Il governo è impegnato nella predisposizione della legge Finanziaria per il
2007. Una legge importante, sia per il destino politico dell’attuale
maggioranza, sia, senza retorica, per il destino del paese, viste le condizioni
preoccupanti in cui versano la finanza pubblica e l’economia italiana.
Dei contenuti specifici della Finanziaria però non si sa ancora quasi nulla.
Sappiamo, dal Dpef e dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio, che la
manovra sarà attorno ai 30 miliardi di euro; sappiamo che interverrà su quattro
comparti di spesa – sanità, pubblico impiego, enti locali e pensioni (?) – ma
non conosciamo né le dimensioni degli interventi in ciascun comparto né le loro
caratteristiche. È allora forse opportuna qualche riflessione.
Occupiamoci del Patto di stabilità interna per gli enti territoriali (esclusa
la sanità, che, da quello che si capisce verrà trattata a parte, come del resto
è sempre avvenuto in Italia sin dal 1999). Quali caratteristiche dovrebbe avere
e quali sono le dimensioni dell’aggiustamento possibile da un punto finanziario?
Sono domande importanti, anche alla luce dello scarso successo che hanno avuto
le precedenti incarnazioni del Patto.
Vincolo sul saldo o sulla spesa?
Il Dpef impegna il governo a sostituire i vincoli sulla spesa locale,
introdotti in varie versioni nelle precedenti legislature, con un vincolo sul
saldo. È una buona idea. Vincoli sulla spesa sono ben poco compatibili con il
processo di decentramento in corso e sono anche poco sensati rispetto agli
obblighi europei, che impongono tetti massimi ai saldi, indipendenti dalla
composizione del bilancio pubblico. Sostanzialmente, con un vincolo sul saldo, a
differenza di uno sulla spesa, si lascia al governo locale di decidere come
rispettarlo, se tagliando le spese (e in caso dove), se aumentando le entrate o
con un mix delle due. Inoltre, un vincolo sui saldi è utile anche in un contesto
dinamico, perché previene forme di "bilancio soffice", che poi tendono comunque
a scaricarsi in futuro sul bilancio centrale. Naturalmente, perché un vincolo
sui saldi offra queste libertà ulteriori agli enti territoriali, è necessario
che questi abbiano un qualche grado di autonomia nel modificare il livello del
prelievo locale. Ciò significa che l’introduzione del vincolo sui saldi dovrebbe
accompagnarsi alla rimozione del blocco sulle addizionali regionali e comunali,
introdotto nel 2003 dal precedente governo e in larghissima misura confermato
anche negli anni successivi. (1) Naturalmente,l’autonomia tributaria avvantaggia
di più gli enti territoriali ricchi di risorse proprie che quelli più poveri, ma
questo problema appare irrisolvibile nel breve periodo.
Quali incentivi?
Detto ciò, è anche importante sottolineare che di per sé un vincolo sui saldi
degli enti locali non implica alcun risparmio per l’erario. Se anche tutti gli
enti locali raggiungessero un equilibrio di bilancio o migliorassero il proprio
saldo, si migliorerebbe il saldo complessivo delle amministrazioni pubbliche
(l’aggregato di amministrazioni centrali, locali e enti di previdenza), ma non
si ridurrebbe l’esborso dal bilancio dello Stato a favore degli enti
territoriali. Se l’obiettivo è porre sotto controllo la spesa centrale e locale,
l’unico intervento possibile è una riduzione, rispetto a quanto previsto dalla
legislazione vigente, dei trasferimenti erariali o delle compartecipazioni.
Questo per più ragioni. Intanto, nonostante l’apparente decentramento degli
ultimi anni, molte spese degli enti territoriali sono ancora finanziate
direttamente da trasferimenti a carico del bilancio centrale e dunque il
controllo di queste poste di spesa può avvenire solo con una riduzione delle
risorse loro destinate. Inoltre, la riduzione dei trasferimenti, se accompagnata
da autonomia dal lato delle entrate, introduce un incentivo robusto al controllo
dei flussi di spesa a livello locale. Per un ente territoriale è molto diverso
finanziare un piano di spesa con risorse che provengono da livelli superiori di
governo o con maggiori imposte prelevate sulla comunità locale. Il costo
politico del finanziamento è molto più alto in quest’ultimo caso, e ciò conduce
naturalmente a una maggiore responsabilizzazione.
Saldo complessivo o di parte corrente?
Detto che il saldo è una buona idea, resta il problema tecnico di quale
definizione da utilizzare. Il problema principale riguarda le spese di
investimento. Includerle nella definizione del saldo sarebbe più coerente con
Maastricht (che non prevede una "golden rule") ed eviterebbe anche che poste di
spesa trasmigrino misteriosamente dalla parte corrente a quella in conto
capitale dei bilanci degli enti locali. Ma le spese di investimento presentano,
anche per gli enti locali di più ampie dimensioni, un’elevata variabilità
annuale; un tetto rigido sul saldo complessivo rischia di essere penalizzante
per alcuni e un bonus per altri, in modo del tutto accidentale. Una possibile
soluzione – proposta ormai quasi un decennio fa dalla defunta Commissione
tecnica per la spesa pubblica – è quella di introdurre un vincolo rigido
sull’aggregato dei bilanci di sottoinsiemi degli enti (diciamo, i comuni divisi
per classi dimensionali) e, con un sistema di bonus, consentire ai singoli enti
locali di violare il Patto in qualche anno, sulla base delle loro esigenze di
investimento, rientrando poi negli anni successivi. Un sistema del genere, però,
non si improvvisa dalla sera alla mattina e non sembra che al ministero qualcuno
se ne sia occupato sul serio negli anni trascorsi. Nell’immediato, l’unica
soluzione praticabile è prendere come saldo di riferimento per il vincolo quello
ottenuto come media dei saldi di un certo numero di anni precedenti (ed è
l’impostazione presente del Dpef).
Un rischio possibile è che ciò conduca a una riduzione degli investimenti.
Per un governo, nazionale o locale, è sempre più facile intervenire sulla spesa
in conto capitale (rimandando gli investimenti) che su quella corrente, dove le
resistenze politiche sono molto più forti. E questo nonostante che l’evoluzione
delle legislazione e lo sviluppo delle forme di project financing abbiano
ampliato gli spazi per il finanziamento di progetti a livello locale, almeno per
quei progetti d’investimento che garantiscono ai privati un qualche ritorno. È
dunque opportuno che l’estensione del vincolo anche alla parte in conto capitale
del bilancio sia accompagnata nel prossimo anno da un attento monitoraggio delle
politiche di investimento degli enti locali, e che si ponga presto mano a forme
più moderne di controllo delle spese in conto capitale, come il sistema dei
bonus.
Saldo di competenza o di cassa?
Per Maastricht, la competenza prevale. Ma imporre un vincolo solo sulla
competenza, rischia di far perdere il controllo sulla cassa (che determina il
fabbisogno del settore statale), su cui peraltro esistono informazioni molto più
tempestive a livello centrale e che consentono dunque un più agevole
monitoraggio dei comportamenti degli enti locali. È allora opportuno mantenere
la strada intrapresa dal 2003, che impone il vincolo sia sulla cassa che sulla
competenza. Si osservi che poiché gli enti territoriali devono approvare i
propri bilanci per il 2007 e poiché sarebbe desiderabile che i vincoli imposti
dal Patto di stabilità interno fossero inglobati già nel bilancio di previsione
(e non solo verificati ex post a consuntivo), è opportuno che gli interventi del
Patto di stabilità interno siano noti e abbiano pregnanza di legge ben prima
della scadenza del 31 dicembre, data finale per l’approvazione della legge
Finanziaria. Si può discutere degli strumenti legislativi più opportuni a tal
fine (un decreto legge?).
Stesse regole per tutti?
Un’altra questione aperta è quella dell’uniformità del vincolo. Dobbiamo
imporre le stesse regole sia a chi è già in avanzo finanziario (imponendogli di
migliorare ulteriormente il saldo) e a chi è in deficit (chiedendogli di
raggiungere l’equilibrio di bilancio), oppure dovremmo trattare diversamente gli
enti "virtuosi" dagli altri, chiedendo loro per esempio solo di mantenere
l’equilibrio di bilancio ottenuto? Logicamente un trattamento differenziato
sembrerebbe opportuno (perché imporre vincoli anche a chi è già virtuoso di
suo?). Il problema però è che il Centro non dispone di informazioni sufficienti
a stabilire perché un ente è virtuoso (e si ricordi che qui stiamo parlando di
ottomila comuni, più di cento province, ventuno Regioni e così via). Visto il
modo poco trasparente e razionale con cui vengono definiti i trasferimenti
erariali (ancora largamente influenzati dal principio della spesa storica) e
vista anche l’erraticità della distribuzione delle risorse proprie ai livelli
locali, non sappiamo per esempio se un ente è virtuoso perché è bravo e
responsabile o semplicemente perché è stato fortunato nella lotteria della
attribuzione delle risorse. Mentre questo rimanda alla necessità imprescindibile
di una riforma dei sistemi perequativi e di finanziamento degli enti locali nel
medio periodo, nell’immediato consiglia prudenza nell’imporre trattamenti
differenziati. In prospettiva, se si decidesse di premiare gli enti virtuosi
(maggiore autonomia, maggiori risorse o altro), avendo verificato il rispetto
del Patto di stabilità interno, occorrerebbe farlo sulla base di qualche
indicatore di efficienza sensato nell’offerta dei servizi, indicatore al momento
non disponibile, ma sul quale si dovrebbe cominciare a lavorare seriamente per
il futuro.
Come monitorare il Patto?
L’esperienza finora compiuta non è confortante. Le disposizioni sul
monitoraggio sono state più volte modificate e con la legge Finanziaria per il
2003 la responsabilità della verifica è stata spostata in capo agli stessi enti
interessati, con autocertificazione del conseguimento degli obiettivi e
coinvolgimento di revisori dei conti esterni, con il compito di verificare il
raggiungimento degli obiettivi annuali e, in caso di fallimento, l’obbligo di
comunicarlo al ministero degli Interni. Soluzione pasticciata e incoerente. La
soluzione migliore sarebbe quella di assegnare a un unico soggetto (un organo
tecnico, per esempio un ufficio ministeriale) in modo chiaro la responsabilità
della verifica, coinvolgendo altri soggetti (ad esempio, gli enti e le
associazioni degli enti) solo per la comunicazione delle informazioni.
Questo è un punto più generale su cui conviene insistere. L’elemento
caratterizzante del programma economico dell’Unione e del successivo Dpef sembra
essere quello della "concertazione"; ci si impegna cioè a concertare con tutti i
soggetti interessati gli interventi previsti. Ma concertare in questo contesto
può significare solo che i rappresentanti di Regioni e altri enti locali devono
essere coinvolti nella definizione della dimensione e nell’organizzazione degli
interventi, alla ricerca del consenso politico. Non possono essere coinvolti nel
monitoraggio del Patto e nella determinazione delle sanzioni, altrimenti, come è
sempre successo finora, il monitoraggio non verrà fatto e le sanzioni non
verranno mai applicate.
Quali sanzioni?
Nella sua versione originaria (triennio 1999-2001), il Patto di stabilità
interno non prevedeva un vero e proprio meccanismo sanzionatorio. A partire dal
2002, il sistema è stato modificato, con l’introduzione di due meccanismi
sanzionatori: riduzione agli enti locali dell’importo dei trasferimenti erariali
spettanti (mai entrata in vigore, per dubbi di incostituzionalità) e limiti
all’assunzione di nuovo personale. Sistemi diversi sono previsti per le Regioni.
Di nuovo, soluzioni complicate che si sono rilevate inefficaci in pratica.
Invece il sistema ideale sarebbe quello di un’unica sanzione, certa, facilmente
applicabile e se possibile, del tutto automatica. La soluzione migliore e meno
lesiva dell’autonomia locale sembrerebbe essere quella del non accesso da parte
degli enti inadempienti a trasferimenti addizionali (magari non veramente
addizionali, ma una parte di quelli già previsti, che viene assegnata solo agli
enti adempienti). Qui c’è da superare un ostacolo:l’attuale Titolo V sembrerebbe
impedire simili trasferimenti incentivanti. Ma il comma 5 dell’articolo 119
offre qualche suggerimento e qualche appiglio per strutturare la sanzione in
modo da superare i vincoli costituzionali.
Ma quanto si può risparmiare davvero?
Il complesso dei trasferimenti (escluse le compartecipazioni ai tributi
erariali) dal bilancio dello Stato alle periferie nel 2005 è stato pari a 80
miliardi di euro (trasferimenti correnti): 13,5 miliardi di euro a comuni e
province e 67 miliardi di euro alle Regioni, di cui circa 47 per la spesa
sanitaria. Cumulando gli interventi previsti nelle varie Finanziarie, le stime
ufficiali ex ante indicano che il contributo degli enti territoriali alla
riduzione dell’indebitamento netto della Pa nei quattro anni dal 2002 al 2005
(esclusa la sanità) avrebbe dovuto essere di 8 miliardi di euro. Nessuno sa in
che misura questi risultati siano stati effettivamente conseguiti. Di fronte a
queste cifre, è comunque evidente che il contributo degli enti territoriali alla
manovra finanziaria può realisticamente essere solo marginale, attorno ai 2-3
miliardi di euro al massimo per il 2007. La strada per i 30 miliardi previsti
resta molto lunga.
(1) Deroghe erano state poi consentite per le Regioni con elevati disavanzi
per la sanità. Infine, con la finanziaria per il 2005, si era introdotta uno
sblocco solo parziale dell’addizionale comunale all’Irpef, per gli enti che non
l’avessero aumentata, ed entro il limite dello 0,1 per cento.
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