La
ditta Lehman Brothers nasce a Montgomery, Alabama, nel 1847: allora era solo un
piccolo emporio gestito da una famiglia di immigrati tedeschi di origine ebraica
con il pallino del commercio del cotone. Il vero salto di qualità arriva quanto
i fratelli Emanuel e Mayer Lehman si trasferiscono a New York, dove abbandonano
le materie prime ed iniziano a trattare carta, nel senso di titoli finanziari:
sono diventati banchieri. L’incredibile parabola di Lehman Brothers, che si
estende per 150 anni di storia americana, può forse aiutare a comprendere i miti
che alimentano la psicologia del Paese: il duro lavoro che conduce
immancabilmente al successo, la smisurata, incrollabile fiducia in se stessi, la
spregiudicatezza e l’arroganza nel mondo degli affari. Tutti valori in cui
Lehman ha sempre dichiarato di credere fortissimamente.
Lehman è tra le aziende che subirono in prima persona la tragedia dell’11
settembre 2001: eppure l’attacco alle Torri Gemelle, che devastò i suoi uffici
di New York (uccidendo un dipendente e lasciandone all’aperto altri 6.500),
sancì l’inizio di un’epoca di grande sviluppo per la banca: i livello dei tassi,
mantenuti bassi dalla Federal Reserve per favorire la ripresa, costituì per
Lehman (ma anche per altre banche) un incentivo a spingere l’acceleratore su
operazioni a uso intenso del credito (come alternativa del capitale proprio) e
sulle cartolarizzazioni (securitization); su operazioni, insomma, che hanno
finito per rendere il sistema sempre più instabile.
Ken Auletta, penna di The New Yorker ed autore (negli anni 80) di un best seller
dedicato proprio al “crollo di Casa Lehman”, ricorda che la “filosofia
aziendale” della banca ha sempre posto al centro del suo sistema di riferimenti
la fede nel primato assoluto ed incondizionato dell’iniziativa personale: è
curioso che proprio competitività ed individualismo, le forze che negli anni
hanno assicurato a Lehman immensi successi e valanghe di profitti, siano gli
elementi che hanno finito per metterla in crisi e poi perderla. Infatti, negli
anni 80, un clima aziendale talmente competitivo da risultare patologico la
indebolì a tal punto che divenne preda di American Express: nel 1984 la società
nota per l’omonima carta di credito la comprò e nel 1988 la trasformò in una sua
divisione.
Né vi sono dubbi sul fatto che la storia degli ultimi decenni di Lehman coincida
con quella del suo Presidente ed Amministratore Delegato, Richard Fuld, detto
“il gorilla”, 62 anni, di cui quasi 40 passati in Lehman: quando American
Express scorporò la divisione banca d’affari e la mise sul mercato con il nome
di Lehman Brothers Holdings, Inc., fu Fuld, con la sua incomparabile abilità a
mettere a profitto i tradizionalmente risicati mezzi propri di Lehman, a farne
una delle banche più importanti di Wall Street, in grado di trattare da pari a
pari con Morgan Stanley, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Bear Stearns. E’
altrettanto vero che è stata la catena di errori drammatici inanellati da un
sempre più solitario, indisturbato, dispotico ed autocratico Fuld a spacciare
Lehman.
L’inizio
della fine di Lehman può essere datato nell’ottobre del 2007, quando la banca,
in associazione con Tishman Speyer Properties, uno dei principali operatori del
mercato immobiliare al mondo, acquistò Archstone-Smith Trust, una società che
possedeva al momento della conclusione dell’affare circa 88.000 unità
immobiliari. Apparentemente incurante delle indicazioni inequivocabili di un
rallentamento del mercato immobiliare, Lehman e il suo partner montarono
un’operazione strutturata da oltre 22 miliardi di dollari (inclusa l’assunzione
del debito preesistente), cui parteciparono, tra gli altri, Freddie Mac e Fannie
Mae (le due istituzioni recentemente nazionalizzate dal Governo degli Stati
Uniti), oltre a Bank of America e Barclays, la banca britannica con cui Lehman
aveva una delle esposizioni più importanti e che ora ne acquisirà le attività
negli USA.
La strategia era quella di vendere appartamenti ed uffici per ripagare il
debito: i potenziali acquirenti, però, non si fecero avanti, proprio perché
attendevano il crollo dei prezzi che si sarebbe verificato effettivamente di lì
a poco. Poiché quella di Archstone non è stata l’unica operazione immobiliare
consistente in cui Lehman si è lanciata; alla fine la banca si è trovata con 30
miliardi di immobili che non riusciva a vendere e con una capitalizzazione di
Borsa passata dai 60 miliardi dell’era pre-Archstone ai 2 miliardi di dollari.
Anche di fronte alla débacle ormai evidente, Fuld rimase arroccato sulle sue
posizioni mancando di imprimere quella svolta radicale che forse avrebbe salvato
la banca e 26.000 posti di lavoro.
Il primo problema di Fuld, infatti, è il carattere: il Financial Times lo
definisce un “egocentrico patologico” e un “narciso”, sottolineando acidamente
che altre banche più affidabili, come Goldman Sachs, non potrebbero mai essere
gestite da persone così lontane dalla realtà. E’ impossibile perfino immaginare
che un operatore finanziario tanto navigato (e conosciuto fino ad allora per
l’abilità nell’assunzione di rischi calcolati) potesse ignorare gli effetti che
una crisi come quella dei sub-prime avrebbe prodotto sulla Lehman, molto esposta
verso il settore immobiliare. Eppure a giugno, pur di non esporsi ad un pubblico
confronto in cui una persona equilibrata avrebbe sentito il dovere morale di
ammettere gli errori commessi, Fuld si mise a giocare a nascondino, inventandosi
un impegno di lavoro in India e delegando la sua CFO (Direttore Amministrazione
Finanza e Controllo) Erin Callan a rappresentare Lehman in una teleconferenza
con gli investitori. Poiché Callan anche in quell’occasione manifestò una
condotta pericolosa per il mantenimento dell’immagine proiettata dall’ego di
Fuld, quali “sollecitare i colleghi a fornire più informazioni di quanto
normalmente faccia un CFO” e “mettere in guardia gli investitori spiegando loro
che le coperture messe in atto da Lehman per ridurre i rischi dell’esposizione
sul mercato immobiliare erano saltate”, Fuld la rimosse dall’incarico,
spingendosi ad inviare una e-mail ai dipendenti Lehman in cui la accusava di
aver minato (lei!) la credibilità dell’azienda.
Del
resto, nel vangelo secondo Richard era scritto che il crollo delle quotazioni di
Lehman era opera del demonio, ovvero di altri operatori bancari, decisi a
vendere allo scoperto le azioni della banca: benché la speculazione sia
innegabile, la picchiata dei titoli della banca di New York era invece dovuta
principalmente al fatto che gli investitori e gli analisti ritenevano che Lehman
non avesse provveduto a svalutare il proprio attivo in modo tale da riflettere
adeguatamente le perdite. Quando poi la crisi ha raggiunto il punto di
non-ritorno - vendere o morire - Fuld si è dimostrato così “patologicamente
incapace” di privarsi della sua creatura da rendere il disastro inevitabile:
sono sfumate infatti, a causa della sua ostinata opposizione, tanto le
trattative con la Korea Development Bank, interessata all’acquisto della intera
banca, quanto quella con il gruppo finanziario Carlyle, desideroso di metter le
mani sulla controllata Neuberger Berman.
Anche se ha perso la faccia davanti al mondo finanziario, anche se ci sono
migliaia di dipendenti della Lehman che lo strozzerebbero con piacere e anche se
le sue stock option valgono meno di un biglietto della metro, Fuld non dovrà
preoccuparsi del suo futuro: i suoi stipendi dal 1993 al 2007, cumulati,
ammontano a 466 milioni di dollari. Una discreta pensione anticipata.
Mario Braconi
http://www.canisciolti.info
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