Non basta il piano Paulson per arrivare a una rapida conclusione
della crisi. Le cui conseguenze si allargano velocemente da Wall
Street all'economia reale. E allora i confronti con la Grande
Depressione non sono più solo un esercizio accademico.
Sicuramente la Fed e l'amministrazione americana non ripeteranno
gli errori del passato. Ma la situazione è anche decisamente più
complessa e le soluzioni più difficili. Gli Stati Uniti non
arriveranno a un tasso di disoccupazione del 25 per cento come
negli anni Trenta, ma al 10 per cento forse sì.
Un paio di mesi fa ho chiesto a uno stimato “interprete”
delle decisioni della Fed quante fossero le probabilità
che la disoccupazione negli Stati Uniti
raggiungesse il 10 per cento prima della fine della crisi:
“zero” mi ha risposto, in un ammirevole sfoggio di
fiducia. Gli osservatori tendono a interiorizzare il punto
di vista degli osservati, quindi ho pensato che la sua
risposta riflettesse un'opinione condivisa all'interno
della Federal Reserve: potevamo anche essere in preda alla
più grave crisi creditizia dai tempi della Grande
Depressione, ma non era neanche remotamente ipotizzabile
che accadesse qualcosa di vagamente assimilabile alla
Grande Depressione, quando la disoccupazione negli Stati
Uniti toccò il 25 per cento. La Fed e il Tesoro si avevano
preso in mano la questione, i fondamentali economici erano
solidi e i confronti con gli anni Trenta esagerati.
CONFRONTI TRA IERI E OGGI
Gli eventi delle ultime settimane hanno mandato in
pezzi ogni possibile autocompiacimento. Il rendimento dei
buoni del Tesoro a tre mesi è sceso a “zero effettivo” per
la prima volta dalla “fuga verso la salvezza” che seguì lo
scoppio della seconda guerra mondiale. Lo spread Fed, la
differenza tra prendere a prestito a tre mesi sul mercato
interbancario e avere titoli del Tesoro a tre mesi, è
salito a 5 punti percentuali. E il prestito interbancario
è finito su un binario morto. L'intera industria bancaria
d'investimento degli Stati Uniti si è dissolta.
Né le turbolenze sono finite. Il piano Paulson
non comporterà una conclusione rapida degli
sconvolgimenti. Le conseguenze si allargano velocemente da
Wall Street a Main Street. I recenti risultati dei corsi
azionari delle istituzioni non finanziarie indicano che
gli investitori ne sono ben consapevoli.
Così i confronti con la Grande Depressione, che finora
hanno avuto un puro interesse accademico ma scarsa
rilevanza pratica, acquistano ora un nuovo rilievo. Ma
quali sono quelli corretti e quali servono solo a
costruire bei titoli sui giornali?
Primo, la Fed oggi, come la Fed negli
anni Trenta, brancola nel buio. Ogni crisi finanziaria è
diversa dalle precedenti e questa non fa eccezione. È
difficile evitare la conclusione che la Fed ha
sbagliato in pieno quando ha deciso che Lehman
Brothers poteva essere tranquillamente lasciata fallire,
senza capire in modo adeguato le ripercussioni che il
fallimento di un intermediario di primaria importanza
avrebbe avuto su altre istituzioni. Non ha poi capito fino
in fondo le implicazioni dello scambio crediti-insolvenze
per Aig. Non ha capito che erano le sue stesse decisioni a
portarci sul baratro di un Armageddon finanziario.
Se qualcosa si poteva dire in sua difesa, l’ha fatto Rick
Mishkin, un ex Fed governor, quando ha affermato che lo
shock che colpisce oggi il sistema
finanziario è ancora più complesso di quello della Grande
Depressione. E non si può dargli torto. Negli anni Trenta
lo shock derivò dalla caduta di un terzo dell’indice
generale dei prezzi con il conseguente crollo
dell’attività economica. La soluzione era perciò chiara:
si doveva stabilizzare il livello dei prezzi, come fece
Franklin D. Roosevelt aumentando l’offerta di moneta, per
stabilizzare l’economia e di conseguenza rimettere in
piedi il sistema bancario.
SOLUZIONI DIFFICILI
Questa volta, assorbire lo shock è più difficile perché
è interno al sistema finanziario. Il cuore del problema
sono gli eccessi di esposizione, opacità e rischi assunti
nel settore finanziario stesso. C’è stato, sì, un crollo
del mercato immobiliare, ma a differenza di quanto avvenne
negli anni Trenta, non c’è stata una caduta generale dei
prezzi e dell’attività economica. I
fallimenti di imprese sono rimasti relativamente pochi e
ciò è stato un più che necessario elemento di conforto per
il sistema finanziario. Ma tutto ciò rende ancora più
difficile la soluzione del problema. Se non c’è stato
crollo dei prezzi e dell’attività economica, non possiamo
uscire dalla crisi attraverso crescita e inflazione, come
nel 1933.
Inoltre, lo sviluppo delle cartolarizzazioni
complica il processo di riordino della situazione. Negli
anni Trenta, la Federal Home Owners Corporation acquistò
singoli mutui ipotecari per ripulire i bilanci delle
banche e dare un aiuto ai proprietari di casa. Questa
volta, l’agenzia federale responsabile della ripulitura
del sistema finanziario dovrà acquisire titoli garantiti
da ipoteca, obbligazioni di debito collateralizzato, e
tutte le varie forme in cui questi titoli sono stati
tagliuzzati e rimpacchettati. Rimettere in ordine i
bilanci delle banche e aiutare i proprietari di casa sarà
infinitamente più complicato. E sarà molto più difficile
raggiungere la trasparenza necessaria a ridare fiducia al
sistema.
Ciò detto, non vedremo tassi di disoccupazione
del 25 per cento come nella Grande Depressione. Allora,
per arrivare a quei livelli fu necessaria l’incredibile
incapacità di Fed, Congresso e amministrazione Hoover.
Oggi non avremo aumenti delle tasse finalizzati al
pareggio di bilancio a dispetto della depressione, come
quelli decisi da Hoover in 1930. L’altra volta al
Congresso servirono tre anni per capire la necessità di
una ricapitalizzazione del sistema bancario e di misure di
aiuto per i mutui ipotecari, oggi ci vorrà la metà del
tempo: Ben Bernanke, Hank Paulson e Barney Frank conoscono
bene la storia del passato e non vogliono certo ripeterla.
E ciò che la contrazione dell’industria dei servizi
finanziari toglie, l’espansione delle esportazioni
può dare: negli anni Trenta non c’era niente di
paragonabile alla continua crescita di paesi come Brasile,
Russia, India e Cina. Il persistente declino del dollaro
sarà la leva che determinerà la riallocazione delle
risorse. Ma l’economia americana, nonostante l’ammirevole
flessibilità del suo mercato del lavoro,
non potrà trasformare d’incanto banchieri d’investimento
disoccupati in operai delle linee di montaggio. Credo che
mi capiterà sempre meno di essere guardato come un pazzo
quando chiederò se la disoccupazione arriverà al 10 per
cento.
* Il testo in lingua originale è pubblicato su
Vox.
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