Scorporare la
rete fissa. Vendere la rete mobile. C’è persino qualcuno che continua a
ripetere che è necessario "vendere una o due reti Rai e altrettante
Mediaset". Non c’è dubbio, le reti sono al centro del dibattito
nazionale e tutti le considerano elementi irrinunciabili per lo sviluppo
del paese.
Il digitale nel mondo
Eppure ci sono reti strategiche che gli altri paesi
europei pianificano con cura e che il nostro non sarà, forse, in grado
di accendere. Si tratta delle reti wireless, senza fili,
basate sulle nuove tecnologie emergenti (DMB, DVB-H e Wi-Max) e che ci
consentiranno di ricevere la televisione mobile e Internet in mobilità.
La commissaria europea Viviane Reding ha recentemente sottolineato che i
servizi wireless rappresentano già il 2 per cento del Pil
europeo e che sono necessarie nuove modalità di gestione dello spettro
per liberare risorse da destinare alle nuove tecnologie. L’Office of
Communications inglese, a sua volta, immagina di liberare 108
MHz di banda radiotelevisiva (più di un terzo del totale) per destinarli
al dispiegamento delle nuove tecnologie wireless. Infine,
operatori mobili, broadcaster radiofonici e televisivi e sostenitori del
WiMax duellano sulla necessità di destinare all’una o all’altra
tecnologia la banda televisiva liberata dal processo di
razionalizzazione dello spettro.
Insomma, il mercato e i governi sono in grande fermento per
razionalizzare e liberare lo spettro, realizzare la nuova rete
wireless a larga banda e incassare quello che viene comunemente
chiamato "dividendo digitale". Il quale però non ha solo una
valenza industriale. Anzi, le nuove tecnologie wireless e in
particolare il Wi-Max costituiscono uno degli strumenti più economici
per portare la banda larga nelle aree marginali e, dunque, per ridurre
la disparità nell’accesso che prende il nome di digital divide.
Ebbene, noi non possiamo accendere quelle reti, poiché le frequenze
migliori per le tecnologie wireless sono attualmente congelate
nelle nostre caotiche e inesplorate reti televisive analogiche.
La caotica situazione italiana
Per capire meglio, partiamo dai numeri. Il numero e
le caratteristiche degli impianti che irradiano, utilizzando ciascuno
una diversa frequenza, i programmi ricevuti dai nostri televisori,
non è noto con certezza.
Nello scorso giugno il governo e l’Agcom hanno avviato una capillare
verifica su questo "buco informativo". Una stima ragionevole ci porta a
valutare in circa 22mila gli impianti (e le relative frequenze)
in funzione nel nostro paese contro i circa 13mila impianti francesi e i
10mila tedeschi. La maggior parte degli impianti italiani, però, sono
ignoti alle organizzazioni internazionali.
Nella recente conferenza di Ginevra, che ha definito il piano regolatore
delle frequenze digitali, l’Italia si è vista riconoscere l’esistenza di
3.677 impianti e frequenze analogiche. Tutti gli altri, non esistono.
La conferenza di Ginevra ha anche indicato quali impianti e frequenze
potranno essere usati per il digitale terrestre. Secondo una
prima valutazione di massima, in Italia saranno solo tre o quattromila,
e previa ristrutturazione. Certo, altri impianti potranno essere accesi
grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia digitale, ma si
tratterà di una drastica trasformazione dell’uso dello spettro.
Trasformazione peraltro inevitabile per riportare il nostro paese alla
normalità dei rapporti internazionali e per poter chiedere protezione
dall’interferenza degli Stati confinanti, come ad esempio quelli della
ex-Jugoslavia, che potrebbero decidere di comportarsi "all’italiana" e
danneggiare tutte le emittenti della costa adriatica.
Ma la ristrutturazione è inevitabile non solo per rispettare gli
accordi internazionali o per fruire di nuovi contenuti, ma perché è
interesse dello Stato e del mercato sfruttare la nuova
tecnologia digitale per liberare una parte dello spettro televisivo e
dedicarlo a nuovi usi
Uno spettro da ristrutturare
L’obiettivo è quindi allineare la nostra strategia a
quella dell’Unione Europea. Ma, non è facile.
Gli altri paesi partono da una situazione ordinata e da uno spettro
gestito da pochi operatori di rete. Il nostro, invece, è affollato,
sotto-utilizzato e gestito da centinaia di operatori di rete con
interessi contrastanti.
Le nostre reti analogiche sono piene di impianti con aree di
servizio sovrapposte. Soprattutto nelle grandi aree metropolitane, ma
non solo, siamo in grado di ricevere due copie di Rai1 o due di Canale
5, ma paghiamo questo privilegio con una riduzione delle frequenze a
disposizione degli altri operatori.
Non basta, il nostro spettro è gestito da centinaia di operatori
televisivi diversi: dai due grandi alle centinaia di piccole emittenti
locali. Questi operatori occupano capillarmente tutto lo spettro
disponibile e sono portati a considerare il diritto d’uso delle
frequenze alla stregua di un diritto di proprietà. La situazione
rende ardua la razionalizzazione dello spettro in quanto
ristrutturazioni, disattivazioni e coordinamento internazionale di
impianti sollevano inevitabilmente la domanda: "cosa accade alla mia
frequenza?"
Domanda che acquista un peso ancora maggiore quando a porla sono coloro
che possiedono più di un quarto dello spettro o che hanno acquistato
centinaia di frequenze sulla base di leggi approvate nelle due ultime
legislature. La saldatura tra queste voci potenti e le voci dei
broadcaster locali, che hanno nelle frequenze il loro unico asset,
potrebbe creare un forte ostacolo alla razionalizzazione e mantenere lo
status quo.
Insomma, la razionalizzazione dello spettro italiano è indispensabile ma
difficile. Rischiamo di essere gli unici a non accendere in tempi brevi
le nuovi reti wireless. O a non poter utilizzare le frequenze
migliori.
Dobbiamo mettere a punto una "strategia paese" per evitare questo
pericolo. Sarà inevitabile puntare a una gestione unitaria dello spettro
e a sviluppare un atteggiamento cooperativo tra gli attuali utilizzatori
delle frequenze, finalizzato alla creazione di valore, ma rispettoso dei
diritti di tutti gli stakeholder (operatori, consumatori e cittadini).
Forse il tavolo di "Italia Digitale", recentemente istituito dal
ministro Gentiloni, è il luogo adatto per farlo
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