Il settore dei
media si conferma anche in questa legislatura crocevia di fortissime
tensioni politiche e difficile palestra per una riforma ragionata. Il
governo ha mostrato in questi mesi una attitudine ondivaga nei confronti
della Rai, tra tentazioni di intervenire in modo diretto nelle
nomine e pudore a ripercorrere troppo fedelmente la triste esperienza
delle liste di proscrizione che abbiamo conosciuto nella precedente
legislatura.
Resta tuttavia il tema di fondo di una riforma degli
assetti del sistema dei media che intervenga laddove la legge
Gasparri ha mostrato le più evidenti lacune, peraltro facilmente
prevedibili fin dal suo varo. A questo primo scenario si è associato
prepotentemente il parallelo problema dello sviluppo dei settori delle
telecomunicazioni e della situazione di Telecom Italia, che seguendo il
processo della convergenza tra Tlc e media propone ulteriori punti di
riflessione.
Da Gasparri a Gentiloni
Le ipotesi di riforma della legge Gasparri che
sino ad oggi sono circolate suggeriscono un approccio prudente:
l’abbandono del Sistema integrato delle comunicazioni (Sic),
l’immenso contenitore entro il quale valutare l’esistenza di posizioni
dominanti; il ritorno a una valutazione riferita ai singoli mercati
e ai singoli media; l’utilizzo di un criterio di fatturato nel
valutare dimensione dei singoli mercato e dimensione degli attori; la
definizione di una soglia massima del 30 per cento nell’ambito del
mercato televisivo. Silenzio sulla privatizzazione della Rai,
silenzio sulla eventuale dismissione di reti e su analoghe misure per
Mediaset.
Se questi sono gli orientamenti della maggioranza, va detto che alla
finzione della legge Gasparri, coerente nella tradizione di disegnare
leggi sulla televisione che fotografassero l’esistente, seguirebbe una
serie di deboli correttivi del tutto in linea con la stessa tradizione.
Molte volte sulle colonne de lavoce.info abbiamo ripetuto che il
problema di pluralismo in Italia si configura come un problema di
concentrazione degli ascolti in capo a due soli gruppi editoriali. Se è
così, la cura non può essere che una riduzione di tale concentrazione.
Può il mercato, e in particolare lo sviluppo di nuovi canali,
finanziati con pubblicità o a pagamento, ridistribuire la audience in
modo meno concentrato?
La risposta che deriva sia dall’analisi economica che dall’esperienza
dei mercati è negativa, almeno in orizzonte temporale ragionevole. Il
meccanismo di competizione per la audience porta all’emergere di pochi
canali vincenti, gli unici in grado di ripagare con i proventi
pubblicitari gli alti costi di un palinsesto di successo. La storia di
eterno settimino di TeleMontecarlo, poi La7, non è il frutto di
incapacità imprenditoriale, ma del fatto che non c’è spazio, dalla
competizione con due gruppi multicanale, per un terzo incomodo di peso.
Le pay-tv, oggi un attore importante con Sky che raggiunge 3,5
milioni di abbonati, sono in grado di raccogliere rilevanti fatturati,
ma non incidono significativamente sulla audience media, al di là
di pochi picchi in corrispondenza di eventi di particolare importanza.
In questo senso anche lo sviluppo di piattaforme pay diverse da quelle
oggi esistenti, e basate sulla banda larga (LINK Gambaro media company),
può sicuramente arricchire il ventaglio di possibilità aperte ai
telespettatori, ma non modifica la questione sostanziale della
concentrazione della audience in capo a due grandi gruppi editoriali.
Cedere una rete ciascuno
L’unico modo per rompere questa situazione è quindi
quello di ridurre il numero di licenze per trasmissione in chiaro
finanziata con pubblicità in capo a un singolo operatore: la cessione
sul mercato di una rete sia da parte di Rai che di Mediaset.
Cessione, non esproprio né chiusura, attraverso cui il gruppo editoriale
è in grado di realizzare il valore degli asset ceduti e gli addetti di
mantenere i livelli occupazionali.
Questa strada, tuttavia, non sembra nelle prospettive della maggioranza
di centrosinistra, a giudicare dal programma dell’Unione e dai primi
passi del governo in materia. La strada è sbarrata dalla volontà di non
affrontare il capitolo Rai, la privatizzazione di una parte delle
sue reti e la loro cessione sul mercato. Senza questo "sacrificio", il
governo non può procedere a una analoga misura di cessione applicata
alle reti Mediaset.
In questo senso le anticipazioni uscite sulla riforma della legge
Gasparri hanno la forma di un "vorrei ma non posso": si abbandona
il Sic, in base a cui nessun operatore era dominante sul mercato
complessivo, passando a una analisi dei singoli mercati. Si utilizza
tuttavia un criterio di misurazione delle posizioni relative basato sul
fatturato, e così le pay-tv, che realizzano con gli abbonamenti un
elevato ricavo per telespettatore, vengono sopravvalutate rispetto a una
loro misurazione in termini di audience ottenuta. La soglia del 30 per
cento delle risorse nel mercato televisivo verrebbe sostanzialmente
rispettata (le stime parlano di 32 per cento per Mediaset e 34 per cento
per Rai), con una eventuale piccola limatura nelle politiche
pubblicitarie.
Tra "la Gasparri" e "la Gentiloni", verrebbe da dire, mutato l’ordine
degli indicatori il risultato non cambia.
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