Buongiorno a tutti,
oggi parliamo di un processo scomparso, un processo dimenticato.
Anzi, per nulla dimenticato. Proprio perché chi di dovere lo sa che non ne
parla. E dopo capirete il perché.
A Palermo, in un’aula della quarta sezione penale del Tribunale, si sta
processando l’ex capo dei servizi segreti civili, cioè l’ex capo del SISDE. Che
è un prefetto, ma è anche un generale dei Carabinieri e si chiama Mario Mori. Un
omino piccolo, un valoroso ufficiale dell’Arma, che ha lavorato con Dalla Chiesa
ai tempi del terrorismo, che ha lavorato al R.O.S. – il Reparto Operazioni
Speciali dei Carabinieri – ha guidato il R.O.S.
E’ un pluridecorato e plurimedagliato per la cattura di Riina e
altri latitanti mafiosi, eppure pare nasconda dei segreti. Pare. Nessuno è in
grado di affermarlo con certezza. Il processo è in corso. Ma io ne sarei
abbastanza certo in quanto penso che questo sia una delle massime eccellenze
investigative che abbiamo avuto in Italia. E che evidentemente nella stagione
delle stragi di mafia è stato investito da un qualche potere che non conosciamo
– ecco perché dico ‘pare’ che nasconda dei segreti – del compito, dell’ingrato
compito, del terribile compito di trattare con la mafia mentre
l’Italia veniva messa a ferro e fuoco dalle bombe, in Sicilia nel ’92 e
addirittura nel continente, a Milano, Roma e Firenze, nel ’93.
Il mancato arresto di Provenzano nel 1995
Ora però non è imputato per quello, è imputato per una questione che potrebbe
spiegare quella trattativa e potrebbe spiegare quel misterioso episodio che è
stato oggetto di un altro processo che immediatamente precede l’episodio per il
quale Mori adesso è imputato, la mancata perquisizione del covo di Riina dopo la
sua cattura. Questo processo si riferisce a un altro episodio, che segue di due
anni la mancata perquisizione del covo di Riina e risale al
1995 e precisamente al 31 ottobre 1995.
Che cosa accade il 31 ottobre del 1995? Un colonnello dello stesso R.O.S. dei
Carabinieri, grazie a un mafioso suo confidente sotto copertura – infiltrato
nella mafia, ma confidente dei Carabinieri – riesce a scoprire dove è nascosto
Provenzano. Provenzano nel 1995, due anni dopo la cattura di Riina, due anni
dopo le ultime stragi, è il capo indiscusso di Cosa Nostra. Il confidente
avverte il colonnello dei Carabinieri, che si chiama Michele Riccio, il
consulente si chiama Luigi Ilardo. Il Carabiniere riesce a scoprire dove è
nascosto Provenzano.
Di più, incontra Provenzano. Ha un appuntamento con Provenzano in
questo capanno di Mezzojuso. È un centro di campagna, una trentina di chilometri
a sud di Palermo. Quindi dice: “Sto per incontrare Provenzano, venitemi dietro
che vi faccio catturare Provenzano!”. Il colonnello Riccio
entusiasta parla con i vertici del R.O.S., che sono i generali – c’è il
colonnello Mori che è il capo operativo – c’è il braccio destro di Mori che è
l’allora maggiore Mario Obinu, i quali decidono di non catturare Provenzano, ma
semplicemente di far pedinare il confidente a distanza per vedere dove va, e poi
cercare di catturare Provenzano quando saranno tutti pronti.
Purtroppo passata quella occasione, Provenzano non ne consentirà
un’altra. Fino a quando, undici anni dopo, all’indomani delle elezioni
vinte dal centro-sinista quasi tre anni fa, Provenzano verrà catturato, o verrà
consegnato, o si consegnerà, o si lascerà prendere. Perché sapete che le catture
dei boss in Sicilia destano sempre degli interrogativi, dubbi, interpretazioni
pirandelliane, come quel gioco di specchi, dove non si riesce mai a capire chi
ha fatto che cosa. Esattamente come la cattura di Totò Riina nel ’93.
Lo Stato era compatto nella lotta alla mafia?
Ecco, questo processo, se uno lo conosce, consente alla gente di capire – non
solo gli esperti, ma la gente comune – cosa è successo tra lo Stato e la mafia
negli ultimi quindici anni. Potrebbe riscrivere, questo
processo, la storia della mafia e dell’antimafia degli ultimi quindici, vent’anni.
E infatti i pubblici ministeri – il pubblico ministero principale (sono in tre
che lavorano: sono Nico Gozzo, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo), quello che si
è occupato fin dall’inizio di questa indagine è Nino Di Matteo, il 15
luglio dell’anno scorso quando è iniziato il processo, dopo il rinvio a
giudizio di Mori e di Obinu, ha tracciato davanti ai magistrati la sua ipotesi
accusatoria.
Dicendo: “in questo processo intendiamo dimostrare questo, questo e
quest’altro, con le seguenti prove e le seguenti testimonianze ecc.”
Naturalmente è intervenuto l’avvocato Pietro Miglio, in rappresentanza della
difesa dei due ufficiali, il quale invece ha detto: “noi dimostreremo che i
nostri due clienti, Mori e Obinu, sono innocenti, che non c’è nessun mistero,
che Provenzano non si faceva catturare.”
Qual è l’ipotesi accusatoria che a noi interessa? Non è tanto
interessante sapere se Mori e Obinu hanno commesso dei reati, quelli sono fatti
loro, dei magistrati, degli avvocati. Quel è il processo nel suo aspetto
giuridico. Poi c’è l’aspetto pubblico e cioè quello che interessa a noi, o
dovrebbe interessare a noi se qualcuno ce li raccontasse, e cioè sapere chi ha
fatto che cosa e perché. Sapere poi se quello è un reato o no, poco importa.
Importa sapere se lo Stato era tutto compatto nel combattere la mafia, se lo
Stato aveva una sola strategia per combattere la mafia, se è vero che la mafia e
lo Stato si sono sempre contrapposti in questi ultimi vent’anni e se è vero
quello che ci veniva raccontato mentre esplodevano le bombe che
uccidevano Falcone, la scorta e la moglie, poi Borsellino e la scorta e
tanti innocenti cittadini comuni presi per caso dalle bombe di via Palestro a
Milano o di via dei Georgofili a Firenze, e delle basiliche di San Giorgio al
Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma, per non parlare dell’attentato di via
Fauro contro Maurizio Costanzo.
Se quello che ci veniva detto, e cioè “non abbasseremo la guardia!”,
“nessuna pietà” era vero o era solo una declamazione retorica. Qui sembrerebbe
che dietro le quinte, mentre lo Stato faceva la faccia feroce
davanti alle telecamere, dietro le quinte fosse in realtà affaccendato a
trattare con in mafiosi evidentemente perché l’aveva sempre fatto in passo, ed
evidentemente perché l’ha sempre fatto in futuro. Ed è interessante quindi
questa storia per capire un po’ tutto. Perché se fosse vera l’ipotesi
accusatoria – il reato che viene contestato a Mori e a Obinu è piuttosto grave:
favoreggiamento aggravato e continuato a Cosa Nostra, in
particolare a Provenzano. Qual è questa tesi accusatoria?
La tesi accusatoria è che, nel 1992, mentre a Milano esplode Tangentopoli, la
Corte di Cassazione conferma le condanne dei mafiosi che Falcone e Borsellino
con grande fatica sono riusciti a far condannare nel maxiprocesso nato dalle
dichiarazioni di Buscetta e di altri due pentiti, Contorno e Calderone. La mafia
si aspetta che la Cassazione con il solito Carnevale annullerà
tutto e rimanderà liberi e belli i boss nelle loro case, e invece Carnevale non
presiede il Collegio quella volta, perché è stato istituito una sorta di
principio di rotazione, e lo stesso Carnevale ha preferito per opportunità, nel
pieno della polemica, cedere il passo a un altro presidente.
Basta il cambio di un presidente per far sì che quasi tutte le condanne
vengano confermate in Cassazione. Per la mafia è uno shock bestiale,
la fine della sua impunità storica ed è anche un problema materiale: i boss
invece di uscire restano dentro con la prospettiva di non uscire più, o quasi.
Anche perché sono piuttosto agees i boss mafiosi quando vengono presi,
di solito.
La strategia delle stragi dopo il maxiprocesso
C’è quindi una reazione della mafia che è per metà una vendetta
nei confronti dei referenti politici istituzionali perché evidentemente non
hanno mantenuto le promesse o non sono riusciti a mantenere l’immunità, che
sempre avevano garantito a Cosa Nostra, e quindi c’è l’eliminazione di Salvo
Lima il 12 marzo 1992 a Palermo, c’è l’eliminazione di uno dei due cugini Salvo,
Ignazio l’altro, Nino, era già morto per conto suo. E poi c’è l’omicidio Falcone
che è un salto di qualità.
Non è la vendetta verso un vecchio amico della mafia che ha tradito, ci
mancherebbe altro, è semplicemente un attentato preventivo per
impedire a Falcone di continuare a fare ciò che stava già facendo. È grazie a
Falcone se si era acceso un faro sulla prima sezione penale della Cassazione e
sul ruolo di Carnevale e se Carnevale non aveva presieduto quel Collegio al
maxiprocesso perché Falcone, dirigente del Ministero della Giustizia sotto il
ministro Martelli, aveva metto sotto il mirino Carnevale, che era considerato da
lui, e non solo da lui, il tappo che impediva le condanne definitive ai mafiosi.
Viene ucciso Falcone, viene ucciso Borsellino perché? Perché nel frattempo si
è avviata una trattativa. Tra chi? Tra l’allora colonnello Mori e il suo
collaboratore del momento più fedele, il capitano De Donno, e Vito Ciancimino,
un sindaco mafioso di Palermo che in quel momento stava agli arresti domiciliari
a Roma, per motivi di salute. Cioè questi due alti ufficiali dei Carabinieri
vanno da un noto mafioso, condannato per mafia, e gli chiedono di fare da
tramite coi vertici di Cosa Nostra.
In quel momento, siamo nel 1992, c’è ancora la diarchia Riina - Provenzano.
Ciancimino è più uomo di Provenzano che non di Riina, in ogni caso fa da tramite
– i Carabinieri diranno di aver voluto avviare quella trattativa nella speranza
di avere un aiuto per arrestare dei latitanti mafiosi e di iniziare in qualche
modo le stragi che erano iniziate con quella di Capaci. Il risultato è che Riina
capisce esattamente a rovescio, e cioè vede i Carabinieri, lo Stato, col
cappello in mano dopo la strage di Capaci, e si felicita per aver avuto quella
brillante idea di ricattare lo Stato con una strage dopo l’altra.
Il patto tra mafia e Stato
Riina voleva naturalmente non lo scontro con lo Stato, lui voleva
punire chi aveva tradito per conto dello Stato gli accordi con Cosa
Nostra e voleva fare un nuovo accordo con persone che fossero in grado di
rispettarlo. Voleva un nuovo trattato di reciproca non belligeranza,
convenienza, convivenza, connivenza. E dato che la classe politica se ne stava
praticamente andando con l’indagine di Mani Pulite, bisognava attrarre qualche
nuovo soggetto politico in grado di prendersi la responsabilità di fare questo
nuovo accordo con la mafia. Per questo Riina mette le bombe, per questo si
felicita che siano arrivati subito i Carabinieri col cappello in mano.
E allora Riina dice: “perché cedere subito per un piatto di
lenticchie? Possiamo rilanciare alzando il tiro con altre stragi e
alzando quindi la posta della trattativa, così lo Stato ci darà molto di più”.
La trattativa prosegue, parte subito dopo la strage di Capaci, e produce –
questo è molto probabile – la strage di via D’Amelio, perché Borsellino è il
simbolo vivente del partito della non trattativa. Adesso c’è tutta una polemica
nata dalle rivelazioni dei figlio di Ciancimino e ripresa
giustamente da Salvatore Borsellino a proposito di un incontro che ci sarebbe
stato al Viminale il 2 luglio del 1992 tra Borsellino e l’allora ministro
dell’Interno Mancino, dove secondo alcuni avrebbe fatto capolino anche Bruno
Contrada e dopo il quale incontro Borsellino sarebbe rientrato agitatissimo
nell’interrogatorio che stava facendo con Gaspare Mutolo che guarda caso era uno
dei primi pentiti che parlavano di Andreotti, di Contrada e di Carnevale.
Agitatissimo perché, così sostiene il figlio di Ciancimino,
Borsellino era stato in qualche modo informato al Viminale che c’era in corso
una trattativa e si chiedeva il suo consenso. E immaginate se Borsellino avrebbe
acconsentito a trattare con la mafia che il mese precedente gli aveva ammazzato
il migliore amico. È evidente che Borsellino diventa l’ostacolo numero uno sulla
strada della trattativa e Riina lo intende così tant’è che lo elimina da quella
strada, per spianare la strada della trattativa. Dopodiché vengono pianificati
gli attentati del ’93 ai monumenti e ai simboli dell’arte, della religione, ai
simboli dell’Italia praticamente, ma Riina il 14 gennaio del 1993 viene
arrestato dagli stessi uomini del R.O.S. che stanno trattando con Cosa Nostra.
E lì succede quel fatto increscioso: il R.O.S. arresta Riina
promette che sorveglierà giorno e notte la casa dove Riina era latitante per
vedere se arrivavano altri mafiosi, perché i mafiosi non sapevano che era stato
scoperto il covo, Riina era stato arrestato lontano da casa, dopodiché
ingannando la procura di Caselli, gli uomini del R.O.S. abbandonano il covo, lo
lasciano incustodito e lo lasciano perquisire a Cosa Nostra. Che l’abbiano fatto
apposta, che non l’abbiano fatto apposta, che si siano dimenticati, che si siano
sbagliati, non lo sappiamo.
Il processo che si è tenuto fino a due anni fa a Palermo, non ha appurato il
dolo, non poteva del resto appurare che Mori e l’allora capitano Ultimo avessero
fatto apposta queste omissioni per favorire la mafia, questa era l’accusa, da
questa sono stati assolti, ma il processo ha appurato che il covo non è stato
sorvegliato e non è stato perquisito e quindi chi lo ha perquisito? Cosa Nostra,
capeggiata da chi? Dopo l’arresto di Riina, da Provenzano. C’erano i
segreti, le carte della trattativa? C’era il famoso ‘papello’ che il
figlio di Ciancimino assicura essere stato passato da suo padre al generale
Mori, con le l’elenco delle richieste che la mafia faceva allo Stato per
interrompere le stragi? Fine dei pentiti, fine del 41bis, fine dell’ergastolo,
revisione del maxiprocesso e fine del sequestro dei beni.
Non lo sappiamo. Sappiamo che lo Stato rinuncia a perquisire il covo di Riina.
Cosa succede subito dopo? Succede che due anni dopo c’è la possibilità di
prendere Provenzano. C’è la possibilità di prendere Provenzano perché il
confidente Ilardo porta praticamente a casa di Provenzano i Carabinieri. Ma,
dice il colonnello Riccio che gestisce il confidente Ilardo, il R.O.S. dei
Carabinieri Provenzano non lo voleva prendere.
Per chi vuole entrare nel dettaglio di questo processo, non dimenticatevi che
alla fine di questo mese, il 30 gennaio, uscirà un piccolo librino che ho curato
io, un fascicoletto insieme alla rivista Micromega. Lì
troverete tutti i dettagli con le parole, la versione dell'accusa, la versione
della difesa e tutto il racconto del colonnello Riccio, che è spaventoso. Le
parti più spaventose sono due.
La prima è quando Riccio racconta che Ilardo, che nel frattempo stava
decidendo di diventare un collaboratore di giustizia, di uscire da quella veste
ambigua e rischiosa dell'infiltrato dentro la mafia confidente dei Carabinieri -
col rischio di essere ammazzato da un giorno all'altro - e quindi di entrare con
la sua famiglia nel programma di protezione dello Stato. Fanno una riunione a
Roma per stabilire i termini della sua collaborazione con i magistrati
interessati: Caselli, procuratore di Palermo; Tinebra, procuratore di
Caltanissetta; il generale Mori, che nel frattempo ha fatto carriera.
Ilardo, appena vede Mori, gli va incontro, nemmeno lo saluta, gli dice
subito: "guardi, colonnello, che le stragi che abbiamo dovuto fare noi le avete
commissionate voi dello Stato. Questo è il concetto. Immaginate un ufficiale dei
Carabinieri che ha combattuto il terrorismo, che ha combattuto la mafia, si
sente dire da un mafioso che le stragi le ha fatte lo Stato.
Che fa? Gli mette le mani addosso, gli dice "ne racconti un'altra, come si
permette?". Che ne so. Il racconto di Riccio è agghiacciante perché sostiene che
Mori rimase irrigidito per qualche secondo: silenzio, paralisi, tensione. Poi
gira i tacchi e se ne va.
Il secondo episodio agghiacciante è quello che succede subito dopo quella
maledetta riunione che si tiene il 2 maggio del ’96 a Roma
nella quale viene deciso che Ilardo diventerà un collaboratore di giustizia.
Ilardo torna in Sicilia perché ha chiesto una settimana per avvertire i suoi
parenti di quello che sta per succedere, perché dovrà andar via poi per sempre
dalla Sicilia, insomma quello che succede con in pentiti e con i testimoni di
giustizia. E appena arriva in Sicilia, qualcuno fa sapere a Cosa Nostra che lui
in realtà è un mafioso che sta tradendo Cosa Nostra che sta per cominciare a
parlare e a mettere a verbale e quindi viene ucciso da un killer di Cosa Nostra
a Catania. La collaborazione viene soffocata nella culla. Il
giorno prima che lui entrasse nel programma di protezione, la mafia lo elimina
perché qualcuno dei pochissimi esponenti delle istituzioni che sapevano del suo
imminente pentimento ha fatto la fuga di notizie. Deve essere qualcuno che
partecipava a quella riunione a Roma o che ha parlato con qualcuno che aveva
partecipato a quella riunione.
Ilardo quindi muore. Il colonnello Riccio pagherà un prezzo altissimo perché due
anni dopo essersi scontrato coi vertici del R.O.S. che non avevano voluto
catturare Provenzano viene arrestato a sua volta dal R.O.S., cioè da suoi
colleghi, per delle operazioni antidroga a Genova, molto
controverse. Secondo alcuni erano delle operazioni brillantissime – la DEA gli
aveva anche dato degli encomi solenni (la DEA è l’anti droga americana) –
secondo altri erano operazioni disinvolte. Viene arrestato con dei suoi
collaboratori per traffico di droga e viene condannato in primo grado a nove
anni. Secondo alcuni potrebbe essere una manovra per delegittimare il suo
racconto. Perché il colonnello Riccio aveva un’agenda dove aveva segnato tutte
le confidenze che Ilardo gli faceva sui rapporti mafia-politica. E gli aveva
parlato di Dell’Utri, e gli aveva parlato di Andreotti, e gli aveva parlato di
Mannino, e gli aveva parlato di Salvo Andò e gli aveva parlato di altri politici
che secondo lui avevano rapporti con la mafia. E gli aveva parlato anche con
quel Dolcino Favi che all’epoca era in servizio a Siracusa nella magistratura e
che poi arriverà a fare il procuratore generale reggente di Catanzaro e
troveremo due anni fa a togliere l’inchiesta ‘Why Not’ dalle
mani di De Magistris. Tutte cosa naturalmente da verificare. Resta il fatto che
alla vigilia della verbalizzazione delle rivelazioni, Ilardo viene con
precisione cronometrica assassinato e quindi quello che ha detto assume una
discreta importanza.
Gente di 'casa nostra'
In questo processo, tramite il colonnello Riccio, Ilardo dall’aldilà parla
tramite le agende del colonnello Riccio. E il colonnello Riccio conclude i tre
giorni, lettura e udienza, dedicati al suo esame, alla sua deposizione
ricordando che il generale Mori gli ordinò di non scrivere nei rapporti
investigativi nessun nome politico tra quelli fattigli da Ilardo, nemmeno quello
di Dell’Utri.
Mori e altri spiegarono al colonnello Riccio che Dell’Utri e Berlusconi stavano
facendo le stesse battaglie contro i giudici che interessavano al R.O.S. e che
insomma, questa fu l’espressione, ‘Berlusconi e Dell’Utri sono di 'casa nostra'.
Cioè noi dei R.O.S. dei Carabinieri, apparteniamo alla stessa casa di Berlusconi
e di Dell’Utri’. Nel processo vedremo se questa mancata cattura di Provenzano è
reato, se è stata fatta per favorire la mafia oppure no, già sappiamo, per
quello che dice Riccio, che Provenzano poteva essere catturato undici
anni prima, quando era ancora un po’ più in carne, un po’ più in forze
e soprattutto un po’ più potente, un po’ più importante. Soprattutto sappiamo
che di questo processo non si deve parlare. Non si deve parlare perché ci
riporta alle stragi e alle trattative tra Stato e mafia. E quello è un tema che
non può essere affrontato dall’informazione italiana perché è un tema che
riguarda la nascita della Seconda Repubblica. Una Seconda Repubblica
che non è purtroppo nata dal sangue della Resistenza, ma è nata dal sangue delle
stragi e quindi chi ne parla o chi ne vuole parlare, letteralmente, muore.
Passate parola!”
Ps. Oggi, alle ore 18.00 presso la libreria
Feltrinelli di Piazza C.L.N. a Torino, Marco Travaglio
presenterà la collana di DVD di Passaparola.
http://www.beppegrillo.it
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