembre 2005
La figura riporta anche l’indicazione del limite del 2 per cento
di inflazione.
Si noti che un giudizio sulla performance complessiva della Bce a
partire dal 1999 dipende in modo cruciale da quale misura di
inflazione si considera. Stando allo statuto ufficiale, l’obiettivo
della Banca centrale europea è quello di mantenere l’indice
headline "al di sotto ma vicino al 2 per cento". La figura
suggerisce che il suo raggiungimento è stato una eccezione più che una
regola. Non solo, ci dice anche che la vexata quaestio sul
presunto eccesso di restrittività della politica monetaria della Bce
in questi ultimi anni è del tutto infondato. Dalla metà del 2004
l’indice headline è chiaramente al di sopra dell’obiettivo del
2 per cento. Basta questo semplice dato per giustificare la decisione
attuale di rialzo dei tassi.
Se invece consideriamo l’andamento dell’indice core di
inflazione, il giudizio sulla Bce è molto più positivo: dal 2003 tale
indice è rimasto sempre in linea con l’obiettivo del 2 per cento.
Un elemento importante che emerge dalla figura è l’andamento
divergente delle due misure di inflazione a partire dalla metà
2004. La spiegazione è semplice: l’evoluzione del prezzo del
petrolio, che ha spinto al rialzo l’inflazione headline,
senza intaccare (per definizione) l’indice core. Ne segue che
il rialzo dei tassi della Bce può leggersi come essenzialmente
motivato dai timori di ripresa inflazionistica in seguito al recente
shock petrolifero.
I prezzi dell’energia
Secondo una lettura semplicistica della situazione - che trova però
riscontro in ambienti economicamente ben istruiti (1) -, poiché
le fluttuazioni dei prezzi energetici sono essenzialmente temporanee,
il rialzo dell’inflazione headline sopra il 2 per cento è a sua
volta da considerarsi temporaneo. Ne segue che la risposta migliore
della politica monetaria è quella di lasciare i tassi invariati in
attesa che inflazione headline e core ritornino
essenzialmente in linea.
Questo tipo di analisi lascia perplessi, per due principali motivi.
Primo, perché sembra suggerire che le banche centrali non debbano mai
rispondere a fluttuazioni dei prezzi energetici (una eco di errori
grossolani già commessi negli anni Settanta). Secondo, perché in
realtà la teoria più recente ci spiega come rispondere in modo
ottimale a shock (come quelli petroliferi) che incidono direttamente
sul tasso di inflazione. Questo tipo di shock è problematico per le
banche centrali, perché crea un dilemma di politica monetaria: da un
lato l’inflazione sale, ma dall’altro il Pil scende (non
necessariamente in termini assoluti, ma quanto meno al di sotto del
potenziale). Perciò alzare i tassi per combattere la ripresa
inflazionistica rischia di aggravare la situazione dal lato della
crescita reale.
La teoria macroeconomica recente ci viene però in aiuto. Ci spiega che
sono due le determinanti principali dell’inflazione
corrente: (1) il livello corrente dell’output rispetto al
potenziale (se questo sale, l’economia si surriscalda e l’inflazione
cresce); (2) il livello dell’inflazione attesa in futuro.
Questo secondo elemento è quello cruciale. Ma perché una più alta
inflazione attesa domani implica una più alta inflazione oggi?
Supponete di essere un lavoratore che, contrattando il proprio salario
nominale oggi, voglia difendersi da future erosioni inflazionistiche.
Se vi attendete una più alta inflazione in futuro, vorrete incorporare
queste aspettative in più alti salari nominali correnti. Questo genera
un rialzo del costo del lavoro, e quindi dell’inflazione corrente.
Chiarito questo, chiediamoci in che modo la banca centrale può
rispondere a uno shock (come quello petrolifero) che fa salire il
livello dell’inflazione corrente anche a parità di livello
dell’output. Una reazione, la più classica, è quella di incidere sulla
prima determinante dell’inflazione: quindi rialzare i tassi, abbassare
il livello dell’output (con costi recessivi) e ridurre l’inflazione
corrente. C’è però un’altra strada, più sofisticata, che consiste nel
riuscire a incidere anche sulle aspettative di inflazione (la
seconda determinante). Per esempio, lasciando trasparire che la
stretta monetaria di oggi sarà parte di un sentiero restrittivo
di politica monetaria che, seppur gradualmente, si prolungherà nel
tempo. Se gli agenti si aspettano che la banca centrale continuerà
a essere restrittiva anche in futuro, rivedranno già oggi al ribasso
le loro aspettative di inflazione. Incidendo così anche sulla seconda
delle due determinanti dell’inflazione, la banca centrale riesce non
solo a far meglio in termini di inflazione oggi (rispetto a un
ipotetico scenario in cui le aspettative rimangono invariate), ma
anche a generare minori costi in termini di recessione. (2)
Ne consegue una lezione fondamentale. Le decisioni delle
banche centrali non contano più tanto per ciò che attiene alle mosse
sui tassi correnti (oramai spesso ampiamente previste dai mercati). Ma
soprattutto per ciò che le banche stesse riescono (o vogliono) far
trasparire sulle loro intenzioni future. La trasparenza
delle decisioni, le modalità di comunicazione con i mercati, la
credibilità diventano quindi requisiti fondamentali.
Che farà la Banca centrale?
La domanda rilevante sulla decisione della Bce è quindi: questo
aumento dei tassi è parte di una strategia di rialzo dei tassi in
futuro? Non a caso, nella consueta conferenza stampa di
presentazione delle decisioni del Governing Council della Bce, la
prima domanda dei giornalisti è stata proprio sulla strategia futura .
Il presidente Jean-Claude Trichet è stato molto chiaro al proposito:
"Non ci stiamo impegnando ex-ante in una serie di ritocchi dei tassi
al rialzo (…)". Eppure, durante la stessa conferenza stampa,
Trichet ha a lungo insistito sull’importanza cruciale di mantenere le
aspettative di inflazione fermamente ancorate, ritenendo però
che questa singola stretta monetaria sia da ritenersi sufficiente a
tale scopo.
Una chiara contraddizione, nell’ambito di una strategia
comunicativa che continua a lasciare perplessi. L’annuncio della Bce
stimola un paragone. È come se io annunciassi di fare il primo passo
fuori dalla porta di casa mia pretendendo che con ciò tutti si
aspettino che io andrò a piedi da casa in centro città. Ma alla
domanda: "Quali passi farà dopo il primo fuori dalla porta di casa?",
rispondere: "Non posso impegnarmi ex-ante in una serie di passi
consecutivi da qui in centro, ma ritengo che il fatto che io abbia
fatto il primo sia sufficiente a far credere a tutti che camminerò
effettivamente fino in centro".
Il primo passo (tassi più alti oggi) è quindi certamente una tattica
giusta. Ma la strategia (dove andrà la Bce in futuro?) appare ancora
molto confusa. E di fronte a uno shock come quello petrolifero, che
rischia di influenzare fortemente al rialzo le aspettative di
inflazione, la tattica giusta serve poco: quello che conta è la
chiarezza nella strategia.
(1) Si veda l’Oecd Economic Outlook di novembre 2005.
(2) Questo perché se anche l’inflazione attesa scende sarà
necessaria una minore caduta del Pil oggi per ottenere la stessa
riduzione dell’inflazione corrente.
Lo stato dei tassi in Europa
La crescita reale langue in Europa e molti invocano
un ruolo più attivo della BCE nel sostenere la ripresa. Al proposito,
vanno subito chiariti due aspetti. Primo, il problema di crescita
dell’Europa (almeno per alcuni grandi malati come Italia, Francia e
Germania) è di lungo periodo, riguarda cioè il tasso di
crescita del livello potenziale del prodotto. Per definizione, questa
variabile non è influenzabile dalla politica monetaria, ma dipende
principalmente dall’andamento della produttività e, in parte,
dalla politica fiscale. Secondo, il mandato della BCE prevede una
attenzione esclusiva all’obiettivo di inflazione (fermo restando che
sbaglia chi, all’opposto, lamenta che la Fed ha invece un obiettivo di
crescita, suggerendo così una spiegazione erronea al differenziale di
crescita tra USA e Eurolandia: semplicemente, la Fed non ha
target espliciti).
Tra arte e scienza
Condurre la politica monetaria vuol dire muoversi
con perizia nel territorio di confine tra arte e scienza. Uno dei
semplici "principi scientifici" (intendendo con ciò un principio con
un minimo di fondamento nella teoria economica) per valutare la
correttezza della posizione della politica monetaria è la cosiddetta
regola di Taylor (1). Questa prescrive che le deviazioni del
tasso di interesse corrente da quello "naturale di lungo periodo" (per
definizione, quello compatibile con la stabilità dei prezzi) debbano
dipendere da due fattori. Primo, le deviazioni dell’inflazione dal
target di riferimento (con un "peso" 1.5). Secondo, le deviazioni del
PIL corrente dal livello potenziale, il cosiddetto output gap (con
peso 0.5).
Per semplicità, e vista la definizione dell’ obiettivo prioritario di
inflazione, la migliore approssimazione per la BCE è quella che fissa
il peso dell’output gap a zero. Adottando questa metrica possiamo
valutare la condotta della politica monetaria della BCE e paragonarla
al "paradigma di Taylor". La figura qui sotto illustra il
confronto. La retta continua indica, per ogni livello di inflazione
osservato dal 1999 a oggi, dove la regola di Taylor prescriverebbe di
fissare i tassi (2). La nuvola di punti indica invece dove la
BCE ha effettivamente fissato i tassi dall’inizio del proprio
mandato. Appare subito chiaro un punto centrale. La BCE è stata quasi
sempre più espansiva rispetto a quanto indicato da una buona
regola di condotta della politica monetaria, fissando i tassi
mediamente al di sotto di quanto prescritto dalla regola di
Taylor.
Questo contraddice la visione comune che indica
nell’eccesso di rigore della BCE una delle cause principali della
stagnazione europea. Se di qualcosa la BCE ha peccato, forse, è stato
di "lassismo". Lo conferma il fatto che in questi anni il
conseguimento dell’ obiettivo di inflazione (per quanto opaco nella
sua formulazione: "al di sotto ma vicino al due per cento") è stato
più una eccezione che una regola.
L’andamento dei tassi di interesse
Data questa evidenza, non solo andrebbero smorzati
i toni sull’eccesso di rigidità della BCE, ma probabilmente rivedute
le aspettative di un abbassamento dei tassi in Eurolandia. Se i tassi
di interesse sono destinati a variare, quindi, lo faranno verso
l’alto. Non solo per la dinamica al rialzo che si osserva negli USA e
in generale nel mondo (dovuta al graduale contrarsi dell’offerta di
risparmio proveniente dall’area asiatica, in particolare dalla Cina).
La stagnazione europea sembra in particolare guidata da un
rallentamento della produttività. Poiché, come indicato
all’inizio, questa è la determinante centrale del livello potenziale
del prodotto, è presumibile che l’output gap di Eurolandia
(come ricordato, la differenza tra prodotto effettivo e potenziale)
stia subendo pressioni al rialzo. Come tali, queste sono pressioni
inflazionistiche. Accomodarle con una discesa dei tassi oggi
significherebbe, probabilmente, una pericolosa ripresa inflazionistica
che richiederebbe rapide e indesiderate strette monetarie future.
(1) Si veda http://www.stanford.edu/~johntayl/
(2) Questa retta di Taylor è ottenuta assumendo un
livello del tasso di interesse naturale (o di equilibrio) del 2.5%, la
media dei tassi reali in Germania dal 1960 a oggi.
http://www.lavoce.info
Archivio Europa
|