Perché il
processo di consolidamento delle Borse europee e nord americane ha
subito un’improvvisa accelerazione? I progetti di fusione attualmente in
discussione porteranno a un effettivo beneficio per gli utenti? In questo
contesto, come dovrebbe muoversi la Borsa italiana? E infine, cosa
dovrebbero fare le autorità per salvaguardare l’interesse pubblico?
Rispondere compiutamente a queste domande non è facile, ma tentare di
fornire qualche chiarimento è certamente importante.
Fusioni in accelerazione
Negli ultimi anni non erano mancati tentativi di fusione
tra le Borse europee e tra quelle nord americane, in alcuni casi anche
riusciti. Ma queste iniziative erano rimaste limitate a livello continentale
e hanno interessato le entità più piccole. In Europa sono nati il
gruppo Euronext, che raggruppa le Borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles e
Lisbona (oltre al mercato londinese dei derivati Liffe), e il gruppo Omx,
che comprende Stoccolma, Helsinki, Vilnius e Tallin. Negli Stati Uniti,
il Nasdaq ha assorbito Instinet e il Nyse ha acquisito Archipelago.
Ora, il processo ha avuto una forte accelerazione e sopratutto è diventato
globale, con i tentativi del Nasdaq di acquisire Lse e con l’accordo
preliminare fra il Nyse e Euronext.
Finora, negli Stati Uniti la coesistenza dei due maggiori mercati si è
basata sulla diversa tecnologia e sulla specializzazione tra diversi tipi di
titoli quotati. Tuttavia, recentemente questi fattori di differenziazione
si sono attenuati. In particolare, con l’acquisizione del mercato
elettronico Archipelago, il Nyse ha ora una tecnologia più simile al Nasdaq,
mentre la crescita degli Ecn sta erodendo la specializzazione settoriale. In
un paese, per quanto grande come gli Usa, ben difficilmente possono
coesistere due Borse con caratteristiche simili.
La presenza di forti economie di scala e di scopo dal lato dell’offerta e di
network dal lato della domanda tendono tipicamente a produrre un
equilibrio monopolistico in cui il vincitore prende quasi tutto (winner
takes most). O come dicono gli economisti, in questo settore si compete
per il mercato e non sul mercato. In altre parole, quando
un’impresa-mercato raggiunge la massa critica, difficilmente la sua
posizione dominante può essere scalfita e tutti gli altri tendono ad
aggregarsi a essa. Pertanto, ciascuno sta cercando di creare il "polo
d’attrazione" vincente, attraverso la costituzione di una Borsa
transatlantica.
Inoltre, il Nyse è ora una società for profit quotata, ciò che
giustifica un comportamento più aggressivo che in passato. Si aggiunga che
l’alleanza con una Borsa europea consentirebbe di attrarre emittenti di
paesi terzi che trovassero difficoltà a rispettare le rigide regole per il
listing, imposte recentemente negli Usa dalla legge Sarbanes-Oxley.
Diversa è la situazione in Europa dove, nonostante la nascita dell’euro, i
progressi nella armonizzazione regolamentare e le forti spinte che giungono
da Bruxelles, il grado di monopolio di cui ancora godono le Borse europee a
livello nazionale rimane alto, mentre la pressione competitiva resta
piuttosto bassa. Molto raramente sui mercati nazionali europei vengono
negoziati titoli quotati su altri mercati, mentre il fenomeno del dual
listing è abbastanza marginale. Questo spiega perché le fusioni finora
realizzate abbiano portato agli utilizzatori finali ben pochi
benefici, mentre hanno generato elevati profitti per gli azionisti.
L’attivismo delle Borse europee sembra allora dovuto sopratutto a motivi
difensivi. Nessuno vuole farsi cogliere impreparato nel momento in cui il
processo d’integrazione europeo si farà più intenso e le forze della
concorrenza si dispiegheranno pienamente, anche per l’arrivo della Mifid (la
nuova direttiva europea sui sevizi d’investimento, che potrebbe dare una
spinta agli scambi fuori-mercato). In altre parole, le Borse americane
giocano più il ruolo del "cavaliere bianco" che di paladino della
concorrenza.
L’attività di Borsa italiana
In questo scenario, la Borsa italiana sta cercando di
porsi come "mediatore" tra Euronext e la Borsa tedesca, promuovendo una
federazione allargata, che non escluda gli americani e che al contempo
raggruppi le maggiori Borse dell’area-euro. Da un lato, questa mossa può
essere vista con favore, per i vantaggi che il modello federativo
presenta: accrescere la liquidità dei titoli e allo stesso tempo mantenere
il listing e la supervisione a livello nazionale – sfruttando così i
vantaggi informativi dei mercati locali ed evitando complessi problemi di
coordinamento tra diverse giurisdizioni. Dall’altro, ha elevati rischi:
primo, la trattativa si presenta assai complessa e con esiti incerti.
Secondo, è assolutamente necessario che i costi del post-trading, oggi
gestiti dalla Cassa di compensazione garanzia e dalla Montetitoli, rimangano
sui livelli contenuti attualmente raggiunti – cosa non facile se si pensa
che tutte le altre Borse europee hanno costi di clearing e
settlement decisamente più elevati. Infine, nulla esclude che in futuro
il Lse continui a essere la principale Borsa europea.
Il compito più impegnativo spetta allora alle autorità di vigilanza e
di tutela della concorrenza. Devono infatti fare in modo che i benefici, che
possono nascere dal processo di consolidamento, almeno in parte finiscano
nelle tasche degli utilizzatori – imprese e risparmiatori – e non solo degli
azionisti e del management. Non è obiettivo banale in un settore che tende
naturalmente al monopolio e dove spesso i consumatori hanno tratto pochi
vantaggi dalle operazioni di aggregazione.
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