William Shakespeare - Amleto
Dopo la sconfitta
elettorale di George W. Bush, qualcuno potrebbe essere persuaso che i rischi per
la pace planetaria siano drasticamente ridotti, come se il Presidente americano
fosse l'unico artefice della strategia globale di guerra, finalizzata a definire
i nuovi rapporti economici internazionali ed il conseguente accaparramento delle
risorse energetiche.
Oggi, dicembre 2006, assistiamo al crollo del castello di carte costruito dai
neocon americani: Rumsfeld ha lasciato il Pentagono e Bolton l'ONU. Due
importanti pedine dell'amministrazione di destra americana sono state
sacrificate ai democratici dopo la sconfitta elettorale, ma non cadiamo
nell'errore di credere che Baker ed i democratici chiamati al “capezzale”
dell’Iraq siano delle colombe.
Giustamente, il
Ministro italiano degli Esteri D'Alema ha scorto in quei mutamenti interni agli
Usa il passaggio dall’unilateralismo dei neocon ad una nuova fase, più
vicina al multilateralismo che fu di Clinton.
Non dimentichiamo, però, che quella fase – nella quale Europa e Stati Uniti
furono più vicini per gestire i destini del pianeta, come nei Balcani – fu
anch'essa una stagione di guerra, anzi: proprio nei Balcani iniziarono ad essere
evidenti alcune fratture fra gli Usa e
la Francia ,
la Russia e
la Cina.
Ricordiamo che –
appena sette anni or sono – diciotto aviazioni europee più quella statunitense
non esitarono a bombardare
la Serbia per
due mesi, dove furono uccisi dalle bombe della NATO 1.200 civili serbi.
Il grande sogno americano di dominare solitari il pianeta è dunque andato in
frantumi: non per questo, però, possiamo credere che Washington ceda le armi e
s’appresti a chiudersi in sé stessa, ossia a varare una nuova fase
isolazionista. Nel pianeta della globalizzazione dei mercati, chi si ferma è
perduto.
I prossimi due anni
della presidenza Bush – il cosiddetto “regno dell'anatra zoppa” – saranno
utilizzati per ricostruire i rapporti fra le due rive dell’Atlantico:
consapevoli di non poter raggiungere l'obiettivo in completa solitudine, gli Usa
cercheranno nuove alleanze per realizzare i medesimi risultati.
D'altro canto, nemmeno l'Europa desidera che gli Stati Uniti abbandonino lo
scenario geopolitico mondiale: l'assenza di Washington dalla scena comporterebbe
per Bruxelles un impegno che l'Europa, oggi, non è in grado di reggere.
Cosa possiamo
ragionevolmente attenderci dalla nuova situazione?
Se Washington, come sembra, abbandonerà le posizioni unilaterali sposate negli
ultimi cinque anni – e sarà disposta ad accettare dei compromessi che riguardano
soprattutto la partita mondiale dell'energia – l'Europa sarà obbligata a cercare
dei compromessi politici interni a tutti gli stati dell'Unione – di qualsiasi
tipo sia il governo, di destra o di sinistra – per raggiungere un punto
d'incontro con gli Usa.
Non a caso, proprio
negli stessi giorni, l’UDC si smarca dall’alleanza di centro destra e si rende
disponibile per nuovi scenari: no a Prodi ma “nessuna preclusione” (parole di
Casini) nei confronti di Massimo D’Alema.
Il vecchio professore non potremmo mai accettarlo – sembra raccontare Casini –
perché legato ad un’idea d’Europa che mantiene una sostanziale indipendenza
dalle scelte USA: il “bombardiere di Belgrado”, invece – per aver dimostrato in
quell’occasione tutta la sua spregiudicatezza – consentirebbe quel governo di
“larghe intese” senza l’estrema sinistra, il quale troverebbe ampio consenso nei
nuovi Stati Uniti “liberati” dall’ingombrante presenza di Bush.
Il nuovo scenario
sposta alle calende greche tutte le fumose ipotesi di “Eurasia”, ossia alleanze
strategiche di lungo periodo con
la Russia ed
altri partner orientali (non del tutto sgradite a Prodi): un'Europa isolata non
può correre il rischio di future alleanze strategiche tra Washington e
la Cina ,
l'India, la stessa Russia.
Il terremoto politico conseguente alle elezioni di medio termine americane e
dunque qualcosa di più della semplice sconfitta di Bush, bensì è un importante
giro di boa nei rapporti politici internazionali.
Uno dei frutti della politica unilaterale americana è stato senz'altro il
rafforzamento del cosiddetto “asse orientale”, ossia dei paesi appartenenti al
patto di Shanghai, che negli ultimi mesi ha assunto sempre di più la forma di un
nuovo “patto di Varsavia” in chiave antiamericana.
Una forte alleanza
orientale spaventa Bruxelles, al punto che alcuni stati europei – Francia e
Italia in primis – non hanno esitato ad inviare i propri contingenti di
truppe in Libano per “raffreddare” una situazione che appariva sempre più
problematica per Israele e, in definitiva, per gli Stati Uniti stessi.
Consapevoli dello sforzo compiuto dall'Europa per venire in loro soccorso dopo
la sciagurata guerra in Libano, gli USA oggi affermano – per bocca del nuovo
Segretario alla Difesa, Gates – che una guerra contro
la Siria “non è
più in agenda” ed un eventuale scontro con l'Iran è da ritenere “molto
improbabile”, una soluzione “da ultima spiaggia”. Miele, per le orecchie
europee.
In altre parole,
sia a Bruxelles e sia a Washington ci si è resi conto d'essere andati troppo
oltre nello scontro con il “blocco orientale”: ne sono testimoni i molti accordi
commerciali e soprattutto militari fra Mosca, Pechino, Nuova Delhi e Teheran.
L'ostinazione di Bush nei confronti dell’Iraq e dell'Afghanistan ha addirittura
permesso all'America Latina di smarcarsi dal perfido gioco che la relegava ad
essere soltanto il cortile sul retro degli Stati Uniti: Venezuela e Bolivia
viaggiano oramai verso scenari da socialismo reale, mentre l'Argentina – dopo la
grave crisi economica – guarda anch'essa con scarsa fiducia verso Washington.
Non possiamo però nasconderci che il vero “regista” del distacco del continente
sudamericano da quello nordamericano è il presidente brasiliano Lula, che è alla
guida dell’economia più dinamica del continente: ad oggi, l'unica nazione che
sembra ancora conferire fiducia a Washington è
la Colombia.
Una situazione
nella quale le periferie del pianeta stanno sfuggendo al controllo del centro il
quale, a sua volta – proprio a causa delle sue divisioni – non ha più potenti
strumenti economici e militari per riconfermare una sorta di controllo
neocoloniale sul cosiddetto terzo e quarto mondo.
Si tratta – per Bruxelles e per Washington – di un gioco che è giunto ad una
soglia molto pericolosa: oltrepassato un confine, potrebbe non essere più
possibile ricostruire il gioco di alleanze edificato dopo la seconda guerra
mondiale; quelle alleanze che consentirono di raccogliere, ancora per molti
anni, i frutti della passata stagione coloniale.
L'obiettivo del
prossimo biennio sarà dunque quello di raffreddare la corsa del prezzo del
petrolio, per non vanificare i frutti di una debolissima crescita economica:
potremmo anche ragionevolmente attenderci interventi sui cambi, per rallentare
la corsa dell'euro e scongiurare un eventuale crollo della moneta americana.
Una nuova stagione d'amore attende quindi Bruxelles e Washington, una fase nella
quale saranno rivisti e riconsiderati i molti accordi – finanziari, industriali,
militari – che la politica unilaterale di Bush aveva mandato in frantumi.
Tous va bien, allora? Sono definitivamente scongiurati i rischi di
un'esplosione in Medio Oriente? La corsa militare per accaparrarsi i pozzi di
petrolio appartiene oramai al passato? Il sogno del Nuovo Medio Oriente è
definitivamente svanito?
Non è un caso se il piano appena redatto per uscire dall’Iraq, con la
partecipazione dei democratici, prevede il definitivo sganciamento dallo
scenario iracheno per il 2008: guarda caso, l'anno nel quale si terranno negli
Stati Uniti le prossime elezioni presidenziali.
Il 2008, però, non sarà un anno di cambiamento nei soli Stati Uniti: non
sappiamo chi sarà (e se ci sarà) un nuovo inquilino al Cremlino; inoltre, anche
all’Eliseo ci sarà un nuovo presidente (o presidentessa).
Difficile prevedere
quali vie prenderà la politica cinese e quale coalizione governerà in India:
possiamo soltanto ragionevolmente ipotizzare che dopo il 2008 prenderanno il via
nuovi grandi giochi della politica internazionale.
Se cambiano gli uomini, le coalizioni e i governi gli obiettivi non mutano:
nell'area del Golfo Persico è concentrato di 63% delle riserve petrolifere
mondiali, pari a circa 50.000 miliardi di dollari, cinque volte il PIL USA. Il
gas naturale è invece suddiviso approssimativamente per un terzo nel Golfo, un
altro terzo in Russia ed il rimanente nel resto del pianeta.
In un fazzoletto di terra e mare relativamente ristretto, c’è la “cassaforte”
petrolifera del pianeta, soprattutto se consideriamo che il rimanente 37% è
disperso nel resto dei cinque continenti.
Può l’Europa non
essere interessata al petrolio del Golfo Persico? No, non può perché
l’estrazione nel Mare del Nord durerà ancora pochi anni e poi la “baracca” sarà
chiusa per l’esaurimento dei pozzi. Stessa situazione negli USA e nel resto del
pianeta: se non sono già scoppiate grandi guerre per il petrolio è soltanto
perché il 37% del resto del pianeta fornisce ancora sufficiente estrazione di
greggio, tale da compensare una politica troppo “invadente” dell’OPEC e dei
paesi del Golfo.
La questione, però, non interessa soltanto il Medio Oriente: negli ultimi anni
abbiamo constatato la sempre maggior insofferenza alle ingerenze USA d’alcuni
paesi sudamericani, il loro allontanarsi da Washington. Dal Venezuela alla
Bolivia, dall’Argentina all’Ecuador, ciò che muove grandi interessi economici
contrastanti non è la questione della coca, bensì – più semplicemente – il
controllo delle risorse energetiche di quei paesi.
Anche le attuali
tensioni in Nigeria sono soltanto l’incresparsi di un mare che testimonia
sotterranei sommovimenti: l’ingresso prepotente dei cinesi in quelle aree –
s’accaparrano stock di petrolio senza sottilizzare troppo sul prezzo – e la
sempre maggior importanza di Gazprom (primo gruppo, a livello mondiale,
dell’energia) che muove i suoi tentacoli anche in Africa.
Se non bastava l’invasione dei prodotti orientali sui mercati occidentali, le
stesse nazioni orientali si stanno muovendo nel pianeta per competere con i
tradizionali gestori del mercato energetico e – grazie ai loro consistenti mezzi
economici – stanno prendendo il sopravvento.
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