Lehman
Brothers, Goldman Sachs e Jp Morgan, tre fra le principali banche d'affari
mondiali, costrette a piegarsi davanti alla porta della Procura di Pescara.
Bussano per restituire il maltolto e rinunciare a oltre 600 milioni di euro di
crediti maturati con l'erario dopo anni di raggiri. Una gigantesca truffa ai
danni dello Stato consumata con i pacchetti azionari di investitori di ogni
angolo del globo: europei, americani, asiatici, australiani.
Per riuscire a spillare denaro è stato sufficiente chiedere il rimborso del
credito d'imposta sui dividendi delle società italiane, facendo credere
all'amministrazione finanziaria di averne diritto. Per incassare c'era solo da
aspettare; tanto nessuno controllava. In questo modo, secondo i documenti degli
inquirenti che "L'espresso" ha potuto visionare, le banche americane e una lunga
serie di altri istituti di credito erano riusciti a mettere le mani su una torta
miliardaria.
Un giochetto andato avanti per anni, fino a quando la magistratura non ha
affondato il bisturi nel bubbone. E allora per le protagoniste dello scandalo
sono cominciati i guai. Passando al setaccio oltre 40 mila richieste di rimborso
del credito d'imposta sui dividendi per gli anni 1999-2003, il procuratore di
Pescara, Nicola Trifuoggi, e i suoi sostituti Giampiero Di Florio (esperto di
reati finanziari) e Giuseppe Bellelli, hanno portato alla luce le dimensioni
colossali del raggiro: complessivamente, ben 4 miliardi 300 milioni di euro,
quasi una manovra finanziaria. E soprattutto, le responsabilità dei vari
protagonisti. La scoperta della truffa sui rimborsi, nome in codice "easy
credit", risale al 2005 quando, dopo una indagine sulle richieste inoltrate da
società inglesi, il Gruppo repressioni frodi della Guardia di finanza di Roma ha
trasmesso un rapporto alla Procura di Pescara, competente per territorio visto
che nella città abruzzese ha sede il centro operativo dell'Agenzia delle entrate
che si occupa di queste pratiche. Secondo la nostra legislazione il diritto al
credito d'imposta sui dividendi spetta unicamente alle società e agli enti
residenti in Italia. Alcune convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni
fiscali, come quelle stipulate dall'Italia con la Gran Bretagna e la Francia
(hanno funzionato dal 1992 al 2003), prevedono tuttavia l'estensione di questo
diritto anche ai residenti nell'altro Stato contraente.
Cosa hanno fatto le tre banche d'affari per mettere le mani sui rimborsi
miliardari italiani? Si sono fatte "prestare" temporaneamente da ogni angolo del
mondo, da fondi di investimento e istituti di credito delle più svariate
nazionalità, pacchetti azionari in maniera che, al momento dello stacco del
dividendo delle società italiane, queste azioni risultassero di proprietà delle
loro filiali inglesi Lehman Brothers International Europe, Goldman Sachs
International e Jp Morgan Securities Limited, tutte e tre con sede a Londra e
perciò titolate a chiedere il rimborso. Una volta incassato il dividendo e
maturato il credito, tempo qualche settimana, i titoli azionari venivano
restituiti agli effettivi proprietari. Un caso tra i tanti. Il 23 marzo 2001,
Banca Intesa riceve dalla Deutsche Bank di Londra l'ordine di prelevare 3
milioni di azioni Eni da un proprio conto per girarle a quello della Lehman
Brothers International acceso presso la Citibank di Milano.
Il 5 maggio, puntualmente, le azioni entrano sul conto milanese della Lehman. Il
18 giugno avviene lo stacco del dividendo Eni e meno di un mese dopo, maturato
il diritto al rimborso, le azioni fanno il percorso inverso rientrando sul conto
londinese della Deutsche Bank. In quei giorni di operazioni di questo tipo ne
sono state fatte a migliaia, creando un traffico così intenso da fare quasi
scoppiare i portafogli-titoli delle tre banche d'affari. Lehman Brothers
international Europe, per esempio, rispetto a una giacenza media nell'intero
arco del 2001 di 5 milioni 400 mila azioni Eni, nel mese di giugno vedeva il
numero dei titoli petroliferi registrati sul proprio conto milanese superare i
155 milioni. Una grande performance, ma non la sola. Anche Goldman Sachs e Jp
Morgan sono state attivissime. La prima, rispetto a una giacenza media annuale
di meno di 50 mila titoli Eni, sempre nel giugno 2001 arrivava a possederne 355
milioni. Un record di cui la Guardia di Finanza ha messo a nudo tutte le
irregolarità, facendo emergere anche le responsabilità di tutte le altre
istituzioni che hanno utilizzato le convenzioni bilaterali sui crediti di
imposta sui dividendi firmate dall'Italia. La lista degli accusati alla fine
potrebbe essere molto lunga: si parla di un totale di circa 4.500 soggetti
finanziari che potrebbero finire presto nel registro degli indagati.
Tra di essi spiccano i nomi di colossi come Merrill Lynch, Nomura International,
Citigroup Global Markets Limited e la svizzera Ubs, le cui richieste di rimborso
hanno rivelato già imperdonabili pecche agli occhi degli investigatori. Ma sul
banco degli imputati ci sono per il momento soprattutto le case madri e le
filiali europee di Lehman, Goldman e Jp Morgan, molto note e attive da tanto
tempo sul nostro mercato finanziario, avendo per esempio curato alcune delle
privatizzazioni fatte negli ultimi dieci anni (Comit e Credito commerciale), per
non parlare del ruolo svolto in grandi fusioni societarie (Sai-Fondiaria), nel
collocamento di società in Borsa e in quelle dei nostri titoli di Stato sul
mercato internazionale. Insieme le tre banche avevano richiesto al fisco 709
milioni di euro di rimborsi, oltre 600 dei quali non dovuti. Una vera e propria
stangata per l'erario, scongiurata solo grazie all'intervento della
magistratura. Davanti ai pm pescaresi, infatti, sperando di limitare i danni,
Lehman Brothers, Goldman Sachs e Jp Morgan hanno accettato alla fine un accordo
che prevede la loro rinuncia ai 600 milioni di rimborsi non spettanti e la
restituzione di 52 milioni già incassati (i soli in tanti anni a causa dei
cronici e stavolta provvidenziali ritardi del fisco). "Abbiamo transato; la
faccenda è chiusa", commentano a Goldman Sachs. "Siamo soddisfatti", dice invece
Lehman Brothers: "Abbiamo cooperato con gli inquirenti; la vicenda si sta
chiudendo amichevolmente". Ottimismo giustificato? Non proprio, visto che,
nonostante la transazione, le accuse a loro carico restano e sono pesantissime:
si va dalla truffa ai danni dello Stato (tentata e consumata) alla
responsabilità penale e amministrativa per non avere adottato misure adeguate
per evitare che dirigenti e dipendenti commettessero i reati.
Un aspetto molto delicato della vicenda, visto che il comportamento da
"furbetti"di Goldman Sachs International di Londra è andato avanti anche negli
anni in cui vicepresidente e managing director (amministratore delegato) della
società era Mario Draghi, dal dicembre del 2005 governatore della Banca
d'Italia. Dalla documentazione acquisita, annotano infatti le Fiamme Gialle in
uno dei loro rapporti, è emerso con chiarezza che l'origine e la destinazione
finale dei pacchetti azionari movimentati dalle tre filiali europee delle banche
d'affari in prossimità dello stacco dei dividendi "sono in realtà riconducibili
a investitori residenti in paesi diversi con i quali non risulta stipulata
alcuna convenzione che preveda il rimborso del credito di imposta sui dividendi
distribuiti da società italiane quotate in Borsa". A chi appartiene per esempio
il conto della Deutsche Bank di Londra dal quale Lehman Brothers prende in
prestito il pacchetto di azioni Eni nel giugno del 2001? Al fondo Franklin
Mutual Series di Short Hills, New Jersey. Un investitore americano: e dunque non
titolato a chiedere il rimborso del credito d'imposta. Come non ne avevano
diritto gli altri soggetti finanziari dai quali Lehman, Goldman e Jp Morgan
hanno preso in prestito quasi tutti gli altri pacchetti azionari. Conclusione
amara della Guardia di Finanza: si può "ragionevolmente ipotizzare che le
maggiori istituzioni finanziarie estere abbiano costituito un vero e proprio
cartello finalizzato ad effettuare in Italia operazioni di "lavaggio dei
dividendi"". Un'operazione truffaldina che non si limita alla Gran Bretagna. Se
da Londra sono infatti partite richieste sospette di rimborso per 2 miliardi e
200 milioni di euro, anche dalla Francia (l'altro paese con il quale l'Italia ha
stipulato un trattato per i crediti d'imposta sui dividendi) sono arrivate
istanze per 2 miliardi di euro, molte delle quali inoltrate da Bnp Paribas e
Crédit Lyonnais. Tutte regolari?
Macché: la comparazione dei dati fatta dagli inquirenti "ha evidenziato un
quadro complessivo analogo" e tale da far ritenere "con ragionevole certezza che
le frodi inizialmente ipotizzate ad opera di soggetti inglesi siano state
perpetrate con le stesse modalità anche da soggetti francesi". Davanti
all'enorme numero delle pratiche di rimborso da esaminare per ricostruire la
truffa e individuare le responsabilità, Guardia di Finanza e magistrati hanno
dovuto accantonare il contenzioso francese per concentrarsi sulle pratiche di
rimborso provenienti dalla Gran Bretagna e inoltrate da Lehman Brothers, Goldman
Sachs e Jp Morgan. Lo hanno fatto passando al setaccio la documentazione
relativa ai soli titoli Eni e Telecom (i più appetiti e movimentati dagli
investitori). Una scelta che ha consentito alla procura di Pescara di recuperare
i circa 600 milioni indicati negli accordi, un tesoretto che secondo gli
inquirenti potrebbe lievitare fino a circa 2 miliardi di euro quando saranno
chiamate a regolare i conti con la giustizia anche le altre migliaia di soggetti
finanziari che tra Gran Bretagna e Francia hanno partecipato al banchetto
truffaldino e che stanno per essere iscritti sul registro degli indagati.
fonte:
espresso.repubblica.it
http://www.canisciolti.info
23/09/2008 Archivio Crac Lehman Brother, il terrore dei mutui, i risparmi degli investitori
Archivio Finanza
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