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14/10/2005 La democrazia della mezzaluna E’ possibile conciliare Islam e democrazia senza seppellire tutto con bombe e missili? (Parte I) (Carlo Bertani, www.disinformazione.it)

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     “Ogni forma che tu vedi ha il suo archetipo nel mondo senza spazio. Se la forma perisce, non importa, l'originale è eterno." Jalad ud Din Rumi – Persia – secolo XIII


    Il 30 settembre si è svolto a Venezia un convegno sul tema “islam e Democrazia”, dove sono intervenuti i principali leader politici italiani e molti studiosi dei rapporti fra Occidente ed Islam. Per la prima volta – sui media nazionali – è apparsa l’ipotesi che la democrazia non sia un ideale univoco, bensì un metodo che è possibile declinare in modi diversi, secondo il percorso storico dei popoli e le loro necessità: sembrerebbe l’uovo di Colombo, eppure dobbiamo registrare che l’affermazione è del tutto nuova per le implicazioni politiche che racchiude.
    La nuova tesi contiene in sé la completa confutazione delle varie teorie sullo “scontro di civiltà”, e dunque – se addirittura il Presidente della Camera, Casini[1], pare aver compreso il concetto – pensatori e scrittori come Huntington o la Fallaci si ritrovano al termine di un percorso senza sbocco. La giustificazione (morale e politica) della guerra al terrorismo di Bush poggia proprio su questi pilastri: dimenticate le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam ed il falso coinvolgimento dell’Iraq negli attentati dell’11 settembre, non rimane altra motivazione – per rimanere in Iraq – che quella d’installarvi una democrazia pensata ed applicata sul modello occidentale.

    Ovviamente si tratta di una tesi molto debole, giacché sappiamo che il principale obiettivo di Bush era ed è il diretto controllo delle seconde riserve petrolifere del pianeta, e l’indiretto controllo delle prime, ovvero dell’Arabia Saudita. Dalle 14 basi aeree irachene occupate gli USA controllano circa il 63% delle riserve di petrolio del pianeta[2]: se si aggiungono ad esse quelle del Caucaso (che rientrano nel raggio d’azione dei cacciabombardieri dislocati nel Kurdistan iracheno), parlare di democrazia è veramente un parlar vano. Il passaggio del controllo del petrolio iracheno dalle compagnie francesi e russe (che ne detenevano, sotto Saddam, il 90% dei contratti) a quelle americane è stato il vero motivo dell’invasione. Le ragioni del prolungarsi della guerra risiedono proprio nella causa primigenia; nessuno appoggia Washington perché ha introdotto un nuovo concetto negli equilibri petroliferi: chi è più forte militarmente si prende l’intero piatto senza lasciare agli altri nemmeno le briciole. Una simile rottura del multilateralismo petrolifero non poteva che scatenare reazioni violente: meditiamo che, a due anni e mezzo dall’inizio della guerra irachena, nessun movimento di resistenza riesce ad opporsi ad una forza d’occupazione se non riceve sostanziosi rifornimenti d’armi, denaro e logistica dall’esterno.
    Proprio per mascherare la sotterranea guerra del petrolio in atto, l’amministrazione USA tenta d’ammantare con proclami di sbandierata democrazia l’occupazione neocoloniale dell’Iraq; non è una novità: tutte le amministrazioni coloniali del pianeta cercarono di mistificare la rude realtà del colonialismo con valori benevoli, quali elezioni prive d’effettivo valore e “governi locali”. Si pensi che i certificati elettorali – in Iraq – vengono distribuiti insieme alle tessere annonarie per l’acquisto del pane. Anche l’ultima scusa – il paravento dell’intervento militare necessario per favorire lo sviluppo democratico – è quindi una bugia dalle gambe corte, anzi, cortissime.

    Se partiamo dal pensiero dei neocon americani, proprio da Huntington – colui che ha coniato l’icona dello “sconto di civiltà” – ci ritroviamo in una landa desolata che non ha soluzioni. Nel pensiero dei neocon l’Islam è un residuo storico, assolutamente privo d’importanza nel panorama della globalizzazione, che deve scomparire come cultura per essere sostituito da nuovi dirigenti che applichino alla lettera i dettami della politica occidentale, punto e basta. Il pensiero di Huntington, di Cheney, di Rumsfeld e di Wolfowitz non stupisce: nasce da associazioni come New American Century[3] ed i Nashville Agrarians, ovvero da chi ancora tiene in bella evidenza nel proprio studio la bandiera confederata.
    Più arduo – ma non incomprensibile – è capire il “sacro fuoco” che spinge la Fallaci a prospettare la funerea Eurabia, la riconquista musulmana dell’Europa: il timore della Fallaci incrocia quello di chi ha paura di perdere la propria identità nei processi d’internazionalizzazione dell’economia e della cultura. Chi non accetta lo scambio d’informazioni (e di cultura) del villaggio globale di Internet, non può accusare la globalizzazione per i mutamenti in atto (si confinerebbe – isolato – in una prospettiva antistorica) e dunque l’immigrazione viene caricata di significati negativi che, sostanzialmente, non ha, mentre molte tensioni sarebbero da ricercare nell’incapacità relazionale che agita popolazioni sempre meno vitali (e prolifiche) come quelle europee.
    Il teorema della Fallaci è quindi altrettanto rozzo quanto quello di Huntington: si potrebbe affermare che sono due prodotti culturali “pre-confezionati” per due distinti continenti, l’uno per una distratta America, l’altro per una timorosa Europa.
    Se invece si desidera affrontare seriamente il problema della democrazia nel mondo musulmano, queste illogiche e semplicistiche affermazioni non bastano nemmeno per introdurre il problema, figuriamoci se possono risolverlo.

    C’è invece un reale disagio del mondo musulmano, una sorta d’isolamento che inizia molto tempo fa: non si tratta – come molti ritengono – di un prodotto dell’ultimo secolo, bensì dell’evidente concretezza di un arresto evolutivo che è iniziato con il decadimento del mondo islamico medievale. Inariditosi soprattutto per la dispersione del potere in mille califfati, il mondo musulmano mantenne una relativa unitarietà proprio nel concetto di Umma, ovvero della comunità dei fedeli uniti dallo stesso credo che – a differenza dell’Occidente – non introduce nessuna separazione fra nazione, popolo e dottrina.
    Dopo la caduta dei grandi califfati ommiadi ed abbasidi, e poi nella diaspora dei samanidi, selgiuchidi, mamelucchi, fatimidi…è racchiusa tutta la tragedia storica dell’Islam. Lo stesso Impero Ottomano – così temuto in Occidente – aveva già esaurito la forza propulsiva dell’Islam originario: era soltanto un impero fondato su una discreta amministrazione ed una feroce burocrazia. Alla comparsa dell’Impero Britannico in pratica si estinse, anche se formalmente durò fino alla prima guerra mondiale, consentendo però alla nuova Turchia – forgiata dalla mente di un grande statista, Kemal Ataturk – d’approdare alla sponda europea.
    L’accusa spesso avanzata da molti studiosi islamici all’Occidente è quella di riconoscere il valore e l’importanza storica della civiltà musulmana per poi – nel nome di una imperante modernità – sostanzialmente negarlo.

    C’è del vero in questa affermazione, inutile negarlo giacché, se si vogliono introdurre nell’analisi i distinti percorsi storici, non si può dimenticare che la Storia è una sola. Noi europei siamo sorpresi dalla superficialità con la quale si studia la storia nelle scuole americane, laddove si conferisce massima importanza agli ultimi tre secoli – in pratica la storia americana – e si concede assai poco ai rimanenti millenni.
    Tuttavia – seppur in minor misura – anche noi europei cadiamo nel medesimo errore: i cosiddetti “secoli bui” – dalla caduta di Roma al Rinascimento – sono “bui” per l’Occidente, non per il mondo musulmano. Negli anni che intercorsero fra l’Egira (622 d. C.) ed il XIII secolo, il progresso nella letteratura, nelle arti e nelle scienze avvenne quasi soltanto del mondo musulmano.
    L’errore nel quale spesso cadiamo è quello di considerare “storia” di quei secoli solo i Longobardi e Carlo Magno, mentre i rivolgimenti europei dell’epoca non furono niente rispetto a ciò che avvenne – parallelamente – da Fez ad Isfahan.
    Le cronache dell’epoca ci consegnano una civiltà vitale, ricca di un dibattito filosofico interno ad un Islam che oggi parrebbe irriconoscibile. Sappiamo che la culla della scienza fu il pensiero greco, ma la scuola dove crebbe e divenne adolescente fu proprio la civiltà islamica, nei secoli a cavallo dell’anno mille d. C.
    Già nel 794 d. C. fu creata a Baghdad la prima manifattura per la fabbricazione della carta e nell’anno 891 d. C. c’erano in città circa 100 librerie: poeti, filosofi, scienziati ed artisti popolavano le corti ed i palazzi dei ricchi mercanti; insomma, anticiparono di qualche secolo la cultura cortese europea e – per molti aspetti – fu il loro Rinascimento.
    Ciò che stupisce è sapere che il dibattito filosofico era ricchissimo, e spaziava dai sostenitori dell’applicazione letterale del Corano fino a correnti che potremmo definire Illuministe – “solo la logica (kalam) può riconciliare in pieno ragione e fede” [4] – e addirittura a circoli che rasentavano l’ateismo[5]. Abu-l-Hasan Alì al-Masudi – un enciclopedista – nel suo Libro del sapere ipotizzò l’evoluzione «dal mondo minerale a quello vegetale, dal vegetale all’animale, e da quest’ultimo all’uomo». L’affermazione, che in Occidente lo avrebbe condotto direttamente al rogo, gli costò soltanto l’esilio per dieci anni al Cairo.

    Gli Arabi studiarono la filosofia greca e gli autori latini: il tutto – in una Baghdad gaudente, colta e libertina – era condito da un consumo di vino che si misurava in migliaia di barili l’anno; ci si pentiva, ma si beveva. I libri di medicina di Abu Bekr Muhammad Al-Razi (latinizzato in Rhazes) furono testi ufficiali nelle università mediche inglesi dal 1498 fino al 1866, stampati in ben quaranta edizioni.
    I numeri che ancora oggi usiamo sono quelli arabi (che i matematici islamici importarono dall’India), giacché la matematica non sarebbe andata molto lontano con la numerazione romana, ed addirittura il termine “algoritmo” – che è alla base delle teorie informatiche – deriva da un matematico di nome Al-Khwarizmi, che nel 825 d. C. pubblicò un libro dal titolo Algoritmi (il suo nome latinizzato) de numero Indorum.
    Proprio dai nomi possiamo comprendere la struttura delle società arabe: il patronimico appare spesso nel nome esteso, mentre l’indicativo della professione appare più raramente (gli Al-Hakim – in ogni modo – corrispondono in pieno ai nostri Del Giudice).
    Ciò che non manca mai invece, nel nome esteso, è l’appartenenza al clan: Saddam Hussein fu costretto ad abolire la forma estesa del nome, giacché tutto il suo entourage portava quello degli Al-Tikriti (provenienti dalla città di Tikrit) e, anche nell’Iraq di Saddam, troppo nepotismo poteva nuocere. La base della società islamica è quindi il clan, scomparso da secoli in Occidente: ciò che dobbiamo domandarci – se veramente vogliamo trovare una via d’uscita alle semplicistiche teorie di Huntington e della Fallaci – è se la struttura dei clan può generare una forma di partecipazione democratica alla vita sociale.

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