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30/09/2006 Le Reti che non riusciamo ad accendere (Antonio Sassano, www.lavoce.info)

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Scorporare la rete fissa. Vendere la rete mobile. C’è persino qualcuno che continua a ripetere che è necessario "vendere una o due reti Rai e altrettante Mediaset". Non c’è dubbio, le reti sono al centro del dibattito nazionale e tutti le considerano elementi irrinunciabili per lo sviluppo del paese.

Il digitale nel mondo

Eppure ci sono reti strategiche che gli altri paesi europei pianificano con cura e che il nostro non sarà, forse, in grado di accendere. Si tratta delle reti wireless, senza fili, basate sulle nuove tecnologie emergenti (DMB, DVB-H e Wi-Max) e che ci consentiranno di ricevere la televisione mobile e Internet in mobilità.
La commissaria europea Viviane Reding ha recentemente sottolineato che i servizi wireless rappresentano già il 2 per cento del Pil europeo e che sono necessarie nuove modalità di gestione dello spettro per liberare risorse da destinare alle nuove tecnologie. L’Office of Communications inglese, a sua volta, immagina di liberare 108 MHz di banda radiotelevisiva (più di un terzo del totale) per destinarli al dispiegamento delle nuove tecnologie wireless. Infine, operatori mobili, broadcaster radiofonici e televisivi e sostenitori del WiMax duellano sulla necessità di destinare all’una o all’altra tecnologia la banda televisiva liberata dal processo di razionalizzazione dello spettro.
Insomma, il mercato e i governi sono in grande fermento per razionalizzare e liberare lo spettro, realizzare la nuova rete wireless a larga banda e incassare quello che viene comunemente chiamato "dividendo digitale". Il quale però non ha solo una valenza industriale. Anzi, le nuove tecnologie wireless e in particolare il Wi-Max costituiscono uno degli strumenti più economici per portare la banda larga nelle aree marginali e, dunque, per ridurre la disparità nell’accesso che prende il nome di digital divide.
Ebbene, noi non possiamo accendere quelle reti, poiché le frequenze migliori per le tecnologie wireless sono attualmente congelate nelle nostre caotiche e inesplorate reti televisive analogiche.

La caotica situazione italiana

Per capire meglio, partiamo dai numeri. Il numero e le caratteristiche degli impianti che irradiano, utilizzando ciascuno una diversa frequenza, i programmi ricevuti dai nostri televisori, non è noto con certezza.
Nello scorso giugno il governo e l’Agcom hanno avviato una capillare verifica su questo "buco informativo". Una stima ragionevole ci porta a valutare in circa 22mila gli impianti (e le relative frequenze) in funzione nel nostro paese contro i circa 13mila impianti francesi e i 10mila tedeschi. La maggior parte degli impianti italiani, però, sono ignoti alle organizzazioni internazionali.
Nella recente conferenza di Ginevra, che ha definito il piano regolatore delle frequenze digitali, l’Italia si è vista riconoscere l’esistenza di 3.677 impianti e frequenze analogiche. Tutti gli altri, non esistono.
La conferenza di Ginevra ha anche indicato quali impianti e frequenze potranno essere usati per il digitale terrestre. Secondo una prima valutazione di massima, in Italia saranno solo tre o quattromila, e previa ristrutturazione. Certo, altri impianti potranno essere accesi grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia digitale, ma si tratterà di una drastica trasformazione dell’uso dello spettro.
Trasformazione peraltro inevitabile per riportare il nostro paese alla normalità dei rapporti internazionali e per poter chiedere protezione dall’interferenza degli Stati confinanti, come ad esempio quelli della ex-Jugoslavia, che potrebbero decidere di comportarsi "all’italiana" e danneggiare tutte le emittenti della costa adriatica.
Ma la ristrutturazione è inevitabile non solo per rispettare gli accordi internazionali o per fruire di nuovi contenuti, ma perché è interesse dello Stato e del mercato sfruttare la nuova tecnologia digitale per liberare una parte dello spettro televisivo e dedicarlo a nuovi usi

Uno spettro da ristrutturare

L’obiettivo è quindi allineare la nostra strategia a quella dell’Unione Europea. Ma, non è facile.
Gli altri paesi partono da una situazione ordinata e da uno spettro gestito da pochi operatori di rete. Il nostro, invece, è affollato, sotto-utilizzato e gestito da centinaia di operatori di rete con interessi contrastanti.
Le nostre reti analogiche sono piene di impianti con aree di servizio sovrapposte. Soprattutto nelle grandi aree metropolitane, ma non solo, siamo in grado di ricevere due copie di Rai1 o due di Canale 5, ma paghiamo questo privilegio con una riduzione delle frequenze a disposizione degli altri operatori.
Non basta, il nostro spettro è gestito da centinaia di operatori televisivi diversi: dai due grandi alle centinaia di piccole emittenti locali. Questi operatori occupano capillarmente tutto lo spettro disponibile e sono portati a considerare il diritto d’uso delle frequenze alla stregua di un diritto di proprietà. La situazione rende ardua la razionalizzazione dello spettro in quanto ristrutturazioni, disattivazioni e coordinamento internazionale di impianti sollevano inevitabilmente la domanda: "cosa accade alla mia frequenza?"
Domanda che acquista un peso ancora maggiore quando a porla sono coloro che possiedono più di un quarto dello spettro o che hanno acquistato centinaia di frequenze sulla base di leggi approvate nelle due ultime legislature. La saldatura tra queste voci potenti e le voci dei broadcaster locali, che hanno nelle frequenze il loro unico asset, potrebbe creare un forte ostacolo alla razionalizzazione e mantenere lo status quo.
Insomma, la razionalizzazione dello spettro italiano è indispensabile ma difficile. Rischiamo di essere gli unici a non accendere in tempi brevi le nuovi reti wireless. O a non poter utilizzare le frequenze migliori.
Dobbiamo mettere a punto una "strategia paese" per evitare questo pericolo. Sarà inevitabile puntare a una gestione unitaria dello spettro e a sviluppare un atteggiamento cooperativo tra gli attuali utilizzatori delle frequenze, finalizzato alla creazione di valore, ma rispettoso dei diritti di tutti gli stakeholder (operatori, consumatori e cittadini). Forse il tavolo di "Italia Digitale", recentemente istituito dal ministro Gentiloni, è il luogo adatto per farlo

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