La proposta di Romano Prodi per una riduzione di 5 punti percentuali del
cosiddetto "cuneo fiscale" tocca alcune importanti questioni, che però
non sono state affrontate nel dibattito generale,
tranne rare eccezioni.
Le componenti del cuneo
La questione più importante consiste in un chiarimento non
solo terminologico, ma di sostanza, su cosa è il cuneo fiscale.
Con questa espressione si intende la differenza tra il costo del lavoro
pagato dalle imprese e la retribuzione netta in busta paga. È una differenza che
in Italia pesa molto, oltre il 45 per cento del costo del lavoro, ma non ne
deteniamo il record: in Europa siamo superati da Belgio, Germania, Francia,
Svezia e Ungheria (vedi tabella 1). Siamo comunque su livelli alti e non a caso
Confindustria auspica da tempo una riduzione del "cuneo" per abbassare il costo
del lavoro e rilanciare così la competitività delle imprese.
Prescindendo dalla componente relativa all’Irap (nella cui base
imponibile è incluso il costo del lavoro), il cuneo è composto da tre
macro-voci: imposte sul reddito del lavoratore, contributi sociali e
contributi previdenziali.
La prima voce, almeno ai fini di questo dibattito, non è da considerare: si
tratta dell’Irpef, che è un’imposta sui redditi personali (e non sul
lavoro) per la quale le imprese fanno semplicemente da sostituto d’imposta.
Certamente, sia i lavoratori che, indirettamente, le imprese, beneficerebbero di
una sua riduzione, ma non è questo il punto in discussione.
Veniamo ai contributi sociali. Parlare qui di cuneo fiscale è fuorviante,
perché non si tratta propriamente di imposte. I contributi sociali sono in tutto
e per tutto premi assicurativi versati all’Inps per coprirsi contro
diverse eventualità: fisiche (infortuni, malattie, invalidità, morte),
economiche (disoccupazione, sospensione dal lavoro) o famigliari (matrimonio,
persone a carico). Ad esempio, nelle aziende industriali con più di 50
dipendenti il datore di lavoro paga per ogni operaio l’1,61 per cento della
retribuzione imponibile per i sussidi di disoccupazione, lo 0,68 per cento per
gli assegni famigliari, il 2,20 per cento di contributi per la cassa
integrazione ordinaria, e così via. In totale l’8,57 per cento della
retribuzione imponibile, che equivale al 6 per cento del costo del lavoro.
È possibile ridurre questa componente? Prima di tutto, la domanda va riformulata
correttamente: i premi pagati sono troppo alti rispetto alle prestazioni erogate
dall’Inps? Almeno un riordino delle aliquote è auspicabile: attualmente
esistono alcune centinaia di tabelle diverse, che coprono una casistica di
lavoratori assolutamente eccessiva, che va dai "viaggiatori e piazzisti
nell’artigianato lapideo dell’indotto" agli "operai e impiegati delle sale bingo".
È ragionevole che il premio, ad esempio, per l’eventualità di una maternità non
vada differenziato tra categorie così "estreme". Con il riordino, inoltre, è
sicuramente possibile che si arrivi a un risparmio sui premi pagati da
lavoratori e imprese. Basti pensare che fino a qualche anno fa si pagava un
contributo sociale del 2 per cento contro il rischio di tubercolosi: è probabile
che un aggiornamento al ribasso di qualche altra voce sia alla portata di un
riformatore illuminato.
Non chiamatemi fiscale
Veniamo ai contributi previdenziali, sicuramente la
componente del cuneo più importante. E sgombriamo subito il campo dall’equivoco
più grave: nell’attuale sistema i contributi previdenziali non sono una tassa
sul lavoro, sono soldi dei lavoratori. Aggiungerebbe quindi chiarezza al
dibattito non parlare impropriamente di "cuneo fiscale". La confusione
terminologica è eredità (meglio ancora un residuo) di una discussione che aveva
senso vent’anni fa, ma non più oggi.
Se prima della riforma Amato del 1992 (e fatte salve le osservazioni di
Alessandro Cigno) i contributi previdenziali potevano essere considerati alla
stregua di un’imposta con la quale si finanziava il sistema pensionistico nel
suo insieme, con il nuovo sistema di calcolo delle pensioni, detto per l’appunto
"contributivo", sono a tutti gli effetti una componente della
retribuzione. Dovrebbe risultare chiaro quindi che una riduzione ex lege
dei contributi equivarrebbe a una riduzione ex lege delle retribuzioni
dei lavoratori – ovvero equivarrebbe a una invadenza dello Stato nelle
contrattazioni tra lavoratori e imprese, se non a un vero e proprio furto.
Fortunatamente, non sembra questa la proposta di Prodi. L’ipotesi è quella di
fiscalizzare i contributi, esonerando quindi le imprese dal loro pagamento e
caricando sulla fiscalità generale (ovvero sulle tasse pagate da tutti i
cittadini) i "contributi figurativi" mancanti. È una strada percorsa con grande
generosità in passato, ma è profondamente contraria a due principi fondamentali
che sono stati introdotti con fatica nel nostro ordinamento pensionistico: la
separazione tra previdenza e assistenza, e l’equità tra quanto si versa all’Inps
e quanto si riceverà come pensione.
I due principi sono una delle eredità più importanti del decennio di riforme
1992-2002, di cui proprio il Governo di centrosinistra uscito vincitore dalle
elezioni del 1996 fu un fautore. Ci auguriamo che Prodi non voglia metterli in
discussione. Innanzitutto, da un punto di vista dell’equità. È giusto
chiedere alla generalità dei cittadini – quindi per esempio, ai lavoratori
precari, ai pensionati, alle famiglie monoreddito e così via – di aiutare le
imprese a pagare una parte delle retribuzioni dei lavoratori? Ma anche da un
punto di vista della distorsione che introdurrebbe nel mercato, a favore
o contro particolari forme di lavoro.
Da questo punto di vista, anche
la proposta di Tito Boeri e Pietro Garibaldi lascia perplessi. Anche per
limitare l’impatto sul bilancio pubblico, Boeri e Garibaldi propongono che la
decontribuzione venga circoscritta ai soli lavoratori con bassi salari, che sono
a forte rischio di ricadere nella platea dei beneficiari delle sole pensioni
minime. Per questi lavoratori, assistenza e previdenza già sono mescolate tra
loro, e i principi della riforma Amato non verrebbero, per così dire, traditi.
Limitare la decontribuzione ai salari più bassi introdurrebbe però una
distorsione paradossale nel mercato del lavoro. Si verrebbe a creare un
incentivo per le imprese a ricorrere (in maggior misura) a forme di lavoro
poco qualificato, ovvero si "sponsorizzerebbe" una specializzazione
produttiva dell’economia italiana proprio nei settori a minor valore aggiunto. E
non ci sembra una buona strategia di sviluppo spingere le imprese a fare
concorrenza ai produttori asiatici sul loro stesso terreno
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