Il Governo ha assunto
l’iniziativa sul fronte dell’immigrazione, approvando fra l’altro un nuovo
contingente di ingressi autorizzati per 350mila richiedenti: gli
esclusi dal decreto-quote del mese di marzo, in realtà quasi sempre già
presenti e occupati nel nostro paese.
Subito si è alzato un coro di critiche, di chi teme l’accantonamento di una
presunta fermezza nei confronti dell’immigrazione irregolare e l’arrivo di
un volume incontrollabile di cosiddetti "clandestini". Molti continuano a
preferire un’ipocrisia da "importatori riluttanti" di lavoro immigrato,
fatta di fermezza apparente, controlli inadeguati sui luoghi di lavoro,
immancabili sanatorie.
Affanni del welfare e cultura della domiciliarità
È singolare come, nell’immaginario collettivo, l’immigrato
undocumented sia normalmente percepito come maschio, mussulmano,
arrivato sulle nostre coste con un barcone, dedito a losche attività.
Nella realtà, invece, molta parte dell’immigrazione irregolare è
femminile, proviene dall’Europa dell’Est o dall’America latina, entra
con un permesso turistico, contribuisce con il suo lavoro (non dichiarato)
alla soluzione dei problemi di vita quotidiana di molte famiglie italiane,
ormai non più necessariamente abbienti. A queste lavoratrici si riferisce la
maggior parte dei nuovi ingressi autorizzati: persone che nel mese di marzo
si erano sottoposte alla finzione delle chiamate nominative dall’estero, ma
erano rimaste escluse, magari per uno scarto di pochi secondi, un
inceppamento della timbratrice, un’indecisione dell’impiegato postale.
Il decreto sui nuovi ingressi sollecita peraltro una riflessione più ampia
sul lavoro mal riconosciuto nel settore domestico-assistenziale, la cui
importanza nella vita quotidiana delle famiglie italiane è sempre più
elevata. Al quasi mezzo milione di lavoratrici del settore,
conteggiate dall’Inps, occorre infatti sommare l’esteso sommerso che
caratterizza questa nicchia occupazionale. Rilevanti quanto i numeri sono le
trasformazioni che hanno investito il lavoro domestico: il profilo
professionale per molte collaboratrici familiari si è evoluto, dalla
manutenzione della casa all’assistenza domiciliare nei confronti delle
persone, specialmente anziane.
Questa figura professionale pressoché nuova è anzitutto un chiaro segno
dell’affanno crescente del nostro sistema di welfare e della sua difficoltà
a tener dietro all’evoluzione della società. Alla crescita dei grandi
anziani non ha corrisposto un incremento adeguato dei servizi pubblici a
essi destinati: tra i primati negativi dell’Italia, in ambito Ocse, rientra
anche quello relativo al numero di posti letto in strutture protette per gli
anziani e all’impegno di risorse pubbliche nell’assistenza domiciliare.
L’Italia ha il più alto tasso nel mondo di persone con oltre 65 anni, che
incidono per il 18,1 per cento della popolazione. Per contro, dispone
del più basso numero di posti-letto in residenze protette per anziani: venti
per ogni mille ultra-sessantacinquenni, quando nessun altro paese
industrializzato scende sotto la media dei sessanta posti-letto. Anche nel
caso dell’assistenza domiciliare, l’Italia si colloca all’ultimo posto, con
appena l’1 per cento degli anziani assistiti a domicilio, mentre la Francia
raggiunge il 7 per cento.
Si vanno prosciugando altresì anche le risorse del cosiddetto welfare
invisibile, ossia il lavoro non riconosciuto e non pagato delle donne
(mogli, madri, figlie), che all’interno delle famiglie si sono pressoché da
sempre fatte carico delle esigenze dei congiunti più fragili.
Si verifica così un drenaggio di risorse affettive e relazionali da paesi
più poveri, per compensare il deficit di questi impalpabili elementi nella
nostra organizzazione sociale e familiare. Per questa ragione, il termine
"badante" è riduttivo e ingiusto: queste donne sono chiamate ad assicurare
servizi che vanno ben oltre il semplice "badare" agli anziani loro affidati.
Li assistono, fanno loro compagnia, cercano di tenerli su di morale,
forniscono prestazioni delicate e para-infermieristiche. Ricorrere a loro
significa aderire a una "cultura della domiciliarità" sempre più diffusa,
che respinge l’istituzionalizzazione degli anziani e cerca di mantenerli a
casa propria. Si scambia di fatto la qualità dell’assistenza che può essere
assicurata da servizi formali con la costruzione dal basso di un welfare
domestico, informale, privo di credenziali ma percepito come più flessibile,
governabile, "amichevole" nei confronti degli anziani e delle loro famiglie.
Dalla parte dell’assistente familiare
Uno degli aspetti impliciti nel rapporto di lavoro dell’assistente
domiciliare, come preferiamo chiamarla, è pertanto la tendenza alla
familiarizzazione: si chiede di fatto a questa lavoratrice di colmare il
vuoto lasciato dai veri familiari, di diventare, come spesso si dice, "una
persona di famiglia". In questo modo, il rapporto di lavoro si carica di
sottintesi, e anche di ambivalenze. In un certo senso, ritorna a un
assetto premoderno, in cui il "padrone" è anche "patrono", si fa carico
di molti aspetti della vita personale e familiare della lavoratrice. Nello
stesso tempo, in parecchi casi tende a chiedere una dedizione e una
disponibilità che eccede i rapporti contrattuali. Ci si attende per esempio
la manifestazione di una dolcezza, un’amorevolezza nei confronti
dell’anziano da assistere che non necessariamente corrisponde ai suoi
sentimenti, e che non si chiederebbe a un’infermiera italiana.
In secondo luogo, questo settore ha bisogno in permanenza di persone
disposte a convivere giorno e notte con i datori di lavoro. Ciò significa
preferire persone sole, isolate, senza familiari in Italia; e anche
eventualmente prive di permesso di soggiorno. I comportamenti effettivi
della domanda di lavoro contrastano con la qualificazione del lavoro di cura
a domicilio, e anche con l’obiettivo di favorire l’integrazione sociale
delle lavoratrici immigrate.
Qui può subentrare anche una sorta di abusivismo di necessità: se non
è possibile assumerle regolarmente, molti si sentono autorizzati a farle
lavorare "in nero" attendendo la prossima sanatoria. Quando questa arriva,
molte famiglie (per fortuna) si sentono moralmente obbligate a mettere in
regola le assistenti domiciliari, anche se spesso i costi vengono rimbalzati
su di loro, e la stessa decisione di regolarizzarle viene percepita e
vissuta come una concessione "umanitaria".
Gli eventi invalidanti, inoltre, sono spesso improvvisi e non seguono il
calendario dei decreti ministeriali per le autorizzazioni all’ingresso. Non
guardano neppure al censo, e quindi toccano anche famiglie a basso reddito,
per le quali stipendio e contributi pieni possono rappresentare un onere
insopportabile. Sarebbe necessaria una politica molto più robusta di
voucher, finalizzati all’acquisto trasparente di prestazioni assistenziali,
oltre all’immediata possibilità di regolarizzare i rapporti di lavoro, per
socializzare i costi e far emergere il lavoro nero.
Va infine ricordato che queste lavoratrici hanno spesso alle spalle famiglie
e figli molto giovani. Partono per poterli mantenere e assicurare loro un
futuro, ma questa scelta drammatica provoca lacerazioni e ferite emotive
profonde. Anche per questa ragione, il lavoro fisso a domicilio dovrebbe
rappresentare al più una fase di passaggio, seguita per chi lo
desidera dal ricongiungimento familiare e dall’apertura di altre
opportunità.
Nel campo dell’assistenza, la soluzione auspicabile è quella del
superamento della privatizzazione del rapporto di lavoro tra famiglie e
aiutanti domiciliari, interponendo soggetti organizzativi terzi (enti
bilaterali, istituzioni pubbliche, imprese sociali, eccetera), che,
assumendo la lavoratrice, la collocherebbero in una posizione più simile a
quella di un normale dipendente.
I relativi costi non potrebbero che essere assorbiti dalla
collettività, che non può illudersi di risolvere i problemi dell’assistenza
agli anziani con il fai-da-te del welfare informale.
Archivio Immigrazione
|