L’Istat ha da poco pubblicato dati
recenti sul fenomeno della separazione e divorzio nel nostro
paese. (1) Ne emergono alcune continuità, ma anche discontinuità, che
occorrerebbe tenere presenti sia nel dibattito legislativo (riforma del
divorzio, affido condiviso) che nelle politiche sociali. Dalla
separazione al divorzio
Negli ultimi dieci anni sia le separazioni che i divorzi sono
aumentati di circa il 59 per cento, passando da 51.445
separazioni e 27.510 divorzi nel 1994 a 81.744 e 43.856 rispettivamente nel
2003.
Ci si separa più al Nord che al Sud: nelle regioni settentrionali, infatti,
ci sono 6,4 separazioni ogni mille coppie coniugate (nove in Val D’Aosta, la
Regione a più alta instabilità coniugale), a fronte di 3,9 nel Mezzogiorno
(due in Basilicata, la Regione a più bassa instabilità).
La percentuale di separazioni che si trasforma successivamente in divorzi,
tuttavia, è rimasta abbastanza stabile, attorno al 60 per cento. Quasi la
metà delle coppie che si separa, quindi, non va oltre il primo stadio del
processo di scioglimento del rapporto coniugale. Ciò è in parte favorito
dalla peculiare legislazione italiana, che obbliga ad almeno tre anni di
attesa dopo la pronuncia della separazione prima di poter chiedere il
divorzio.
Tre anni sono lunghi. Impongono alle persone che vogliono rifarsi una vita
di adattarsi a una sorta di limbo dal punto di vista dello stato civile e
dei rapporti di solidarietà economica con quello che, di fatto, è un ex
coniuge. Quando finalmente potrebbero chiedere di divorziare, se non hanno
particolari interessi da salvaguardare e non sono intenzionate a risposarsi,
ci rinunciano, anche perché questo doppio passaggio costa.
In ogni caso, questo dato, unitamente a quello del tasso di separazione che,
pur quasi doppio di quello di divorzio, è più contenuto del tasso medio
europeo (1,4 separazioni per mille abitanti, di contro a due divorzi per
mille abitanti in Europa), smentisce l’immagine periodicamente evocata di
una forte fragilità dei matrimoni che andrebbe contrastata mantenendo le
difficoltà nell’accesso al divorzio. Allo stesso tempo, conferma che la
separazione è di fatto vissuta come l’evento che chiude il matrimonio,
al punto che una quota di separati non sente la necessità di effettuare
altri passaggi legali. È un effetto paradossale della "pausa di riflessione"
legalmente imposta. Eliminare, o almeno ridurre, il periodo di attesa tra la
separazione e il divorzio, o consentire di scegliere se accedere all’una o
all’altro senza doverli fare in sequenza, permetterebbe a chi ha comunque
intenzione di divorziare di non dover attendere a lungo, mettendo in
difficoltà anche eventuali nuovi compagni/e e nuovi figli. Di più,
l’incertezza dello statuto coniugale imposta nel periodo di attesa rende
spesso più difficile, e certo non più facile, la ridefinizione dei rapporti
e delle responsabilità verso i figli avuti con l’ex coniuge.
I figli coinvolti
Il numero dei figli minori coinvolti nella separazione dei
genitori in effetti è consistente ed è costantemente e fortemente aumentato
dagli anni Ottanta fino al volgere del secolo, nonostante la percentuale di
coppie senza figli sia contestualmente cresciuta tra chi chiede la
separazione: dal 28 per cento del 1980 al 40 per cento nel 2000, per
scendere di nuovo al 31 per cento nel 2003. Negli ultimi anni il loro numero
sembra essersi stabilizzato, con qualche segnale di diminuzione: i figli
minori coinvolti in separazioni pronunciate sono stati 51.229 nel 2000 e
42.689 nel 2003. I figli minori costituiscono comunque la maggioranza di
quelli coinvolti in una separazione: il 52 per cento nel 2003. Si tratta
nella maggioranza dei casi di figli in età prescolare o scolare: il 61 per
cento nel 2003 aveva meno di 11 anni. Nel Mezzogiorno, dove pure ci si
separa meno, stante la maggiore fecondità dei matrimoni, la percentuale di
figli minori coinvolti è più elevata: il 60 per cento. Il numero di figli
minori coinvolti diminuisce nel caso del divorzio, dato appunto che questo
avviene almeno tre anni dopo la separazione.
L’affidamento dei figli nel caso della separazione dei genitori
continua a privilegiare di gran lunga la madre come "genitore più adatto"
(84 per cento dei casi), e ancor più quando i figli sono molto piccoli.
Negli ultimi dieci anni, tuttavia, si è assistito a un costante, anche se
lento, aumento dei casi di affidamento congiunto o alternato: l’1,2 per
cento di tutti i casi di affidamento nel 1984, l’11,9 per cento nel 2003.
Questo tipo di affidamento ha ridotto non solo la tuttora amplissima quota
degli affidamenti esclusivi alla madre, ma ancor di più quella esigua di
affidamenti esclusivi al padre: era del 6,4 per cento nel 1994, è scesa al
3,8 per cento nel 2003. Come ci si può aspettare, dato che richiede una
disponibilità dei genitori a collaborare nonostante la separazione,
l’affidamento congiunto o alternato è più frequente nelle separazioni
consensuali che in quelle giudiziali. È anche più frequente al Nord (più del
15 per cento nel 2003) che non al Sud (5,3 per cento).
Sembrano anche in questo caso emergere due Italie. Una, in cui il
tasso di instabilità è più alto (anche perché più alta è la quota di mogli
che ha un lavoro remunerato e quindi può permettersi di uscire da un
matrimonio che non funziona), ma le separazioni sono più consensuali e la
disponibilità a rimanere co-genitori è più alta. L’altra, in cui i legami
coniugali sono non solo più fecondi, ma più solidi, per necessità o per
virtù, ma le separazioni sono più conflittuali, ci sono più figli minori
coinvolti e la disponibilità a cooperare alla pari come co-genitori più
ridotta. Per altro, è aumentato in generale anche il contenzioso tra ex
coniugi, ovvero le richieste di revisioni degli accordi sull’affidamento dei
figli e sull’assegno di mantenimento, segnalando come si tratti di decisioni
non solo delicate, ma sempre meno pacificamente condivise dagli ex coniugi e
talvolta dai figli. Anche su questo occorre riflettere nella discussione
sulla proposta di legge sull’affido condiviso.
I rischi dell’affido esclusivo
L’affido esclusivo alla madre presenta non irrilevanti rischi
economici per lei e per i figli, specie se minori. Nonostante in Italia
le madri sole con figli giovani – per lo più separate e divorziate – siano
nel mercato del lavoro in percentuale superiore alle madri coniugate, nel
2003 la metà delle madri sole con figli fino a 18 anni ha dichiarato di
avere risorse scarse o insufficienti e oltre il 12 per cento era povero (a
fronte del 10,6 per cento di incidenza della povertà nelle famiglie in
generale nello stesso anno).
Le cause sono diverse e combinate. Le famiglie delle mamme sole sono
famiglie con un unico percettore di reddito e dunque in generale più
esposte al rischio di povertà delle famiglie in cui sono presenti entrambi i
genitori ed entrambi sono occupati. L’unico percettore di reddito, inoltre,
è una donna con carico familiare, ovvero si tratta di un percettore "debole"
sul piano contrattuale (e il 13 per cento circa ha un contratto di lavoro a
termine). Anche se il padre è tenuto a concorrere al mantenimento dei figli,
gli assegni di mantenimento non sempre – per necessità o per esito
delle contrattazioni post-separazione – sono adeguati. L’importo medio
dell’assegno di mantenimento per un figlio è di 382 euro, per tre figli di
700 euro.
Da questo punto di vista, l’indicazione presente nella proposta di legge
sull’affidamento condiviso tesa a individuare criteri oggettivi per
calcolare il costo dei figli e la quota spettante a ciascun genitore
costituisce un enorme miglioramento, purché la sua attuazione sia affidata a
meccanismi che diminuiscano, non aumentino, il contenzioso tra coniugi.
(1) "Affidamento dei figli minori nelle separazioni e dei divorzi.
Anno 2003", in Statistiche in breve, Istat, 6 luglio 2005 e "Profili e
organizzazione dei tempi di vita delle madri sole in Italia",
Approfondimenti, Istat, 5 luglio 2005 (reperibili anche su
www.istat.it/società). Il primo è basato sui
dati che l’Istat rileva annualmente presso le cancellerie dei 165 tribunali
civili; il secondo è basato sulle Indagini multiscopo dell’Istituto "Aspetti
della vita quotidiana" e "Famiglia e soggetti sociali".
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