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10/10/2008 Da Wall Street alla strada (Barry Eichengreen, http://www.lavoce.info)

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Non basta il piano Paulson per arrivare a una rapida conclusione della crisi. Le cui conseguenze si allargano velocemente da Wall Street all'economia reale. E allora i confronti con la Grande Depressione non sono più solo un esercizio accademico. Sicuramente la Fed e l'amministrazione americana non ripeteranno gli errori del passato. Ma la situazione è anche decisamente più complessa e le soluzioni più difficili. Gli Stati Uniti non arriveranno a un tasso di disoccupazione del 25 per cento come negli anni Trenta, ma al 10 per cento forse sì.

Un paio di mesi fa ho chiesto a uno stimato “interprete” delle decisioni della Fed quante fossero le probabilità che la disoccupazione negli Stati Uniti raggiungesse il 10 per cento prima della fine della crisi: “zero” mi ha risposto, in un ammirevole sfoggio di fiducia. Gli osservatori tendono a interiorizzare il punto di vista degli osservati, quindi ho pensato che la sua risposta riflettesse un'opinione condivisa all'interno della Federal Reserve: potevamo anche essere in preda alla più grave crisi creditizia dai tempi della Grande Depressione, ma non era neanche remotamente ipotizzabile che accadesse qualcosa di vagamente assimilabile alla Grande Depressione, quando la disoccupazione negli Stati Uniti toccò il 25 per cento. La Fed e il Tesoro si avevano preso in mano la questione, i fondamentali economici erano solidi e i confronti con gli anni Trenta esagerati.

CONFRONTI TRA IERI E OGGI

Gli eventi delle ultime settimane hanno mandato in pezzi ogni possibile autocompiacimento. Il rendimento dei buoni del Tesoro a tre mesi è sceso a “zero effettivo” per la prima volta dalla “fuga verso la salvezza” che seguì lo scoppio della seconda guerra mondiale. Lo spread Fed, la differenza tra prendere a prestito a tre mesi sul mercato interbancario e avere titoli del Tesoro a tre mesi, è salito a 5 punti percentuali. E il prestito interbancario è finito su un binario morto. L'intera industria bancaria d'investimento degli Stati Uniti si è dissolta.
Né le turbolenze sono finite. Il piano Paulson non comporterà una conclusione rapida degli sconvolgimenti. Le conseguenze si allargano velocemente da Wall Street a Main Street. I recenti risultati dei corsi azionari delle istituzioni non finanziarie indicano che gli investitori ne sono ben consapevoli.
Così i confronti con la Grande Depressione, che finora hanno avuto un puro interesse accademico ma scarsa rilevanza pratica, acquistano ora un nuovo rilievo. Ma quali sono quelli corretti e quali servono solo a costruire bei titoli sui giornali?
Primo, la Fed oggi, come la Fed negli anni Trenta, brancola nel buio. Ogni crisi finanziaria è diversa dalle precedenti e questa non fa eccezione. È difficile evitare la conclusione che la Fed ha sbagliato in pieno quando ha deciso che Lehman Brothers poteva essere tranquillamente lasciata fallire, senza capire in modo adeguato le ripercussioni che il fallimento di un intermediario di primaria importanza avrebbe avuto su altre istituzioni. Non ha poi capito fino in fondo le implicazioni dello scambio crediti-insolvenze per Aig. Non ha capito che erano le sue stesse decisioni a portarci sul baratro di un Armageddon finanziario.
Se qualcosa si poteva dire in sua difesa, l’ha fatto Rick Mishkin, un ex Fed governor, quando ha affermato che lo shock che colpisce oggi il sistema finanziario è ancora più complesso di quello della Grande Depressione. E non si può dargli torto. Negli anni Trenta lo shock derivò dalla caduta di un terzo dell’indice generale dei prezzi con il conseguente crollo dell’attività economica. La soluzione era perciò chiara: si doveva stabilizzare il livello dei prezzi, come fece Franklin D. Roosevelt aumentando l’offerta di moneta, per stabilizzare l’economia e di conseguenza rimettere in piedi il sistema bancario.

SOLUZIONI DIFFICILI

Questa volta, assorbire lo shock è più difficile perché è interno al sistema finanziario. Il cuore del problema sono gli eccessi di esposizione, opacità e rischi assunti nel settore finanziario stesso. C’è stato, sì, un crollo del mercato immobiliare, ma a differenza di quanto avvenne negli anni Trenta, non c’è stata una caduta generale dei prezzi e dell’attività economica. I fallimenti di imprese sono rimasti relativamente pochi e ciò è stato un più che necessario elemento di conforto per il sistema finanziario. Ma tutto ciò rende ancora più difficile la soluzione del problema. Se non c’è stato crollo dei prezzi e dell’attività economica, non possiamo uscire dalla crisi attraverso crescita e inflazione, come nel 1933.
Inoltre, lo sviluppo delle cartolarizzazioni complica il processo di riordino della situazione. Negli anni Trenta, la Federal Home Owners Corporation acquistò singoli mutui ipotecari per ripulire i bilanci delle banche e dare un aiuto ai proprietari di casa. Questa volta, l’agenzia federale responsabile della ripulitura del sistema finanziario dovrà acquisire titoli garantiti da ipoteca, obbligazioni di debito collateralizzato, e tutte le varie forme in cui questi titoli sono stati tagliuzzati e rimpacchettati. Rimettere in ordine i bilanci delle banche e aiutare i proprietari di casa sarà infinitamente più complicato. E sarà molto più difficile raggiungere la trasparenza necessaria a ridare fiducia al sistema.
Ciò detto, non vedremo tassi di disoccupazione del 25 per cento come nella Grande Depressione. Allora, per arrivare a quei livelli fu necessaria l’incredibile incapacità di Fed, Congresso e amministrazione Hoover. Oggi non avremo aumenti delle tasse finalizzati al pareggio di bilancio a dispetto della depressione, come quelli decisi da Hoover in 1930. L’altra volta al Congresso servirono tre anni per capire la necessità di una ricapitalizzazione del sistema bancario e di misure di aiuto per i mutui ipotecari, oggi ci vorrà la metà del tempo: Ben Bernanke, Hank Paulson e Barney Frank conoscono bene la storia del passato e non vogliono certo ripeterla.
E ciò che la contrazione dell’industria dei servizi finanziari toglie, l’espansione delle esportazioni può dare: negli anni Trenta non c’era niente di paragonabile alla continua crescita di paesi come Brasile, Russia, India e Cina. Il persistente declino del dollaro sarà la leva che determinerà la riallocazione delle risorse. Ma l’economia americana, nonostante l’ammirevole flessibilità del suo mercato del lavoro, non potrà trasformare d’incanto banchieri d’investimento disoccupati in operai delle linee di montaggio. Credo che mi capiterà sempre meno di essere guardato come un pazzo quando chiederò se la disoccupazione arriverà al 10 per cento.

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.

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