Uno dei "pallini" storici di
Romano Prodi è la necessità di creare quello che lui stesso chiamò un
"centro delle strategie" per guidare lo sviluppo economico del paese,
che comprenda la politica industriale nel senso tradizionale (incentivi alle
imprese private, ad esempio), il comportamento delle imprese ancora sotto il
controllo pubblico, la politica di penetrazione commerciale verso i mercati
esteri. Il modello di riferimento è stato il famoso ministero giapponese
detto Miti, che oltre a raggruppare commercio internazionale e industria, ha
un potere di influenza e direzione sulle imprese che probabilmente nessun
ministero italiano (per ragioni culturali, economiche e istituzionali) potrà
mai avere. Ma qualche passo in questa direzione era legittimo preventivarlo.
E invece, proprio sotto questo profilo, la nuova struttura del Governo è a
dire poco sorprendente.
Mutamenti ministeriali
In primo luogo, si è risuscitato il ministero per il Commercio estero,
che esisteva negli anni Ottanta e le cui funzioni furono poi assorbite
(soprattutto) dall’allora ministero dell’Industria. Questa creazione da un
lato separa la politica commerciale sia dalla dimensione più strettamente
"economica" (legata quindi alle altre politiche rivolte alle imprese,
gestite dall’ex ministero dell’Industria, poi ribattezzato ministero delle
Attività produttive e ora ministero per lo Sviluppo economico), sia da
quella politica (che sui mercati esteri è spesso fondamentale, e che avrebbe
eventualmente spinto nella direzione di accorpare queste funzioni con quelle
del ministero degli Affari esteri).
In secondo luogo, la attribuzione di parte delle competenze che erano del
ministero dell’Economia al ministero dello Sviluppo economico e alla stessa
presidenza del Consiglio fa sorgere qualche perplessità.
Da un lato, avere ricompreso tra le politiche industriali le cosiddette
"politiche di coesione" prima attribuite al ministero dell’Economia non è
sbagliato. La politica industriale senza questi interventi sul territorio è
probabilmente un po’ monca, e – anche se nel passato il dipartimento delle
politiche di sviluppo ha operato in modo attento – risultava piuttosto
curiosa un’attribuzione che deve guardare al dettaglio microeconomico
a un ministero che dovrebbe soprattutto provvedere alla politica macro del
Governo. Anche se le preoccupazioni circa il controllo della spesa sono
comprensibili.
D’altra parte però, il ruolo della presidenza del Consiglio emerge come più
importante di prima, non solo come coordinatore delle politiche, ma anche
come attore diretto. Il che pone una questione interessante di dialettica
tra ministri e presidenza.
Resta poi aperta la questione della gestione delle partecipazioni dello
Stato nelle imprese. Queste quote sono detenute dal ministero
dell’Economia, anche se la commissione Attività produttive della Camera al
termine della scorsa legislatura, con l’accordo tra parlamentari dei due
schieramenti, aveva proposto di attribuirle all’allora ministero delle
Attività produttive, il quale a sua volta aveva ripetutamente reclamato un
ruolo più importante in queste imprese.
Le pretese del ministero delle Attività produttive non erano campate in
aria: ad esempio, la legge che nel 1999 ha avviato la liberalizzazione del
mercato elettrico (decreto legislativo 79/99, Decreto Bersani), a proposito
delle azioni di Enel che fossero rimaste in mano pubblica indicava "Le
azioni della società (…) sono assegnate al ministero del Tesoro, del
bilancio e della programmazione economica; la medesima società si attiene
agli indirizzi formulati dal ministro dell'Industria, del commercio e
dell'artigianato.". La prima di queste due azioni è avvenuta, la seconda è
da sempre oggetto di contese: se l’azionista pubblico è rappresentato dal
Tesoro, i rappresentanti pubblici nell’impresa rispondono al ministro che li
ha nominati, e il ministro oggi detto "dello Sviluppo economico" finisce per
avere un ruolo di secondo piano.
Quale sarà la gestione di queste imprese? Avremo un "centro delle strategie"
che comprende anche Eni ed Enel, o queste imprese resteranno strumenti di
leva finanziaria per assicurare al Tesoro entrate che non sono ufficialmente
"imposte" (il che riduce le polemiche politiche) anche se hanno una natura
del tutto simile?
Infine, il trasferimento delle competenze sul turismo al ministero
dei Beni culturali è un altro elemento che a dir poco stupisce. Se si vuole
creare un centro delle strategie per lo sviluppo produttivo del paese, come
si può separare lo sviluppo industriale (e – come già ricordato – le
politiche di coesione) dallo sviluppo turistico? Certo, chi lo ha fatto ha
ben presente il peso immenso del turismo nella creazione del reddito
nazionale, soprattutto in alcune delle regioni (il Meridione) meno
sviluppate, che più saranno interessate dalle "politiche di coesione". E
allora che senso ha? L’unica interpretazione che pare sensata è che questo
sia una concessione per aumentare il peso specifico del neo-ministro
dei Beni culturali, a scapito però della razionalità della struttura
complessiva di governo.
Dialettica presidenza-ministeri
Questa struttura ha quindi elementi di minore razionalità di
quanto sarebbe stato sensato sperare. Per altro, la sensazione principale è
che il ritorno alla presidenza del Consiglio di un economista non sia del
tutto neutrale, in una situazione nella quale i partiti, grazie anche e
soprattutto al sistema proporzionale resuscitato nella scorsa legislatura,
hanno un peso maggiore di prima.
Nel recente passato, su diverse questioni (ad esempio, le privatizzazioni o
la gestione delle imprese partecipate dal Tesoro) vi è stato un conflitto
tra Tesoro e Industria, ovvero tra le ragioni del bilancio pubblico e
quelle della competitività e della concorrenza. Ora vediamo che il Tesoro
perde un po’ di potere (ma ne mantiene tanto), l’Industria (ora Sviluppo
economico) diventa più importante per un verso, e meno per un altro, e la
presidenza del Consiglio si attribuisce più funzioni di prima (ad esempio,
la segreteria del Cipe, che non ci sembra un aspetto ornamentale).
A questo dobbiamo poi aggiungere un altro dettaglio, anche questo non
banale, ovvero la nomina tra i sottosegretari alla presidenza – funzione
tipicamente riservata a politici "puri" – di un altro economista, Fabio
Gobbo, da sempre collaboratore di Romano Prodi. È allora facile prevedere
che dal conflitto "storico" tra Tesoro e Industria si passerà a una
dialettica ancora più complessa, in cui la presidenza del Consiglio intende
assumere un ruolo più importante che nel passato, quando si era limitata a
mediare.
Questo aumenterà i conflitti, o il peso diretto della presidenza sarà tale
da risolvere eventuali contrasti alla radice? Il "centro delle strategie"
sarà il ministero dello Sviluppo economico o direttamente la presidenza? La
struttura del Governo purtroppo non dà indicazioni chiare.
Archivio Informazione
|