C’è aria di Chagall in queste dacie di vecchie scure travi,
con le finestre ingentilite da tendine bianche e fiori in vasi e da cornici
allegre e fantastiche intagliate e dipinte come merletti, seminate nei dintorni
di Plovdiv. Esse sono l’ultima testimonianza della presenza russa fatta di
funzionari sovietici che vi venivano a trascorrere il fine settimana. Plovdiv è
la seconda città della Bulgaria, situata nella parte meridionale, lungo la
strada che unisce l'Europa occidentale a Istanbul. La fondò Filippo II di
Macedonia (340 a.C.) chiamandola Philippopolis. In età romana fu il capoluogo
della provincia di Tracia col nome di Trimontium, poi di Filibé durante la
dominazione ottomana. Ma le popolazioni locali hanno continuato a chiamarla
Pulpudeva ( traduzione di Philippopolis) e in seguito Puldin per marcarne la
connotazione slava. Non a caso la città è riconosciuta fin dai tempi dell’impero
ottomano come un punto focale del movimento indipendentista bulgaro che si
diffuse in tutto il Paese nel 1989 subito dopo la caduta del Muro di Berlino.
Sicuramente non parleremmo di Plovdiv, se la Bulgaria, assieme alla Romania, non
fosse entrata dal primo gennaio di quest’anno nell’Unione europea. Così ora fa
parte dell’Ue anche la prima minoranza musulmana autoctona che dispone di
visibilità politica. Infatti, secondo il censimento del 2001 in Bulgaria vivono
967 mila musulmani, dei quali 700 mila turchi. Con quelli degli altri paesi
dell'Europa centro-orientale (Albania, Serbia, Macedonia), essi rappresentano
l'eredità religiosa dell'impero ottomano. Naturalmente quella di Bulgaria non è
la comunità più numerosa, ma senza dubbio la meglio organizzata sotto il profilo
politico. Ha dal 1990 un proprio partito, il Movimento per i diritti e per le
libertà, il DPS ( in bulgaro:Dviženie za Prava i Svobodi; in turco: Hak ve
Özgürlükler Hareketi, DPS o HOH), che alle elezioni del 2005 ha ottenuto il 13,7
per cento dei voti con una crescita del 4,2 per cento rispetto alle precedenti.
Non pochi voti, peraltro destinati ancora ad aumentare perché questa minoranza
cercherà di utilizzare i fondi forniti dall'Ue per consolidare la propria
presenza politica e diventare protagonista di spicco nei rapporti fra Bruxelles
e Ankara. La Turchia, è noto, non è un Paese molto sensibile ai diritti delle
minoranze, ma è molto probabile che lo diventi quando si tratterà di tutelare
quelle turche.
Le minoranze in Europa sono così diventate di un’importanza cruciale. Fino al
2003 quando l'Ue era di 15 Stati esse raggiungevano i 20 milioni di persone, il
5 per cento della popolazione. Con l’Europa dei 27 sono 28 milioni,
rappresentano il 5,6 per cento dei 500 milioni di cittadini europei. In alcuni
Paesi, come nelle repubbliche baltiche, hanno un peso numerico determinante per
gli equilibri politici: il 17 per cento in Lituania o addirittura il 42 per
cento in Lettonia. In Estonia dove raggiungono il 32 per cento una persona su
quattro è di madrelingua russa. Pertanto non è fantapolitica sostenere che le
popolazioni russofone dei paesi baltici potrebbero condizionare i rapporti dell'Ue
con Mosca. Non c’è, invece, un dato ufficiale sul numero dei musulmani in
Europa. Secondo l’agenzia di stampa Reuters (dicembre 2006), nella Ue vi sono 15
milioni di musulmani e quelli bulgari, come detto, sono i più politicamente
strutturati.
Questo è nel più e nel meno lo scenario nel cinquantesimo anniversario del
trattato di Roma – 25 marzo 1957 - che suggellò la nascita della Comunità
economica europea (Cee) divenuta poi Unione europea (Ue). Ora appare meno
l'artificiosa la divisione fra «Est» e «Ovest», ma emerge, in maniera
contraddittoria, da una parte il cosiddetto risveglio delle nazionalità e
dall’altra parte il formarsi di enormi aggregati sopranazionali tenuti insieme
dal miraggio di un facile benessere economico. Così l’umanità che vi abita
appare dilaniata da una parte da particolarismi di sangue, di lingua e di
religione ribelli e anarchici e dall’altra parte dalla rincorsa quasi ossessiva
verso un capitalismo sfrenato di cui ignora i malefici effetti che può produrre.
Si tenga a mente che 11 dei 27 capi di governo che siedono attorno al tavolo del
consiglio europeo, inclusa la cancelliera Angela Merkel, meno di vent’anni fa
erano sudditi di dittature comuniste. Sanno che cos’è la libertà perché hanno
sperimentato cosa vuol dire non essere liberi. Tutti sono disponibili a
trasformare la propria politica interna, l’economia, il diritto, i media, la
società pur di mantenerla, ma la formula è tutta da esperimentare.
Sicché sempre più grande diventa la responsabilità dei Paesi fondatori con le
democrazie consolidate come Francia, Inghilterra, Italia. Se questa parte
d’Europa, come hanno rilevato mille e uno sondaggi, vive il presente con
fastidio e guarda al futuro con pessimismo, sempre meno avrà stimoli e voglia di
occuparsi di quel che gli accade intorno. Eppure non è difficile immaginare il
malessere delle genti dell’Europa ‘allargata’, quelle che fino all’altro ieri,
dietro la cortina di ferro, ambivano al benessere occidentale sperando nella
fine del comunismo sovietico e che ora si ritrovano prigioniere della povertà,
turbate dal crollo delle usanze tradizionali, furenti per le promesse non
mantenute dall’Occidente, spesso disperate, spesso costrette a lasciare il
proprio Paese perché si ritrovano in casa la disoccupazione che prima non
conoscevano. E così, fino a quando il sentimento nazionale, la coscienza di
appartenere a una minoranza rimangono un qualche cosa di imprevedibile e
ineffabile che ora si trova in accordo e ora in disaccordo con il sentimento di
costruire programmi condivisi, l’Europa non saprà cosa l’attende.
Vincenzo Maddaloni
www.vincenzomaddaloni.it
25 marzo 2007
Archivio Europa
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