02/03/2010 MENO PARLAMENTARI PER MENO CORRUZIONE
(Tito Boeri e Vincenzo Galasso)
Il fatto stesso che si debba varare una legge per vietare ai politici
coinvolti in episodi di corruzione di presentarsi alle elezioni la dice
lunga su come non funziona la selezione della classe politica in Italia. Per
migliorarne la qualità servirebbe una maggiore competizione elettorale e una
migliore legge elettorale. Ma anche cittadini più attenti e un'informazione
più concentrata sui fatti e meno sui retroscena. Un cambiamento che richiede
tempo. Tuttavia qualcosa si può fare subito: ridurre il numero di
parlamentari e di amministratori a livello locale. E bisogna farlo finché è
forte nell'opinione pubblica l'indignazione per i ripetuti episodi di
corruzione. Altrimenti i politici troveranno sempre un modo per mantenere
(se non aumentare) poltrone e spesa pubblica.
A tre settimane dal voto alle Regionali, con liste elettorali già
depositate, anche se non sempre in modo regolare, il Governo vara una
nota (sarà un disegno di legge) per impedire ai politici corrotti di
candidarsi alle elezioni. Lo giudicheremo quando ci sarà un testo. Ma
un dato è già oggi chiaro: questa legge è una confessione dei vizi di
fondo della democrazia in Italia. Non ci dovrebbe esser certo bisogno
di una legge per impedire ai corrotti di candidarsi. Dovrebbero
pensarci i partiti a non metterli in lista e i cittadini a punire i
politici corrotti. Perché questo in Italia oggi non avviene o avviene
troppo poco? C’è troppa poca accountability, responsabilizzazione
degli eletti di fronte agli elettori. Vediamo come si potrebbe
rafforzarla. Ma prima bene occuparsi di certe anacronistiche nostalgie
della Prima Repubblica.DIFFERENZE FRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA
Da non crederci. Molti commenti ai nuovi episodi di
corruzione che coinvolgono la classe politica lasciano
trasparire una struggente nostalgia per la Prima Repubblica. Dato che
il nostro paese difetta di memoria storica, bene ricordare le cifre di
quelle prime undici legislature della Repubblica italiana: circa un
quarto dei parlamentari fu coinvolta in procedimenti giudiziari tali
da comportare la concessione da parte dell’Aula dell’autorizzazione a
procedere, con un impennata al 40 per cento nell’XI legislatura, sotto
Tangentopoli. Il 2 per cento dei parlamentari sono
finiti in prigione al termine del loro mandato.
Cosa c’è di diverso fra la Prima e la Seconda Repubblica? La
disgregazione dei partiti. “Prima si rubava per i partiti, ora solo
per se stessi”, nelle parole del presidente della Camera, Gianfranco
Fini. In effetti, si è passati da partiti di massa che formavano e
selezionavano le persone al loro interno, a partiti molti più snelli,
meno interessati alla formazione, e più propensi a
selezionare candidati provenienti da mondi diversi dalla politica.
L’appartenenza alla classe politica è stata denigrata dagli stessi
“nuovi” politici. Eppure il numero degli scranni in Parlamento –
emblema della numerosità dei politici in Italia – non si è ridotto. È
affiorata una nuova classe di politici-manager (il 40
per cento dei nuovi ingressi in Parlamento nell’ultima tornata
elettorale appartiene a questa categoria) che coltivano i propri
affari durante e dopo il loro mandato (oltre un terzo dei manager
rimane in politica anche dopo il mandato). Non sempre legalmente, come
dimostrano anche le vicende Fastweb e Telecom maturate proprio negli
intrecci fra politica e business. Alla selezione dei partiti si è
sostituita la selezione dei capipartito. In questo cambiamento non
sono certo migliorati gli incentivi a scegliere candidature di
qualità, anziché uomini (e donne) sotto il diretto controllo
delle segreterie. La storia politica di altri paesi, come gli Stati
Uniti, dimostra che i candidati di maggior qualità sono meno inclini a
votare secondo logiche di partito e sono più attenti alle esigenze dei
votanti del proprio distretto elettorale, come mostrano le recenti
leggi sui mutui e sull’estensione dei sussidi di disoccupazione negli
Stati Uniti.(1) Per questo i migliori candidati non
sono graditi alle segreterie.
UN PROBLEMA DI ACCOUNTABILITY
Ma non è dall’assenza dei partiti che scaturisce la corruzione. È
un problema di accountability ovvero di limitata
responsabilità: non tanto penale, nei confronti della legge,
ma politica, verso gli elettori. Non è certo un caso che gli episodi
più gravi (entrata di fatto della ‘ndrangheta in Parlamento) siano
legati al voto delle circoscrizioni estere, dove
ancora minore è la political accountability degli eletti
poiché i distretti elettorali sono molto estesi, gli elettori poco
informati e forse anche poco interessati a una politica che non li
toccherà da vicino. Solo una maggiore competizione elettorale e una
preferenza degli elettori per candidati di qualità può migliorare i
processi di selezione.
Il grado di competizione elettorale dipende in larga misura
dell’offerta politica. La mancanza di un’alternativa credibile
consente al partito al potere di detenere un monopolio politico e la
competizione si sposta all’interno del partito, lontano dalle urne. È
ciò che avviene oggi in Cina, che avveniva in Italia nei 46 anni di
governo democristiano e che continua ad avvenire in molti paesi quando
uno dei due (o più) schieramenti di maggioranza perde forza
elettorale. Ma anche la struttura bicamerale del sistema parlamentare
e l’enorme numero di posti a disposizione (vedi tabella a fondo
pagina) – gli scranni in Parlamento – contribuisce a ridurre il
livello di competizione elettorale e consente ai capipartito di
destinare alle Camere un buon numero di fedelissimi.
I sistemi elettorali contano nel favorire la political
accountability dei politici. Ora come allora, negli anni Ottanta
e Novanta, il Parlamento è eletto con un sistema proporzionale. Il
maggioritario uninominale consentirebbe invece di
aumentare la responsabilità politica nei confronti degli elettori del
proprio distretto, a cui i politici dovranno tornare se vogliono un
altro mandato. E può anche migliorare gli incentivi per la selezione
dei candidati. Ad esempio, se nel proporzionale, il controllo di un
pacchetto di voti (e di preferenze) poteva essere sufficiente a far
ri-eleggere un politico indagato, nel maggioritario ciò risulterebbe
più difficile, soprattutto nei distretti con maggior competizione
elettorale. Un
recente studio mostra infatti che durante il periodo del sistema
maggioritario misto, il cosiddetto Mattarellum, nelle
circoscrizioni uninominali più competitive, dove l’esito elettorale
era maggiormente incerto, hanno prevalso candidati di maggior qualità
– ovvero più istruiti e con maggiori esperienze amministrative.
A differenza che nella Prima Repubblica oggi abbiamo liste
chiuse, che aumentano il potere di selezione delle segreterie
dei partiti, e riducono la responsabilità diretta dei politici nei
confronti degli elettori. Ciò che è più grave è che oggi agli elettori
non è consentito punire i politici che si sono comportati peggio,
magari macchiandosi di reati di corruzione, neanche ex-post, ovvero
alle successive elezioni. La sorte dei singoli politici è, infatti,
strettamente legata a quella del partito: la accountability non è più
individuale, ma di tutto il partito. Facile per i singoli politici
provare a giustificare colpe ed errori con scelte di partito. E per i
partiti, facile mimetizzare politici di dubbia provenienza in lunghe
liste elettorali, lontano dai riflettori che si accenderebbero su di
loro in distretti uninominali – solo per scaricare i casi estremi
dipingendoli come poche mele marce.
SUBITO MENO PARLAMENTARI
Per tutti questi motivi, tornare indietro, sempre che ciò sia
possibile, passando dalla selezione dei capipartito alla selezione dei
partiti non serve. Ci vorrebbero una maggiore competizione elettorale
e una migliore legge elettorale. Ci vorrebbero anche cittadini
più attenti. In alcuni distretti infatti, gli elettori non
sembrano sensibili alla qualità dei politici, ma ad altri fattori,
quali l’ideologia o il clientelismo. È ciò che
emerge da uno studio che mostra come negli anni precedenti al 1994
– e dunque con un sistema proporzionale – nelle circoscrizioni con
livello di capitale sociale più basso, i politici per i quali era
stata chiesta l’autorizzazione a procedere non siano stati “puniti”
alle urne dai loro elettori. Per avere cittadini più attenti e
consapevoli è necessario che gli elettori siano in grado di valutare
l’operato dei politici. Questo è possibile solo migliorando il
monitoraggio e l’informazione sui politici. Anziché
focalizzarsi sulle voci raccolte nel “Transatlantico” sarebbe più
utile per gli elettori che i mezzi di informazione valutassero la
rispondenza delle azioni dei politici ai loro programmi elettorali,
che riportassero il livello di assenteismo dei parlamentari e le loro
decisioni di voto in Parlamento, evidenziando, ad esempio, se hanno
votato lungo le linee di partito almeno sulle leggi più significative.
Cosa ha fatto il politico eletto nella circoscrizione dovrebbe essere
una rubrica fissa in ogni giornale locale.
Ma è difficile pensare che a breve si possa rafforzare la competizione
elettorale, cambiare sistema di voto, consapevolezza dei cittadini e
sistema di informazione. Bene muoversi in questa direzione, ma ci
vorrà del tempo. Oggi per rafforzare la selezione, migliorare il
monitoraggio dei politici e aumentare in parte anche la competizione
elettorale, si può imporre un numero chiuso più stringente. Bisogna
ridurre il numero di parlamentari e il numero di
amministratori a livello locale. Come si vede dalla tabella qui sotto
oggi in Italia ci sono molti più parlamentari per abitante rispetto ad
altre democrazie anche più consolidate della nostra (un parlamentare
ogni 63.315 contro una media di un parlamentare ogni 240.242
abitanti). Per metterci in linea con gli altri paesi (ad esclusione
dell’India) dovremmo almeno dimezzare il numero dei parlamentari.
Bisogna farlo ora, subito, finché è forte fra i cittadini l’indignazione
per i ripetuti episodi di corruzione. Altrimenti i politici troveranno
sempre un modo per tornare sui loro passi. Come avvenuto con la
ventilata riduzione degli amministratori nella Finanziaria 2010.
|
N° Parlamentari |
Popolazione Residente |
Popolazione/Parlamento |
Italia |
952 |
60.275.846 |
63.315 |
Francia |
923 |
62.342.668 |
67.544 |
India |
795 |
1.198.003.272 |
1.506.922 |
Giappone |
727 |
127.156.225 |
174.905 |
Germania |
682 |
82.166.671 |
120.479 |
Gran Bretagna* |
646 |
62.032.247 |
96.025 |
Spagna |
614 |
44.903.659 |
73.133 |
Brasile |
594 |
193.733.795 |
326.151 |
Stati Uniti |
535 |
314.658.780 |
588.147 |
Canada |
413 |
33.573.467 |
81.292 |
Portogallo |
230 |
10.707.130 |
46.553 |
Australia |
226 |
21.288.754 |
94.198 |
Olanda |
225 |
16.592.232 |
73.743 |
Belgio |
221 |
10.646.804 |
48.176 |
Media |
|
|
240.042 |
* Non è stata considerata la House of Lords.
Fonte: Onu, siti ufficiali per nazione.
(1) Per maggiori informazioni si veda: "The
Political Economy of the U.S. Mortgage Default Crisis" di Atif
Mian, Amir Su…, and Francesco Trebbi; maggio 2009.
02/03/2010 QUEI CITTADINI CHE VOTANO MA NON PAGANO TASSE
(Paolo Balduzzi e Massimo Bordignon)
Torna agli onori della cronaca la Circoscrizione estero. Per facilitare
l'esercizio di un diritto dei connazionali che risiedono in altri paesi
sarebbe bastato il voto per corrispondenza. Invece la legge sul voto degli
italiani all'estero finisce per garantire una rappresentanza senza
tassazione: cittadini che non pagano tasse in Italia e non usufruiscono dei
servizi influenzano con il loro voto le tasse che gli italiani residenti
pagano e i servizi che ricevono. Viceversa, gli immigrati regolari nel
nostro paese sono soggetti a una tassazione senza rappresentanza.
L'aula di Palazzo Madama, dal sito senato.it.
Le cronache sono piene in questi giorni delle mirabolanti
avventure di Nicola Di Girolamo, senatore del Pdl, accusato di essere
stato eletto al Parlamento italiano nella Circoscrizione
estero, ripartizione Europa, grazie ai voti della
‘ndrangheta. Ma accuse di brogli e contestazioni sono state avanzate
anche nei confronti di altri deputati e senatori eletti in quella
Circoscrizione. Chi sono dunque gli italiani all’estero e come votano?
Ed è giusto che votino? Perché le contestazioni?
IL VOTO DEGLI ITALIANI ALL’ESTERO
La legge 459 del 27 dicembre 2001 riconosce il diritto di voto per
i referendum e le elezioni dei due rami dal Parlamento a tutti gli
italiani residenti all’estero, iscritti all’Aire
(Agenzia per gli italiani residenti all’estero, gestita dal ministero
dell’Interno) o iscritti agli schedari consolari (gestiti dal
ministero degli Affari esteri; i consolati dovrebbero automaticamente
aggiornare i dati dell’Aire). Alla data dell’ultima elezione, il
referendum del 2009,
gli aventi diritto al voto in questa categoria erano 3.024.879. Si
noti che secondo la legge sulla cittadinanza del
nostro paese (legge 91/1992, articolo 1), per essere italiani, e
dunque per godere dei diritti politici, basta nascere da almeno un
genitore italiano. Ciò assicura la cittadinanza anche a coloro che,
nati all’estero ma avendo subito optato per la cittadinanza italiana,
non hanno poi mai risieduto sul territorio italiano, né ne hanno mai
imparato la lingua. (1)
È a questi cittadini che si rivolge la legge 459/2001. La norma segue
e completa una riforma costituzionale (legge costituzionale 1/2001)
che introduce, agli articoli 56 e 57, la Circoscrizione estero e ne
definisce la rappresentanza parlamentare: dodici deputati e sei
senatori.
Sono due le sostanziali novità introdotte della legge ordinaria. La
prima è rendere più semplice l’esercizio del diritto di voto per gli
italiani che risiedono all’estero, prevedendo il voto per
corrispondenza. In alternativa, l’elettore può decidere di
votare in Italia nella circoscrizione del territorio nazionale in cui
risulta iscritto; e se non ha mai risieduto in Italia, ma è italiano
per discendenza diretta, la sua circoscrizione è quella del genitore,
del nonno o di altro antenato. In secondo luogo, rende operativa la
Circoscrizione estero: stabilisce infatti la sua ripartizione in
quattro aree - Europa, America meridionale, America settentrionale e
centrale, e Africa, Asia, Oceania e Antartide. Ma stabilisce anche che
i candidati stessi (e di conseguenza gli eletti) debbano essere
residenti all’estero.
Se l’obiettivo della legge fosse stato solo quello di rendere più
facile l’esercizio del voto da parte degli italiani residenti
all’estero, sarebbe stato sufficiente il voto per corrispondenza o
qualunque altra forma di voto a distanza. Con la Circoscrizione estero
si fa di più: si consente agli italiani all’estero di diventare
elettorato passivo.
È possibile che l’intenzione del legislatore, con l’introduzione della
Circoscrizione estero, fosse solo quella di offrire una funzione di
rappresentanza. Ma nonostante il numero esiguo, questi parlamentari
hanno acquisito un’importanza superiore alle previsioni. Durante la XV
legislatura, hanno di fatto garantito al governo Prodi la fiducia al
Senato, condizionandone l’azione di governo. Nell’attuale legislatura,
invece, le vicende del senatore Pdl Nicola Di Girolamo, e le
contestazioni su altri eletti all’estero, stanno mettendo in serio
imbarazzo il Parlamento.
I LIMITI DELLA LEGGE
I punti deboli della legge 459/2001 sono numerosi.
Innanzitutto, le ripartizioni della Circoscrizione estero sono molto
ampie e quindi rischiano di essere poco rappresentative; addirittura,
una comprende ben tre continenti. In un contesto di tale distanza tra
eletto ed elettore, anche la possibilità di esprimere
preferenze sui candidati (consentito a questi elettori, a
differenza di quello che succede agli italiani residenti) può non
funzionare come effettivo meccanismo di selezione e controllo della
classe politica. Inoltre, i candidati potrebbero essere poco
conosciuti dagli elettori e, soprattutto, poco controllabili dai
partiti che li selezionano. Il caso Di Girolamo è significativo:
nessuno sembra più ricordare chi lo ha proposto, ed è subito
cominciato all’interno del Pdl il valzer delle responsabilità tra chi
avrebbe dovuto valutarne la candidatura. Infine, come illustrano le
cronache recenti, il voto espresso per corrispondenza solleva dubbi
sulla sua trasparenza, regolarità e gestibilità amministrativa. Le
operazioni di scrutinio sono lente e facilmente imprecise. Per
esempio, a quasi due anni dalle elezioni politiche del 2008, i dati
sugli scrutini delle schede per la Circoscrizione estero sul
sito del ministero dell’Interno risultano ancora incompleti.
Tutti questi elementi vanno rapidamente rivisti dal legislatore e in
effetti ci sono già diversi disegni di legge depositati in Parlamento.
È molto probabile che a seguito del caso Di Girolamo, si arrivi a
ripensarne alcuni, a cominciare dal voto per corrispondenza. Ma
qualunque riforma deve tenere conto del fatto che la disciplina del
voto per gli italiani all’estero si fonda su una norma della
Costituzione. Senza toccare ulteriormente la Carta, il
legislatore potrà al massimo modificare le modalità di espressione di
voto o di selezione dell’elettorato passivo, ma non potrà eliminare la
Circoscrizione estero. (2) E invece proprio su questa
si dovrebbe riflettere.
RAPPRESENTANZA E TASSAZIONE
Il problema fondamentale è che il diritto di voto per gli italiani
all’estero garantisce loro una effettiva “representation without
taxation”: cittadini che non pagano tasse in
Italia e non usufruiscono dei servizi influenzano, con il loro voto,
le tasse che gli italiani residenti pagano e i servizi che ricevono.
Questo è ancor più vero con la Circoscrizione estero, i cui
rappresentanti parlamentari sono essi stessi cittadini non residenti
in Italia. La rappresentanza senza tassazione contrasta con un
principio fondamentale della democrazia, e se è in qualche modo
accettabile per cittadini italiani che sono solo temporaneamente al di
fuori dei confini nazionali, lo è di meno per chi ha deciso di vivere
stabilmente all’estero e che in qualche caso, non
conosce né le istituzioni né la lingua del paese di origine. La cosa è
ancora più impressionante se si pensa che viceversa, in Italia vivono
e lavorano individui che soffrono di una “tassazione senza
rappresentanza”, vale a dire gli stranieri regolari.
Secondo il Rapporto Caritas-Migrantes, nel 2007 gli immigrati hanno
contribuito al 6,1 per cento del Pil e assicurato un gettito fiscale
al nostro paese pari a 3 miliardi e 749 milioni di euro, dei quali 3,1
miliardi per i soli versamenti Irpef.
Curiosamente, il numero degli stranieri residenti in Italia, regolari
e maggiorenni, è anch’esso di poco superiore ai tre milioni (dati
Istat, 2009). Appare quanto meno singolare che una popolazione così
ampia, che vive e lavora onestamente nel nostro paese, non possa
esprimere alcun voto, neppure a livello amministrativo, pur essendo
soggetta al fisco e usufruendo dei servizi offerti. Si noti che
oltretutto vivono in Italia circa mezzo milione di stranieri solo di
nome: sono i figli di immigrati, nati o arrivati in
tenera età nel nostro paese, che hanno studiato in Italia, ne parlano
perfettamente la lingua, e che sono in effetti indistinguibili dai
connazionali della stessa età, eccetto che non godono degli stessi
diritti. È opportuno che questa asimmetria venga risolta al più
presto, accelerando il percorso per l’ottenimento della
cittadinanza e dei diritti collegati.
(1) A questo numero si aggiungono i numerosissimi
cittadini stranieri nati all’estero ma che possono vantare un
ascendente italiano (fino al secondo grado). Questi ultimi devono però
richiedere che venga riconosciuta loro la cittadinanza italiana, dopo
avere risieduto sul territorio italiano per almeno tre anni (è il caso
per esempio di tanti calciatori naturalizzati).
(2) L’unica strada, in questo senso, potrebbe essere
quella dell’abrogazione totale della stessa legge 459/2001; ciò
comporterebbe l’applicazione della disciplina precedente alle
modifiche costituzionali del 2001 (così come previsto anche
dall’articolo 3. comma 2 della legge cost. 1/2001: “In caso di mancata
approvazione della legge di cui al comma 1, si applica la disciplina
costituzionale anteriore”.
02/03/2010 MANI PULITE. 15 ANNI DOPO
(Edmondo Bruti Liberati)
È in qualche modo cambiata la corruzione in Italia quindici anni dopo le
inchieste di Mani pulite? Sì, una novità c'è ed è il carattere "sistemico"
del fenomeno. È questa la risposta che fornisce uno dei più noti esponenti
della magistratura nel brano che qui pubblichiamo tratto dalla sua
prefazione a un libro di Alessandro Galante Garrone, in libreria in questi
giorni: "L'Italia Corrotta, 1895 - 1996, cento anni di malcostume politico"
(Aragno editore, 147 pagine, 10 euro). Galante Garrone, scomparso nel 2003,
lo pubblicò per la prima volta nel 1996, raccontando e analizzando il
fenomeno della corruzione con la sua esperienza di storico e giurista, con
il suo rigore morale e intellettuale che vede le cose con un pessimismo non
rassegnato.
Se qualcosa è mutato nel passaggio alla nuova corruzione,
sottolineano diversi studiosi che si sono occupati del fenomeno, è nel
senso che la corruzione ha assunto nel nostro paese un carattere ‘sistemico’,
è una pratica comune e diffusa in molti settori di attività
politico-amministrativa: «Sembrerebbe così smentita la
contrapposizione tra una società politica corrotta e una società
civile sana ed onesta […] Al contrario il sistema della corruzione […]
ha dimostrato la propria capacità di radicamento nella società civile,
innervandosi in profondità nel mondo delle professioni,
dell’imprenditoria e della finanza» (1). Si è
osservato anche che nella corruzione post Mani pulite «nel
rapporto tra politici ed imprenditori, questi ultimi sembrano dotati
di maggiore autonomia e potere negoziale» (2). Si
devono poi considerare i preoccupanti intrecci fra corruzione e
criminalità organizzata, non solo di carattere mafioso.
Il fenomeno della corruzione in Italia, divenuta ormai corruzione
sistemica, continua ad avere un’incidenza del tutto anomala
rispetto alle altre democrazie occidentali. Abbiamo sopra richiamato
la severa valutazione del Rapporto GRECO del Consiglio
d’Europa. È un quadro che corrisponde a quello delineato dagli
studiosi che si sono occupati del tema con maggiore attenzione: «Un
individuo partecipa allo scambio corrotto quando i costi, legati alla
probabilità di essere scoperti e alla severità delle sanzioni
previste, non superano i benefici attesi, confrontati con quelli delle
alternative disponibili» (3). E si aggiunge che
occorre considerare anche il costo morale della corruzione
che «tende a crescere in presenza di sistemi di valori che sostengano
il rispetto della legge e dei principi dello stato di diritto», ma per
arrivare alla amara, ma realistica conclusione che «in Italia i
fattori che orientano le scelte dei potenziali corrotti e corruttori,
a livello tanto di occasioni economiche quanto di vincoli
morali, forniscono deboli disincentivi alla diffusione del
fenomeno» (4).
Non meno pessimistica è la valutazione del rischio penale: «a forme di
criminalità che si caratterizzano per una diffusione sistemica, per le
tante ed oscure connessioni con il potere politico ed economico, per
l’abissale “cifra nera”, nonché per la elevata pericolosità nei
confronti delle vittime individuali, della collettività, e, a un
livello ancora più ampio, rispetto alla tenuta delle regole
democratiche, si oppone un diritto penale che versa da anni in uno
stato di “crisi di legittimazione” senza precedenti, che presenta
profili di effettività fortemente differenziati in ragione delle
fenomenologie criminose da combattere e delle aree geografiche teatro
della criminalità» (5).
Le «cifra nera», termine con il quale i criminologi indicano l’insieme
dei reati commessi e non scoperti, muta, ovviamente a seconda delle
tipologie di reato, ma è ovunque elevata con riferimento al fenomeno
della corruzione. Diverse analisi svolte indicano che in Italia,
rispetto ad altri paesi confrontabili, la «cifra nera» della
corruzione è particolarmente alta per una serie di ragioni aggiuntive:
il carattere sistemico che la corruzione ha assunto, l’intreccio con
la criminalità organizzata, il basso livello del costo morale e del
rischio penale. Sotto quest’ultimo profilo, le numerose modifiche
legislative intervenute negli ultimi quindici anni presentano un saldo
indiscutibilmente negativo con riguardo alla capacità di incidere
sulla corruzione. Si pensi alle leggi ad personam, che -
ormai dal 2001 - è una categoria con cui ci si deve confrontare
nell’analizzare la legislazione in materia penale. La riforma del
falso in bilancio ha drasticamente ridotto la possibilità di fare
ricorso a tale tipologia di reato per aggredire la formazione di fondi
neri, normale presupposto di pratiche corruttive. Ancor più rilevanti
gli effetti della riduzione drastica della prescrizione, operata con
la legge cosiddetta ex-Cirielli: è ulteriormente aumentata quella che
è stata chiamata la «cifra grigia dei fatti criminosi scoperti ed
accertati, ma non sanzionati da condanna definitiva» per l’intervento
della mannaia della prescrizione (6). Non a caso,
come si è visto, questa disciplina ha suscitato attenzione e
preoccupazione nel Rapporto GRECO.
Ancora da ricordare l’indulto, concesso con la legge 241/2006, grazie
al quale si sono condonati tre anni di pena, il limite più alto mai
toccato nella storia repubblicana. Il beneficio è stato escluso per
una lunga serie di reati, ma non per la corruzione, come è corrente
nei provvedimenti di clemenza di altri paesi. Anzi, come è stato
pacificamente riconosciuto, questa clemenza così generosa è stata
determinata dalla volontà di evitare che l’on. Previti, condannato ad
una severa pena detentiva per fatti di corruzione, dovesse scontarla
in carcere. E si trattava di uno dei tipi di corruzione da sempre
ritenuta gravissima, quella di giudici.
(1) Della Porta-Vannucci, Mani impunite, p.
10.
(2) Ivi, p. 115.
(3) Ivi, p. 11.
(4) Ivi, p. 12.
(5) Davigo-Mannozzi, La corruzione in Italia,
p. 309.
(6) V. Grevi, «Prefazione» a Davigo-Mannozzi, La
corruzione in Italia, p. VII.
02/03/2010 E SE GIOCASSIMO A BASKET IN BANCA?
(Giancarlo Perasso)
La discussione sulle nuove regole per il sistema bancario è in un'impasse. Ma
la crisi non è stata solo una conseguenza degli eccessivi rischi assunti dalle
banche. E' anche il risultato della quantità di denaro impiegata in questi
rischi. Invece di mettere limiti alle attività delle banche, si può prendere
esempio dalla Nba. Dove le squadre che superano il monte salari per i
giocatori pagano una cifra corrispondente all'Associazione. Lo stesso
principio si potrebbe applicare al rapporto tra debiti e asset degli istituti
bancari.
Ferve il dibattito e la polemica sulle regole per evitare nuove
crisi finanziarie e nuovi esborsi da parte dei contribuenti per
salvare le banche. Sono state avanzate tante proposte: dalle indicazioni
del
Financial Stability Board ai vari interventi del presidente
Nicolas Sarkozy, agli articoli recenti di Martin Wolf o John Gapper e
molto altro ancora. (1)COME NELL’NBA
A me pare che ci troviamo a un punto morto: da un lato tanti tecnici
(per i quali parteggio, lo ammetto) analizzano i problemi e propongono
soluzioni; dall’altro, tanto populismo, che aborro. Ci
troviamo in un’impasse micidiale, la miglior condizione per non arrivare
a nulla, salvo poi accettare le regole imposte dall’unico giocatore che
veramente conta: gli Stati Uniti. Ma saranno regole che
favoriranno le banche di quel paese, naturalmente, e non il sistema
bancario globale. Nel frattempo, le banche di investimento hanno
ricominciato a fare quello che facevano prima, gli investitori non hanno
imparato nulla (un aneddoto personale: la scorsa settimana un fondo di
investimento qui a Londra mi ha informato che è interessato ad
acquistare mutui in sofferenza nei paesi dell’Europa centro-orientale:
sono rimasto senza parole). Il denaro continua a non costare niente e si
naviga a vista, come tre anni fa.
Vorrei allora proporre una misura semplice semplice e trasparente per
ridurre il rischio che si ripeta una crisi come quella del 2007-2008. La
crisi è derivata non solo da eccessivi rischi assunti dalle banche, ma
anche dalla quantità di denaro impiegata in questi rischi. Il
rapporto debiti/asset (leverage) di Merril Lynch a maggio 2008
era pari a 45.8, quello di Lehman Brothers a 33.2. Bear Stearns, prima
di essere acquistata da JpMorganChase aveva un leverage di 34.6. Quindi,
non solo rischi , ma anche grandi quantità di denaro impiegate in
attività rischiose.
Piuttosto che impedire alle banche di promuovere certe attività, come
indicato nella proposta Paul Volcker, e quindi penalizzare l’innovazione
finanziaria che, nolenti o volenti, ha contribuito a rendere
l’economia più efficiente (si pensi solo alla possibilità per
esportatori e importatori di coprirsi dal rischio di cambio con i
derivati) ritengo che sia più efficiente internalizzare il costo del
maggior rischio per una banca “x” nel caso, appunto, volesse espandere
la propria attività in attività più rischiose. E qui ci viene in aiuto
la pallacanestro: l’idea è quella di penalizzare il
ricorso al leverage, sulla falsariga della “luxury tax” della National
Basketball Association (Nba).
Nell’Nba, esiste il “salary cap”, cioè un monte salari
fisso per ogni squadra (i premi sono liberi). Se la squadra di Los
Angeles, ad esempio, volesse ingaggiare un campione che porterebbe il
monte ingaggi al di sopra del tetto fissato, dovrebbe versare alla Nba
stessa il corrispondente dell’ammontare per cui ha superato il monte
salari. Per fare un esempio: se il monte salari è 100 dollari e cresce a
110 con l’arrivo del nuovo giocatore, la squadra dovrà versare 10
dollari all’Nba.
Si potrebbe applicare lo stesso principio al rapporto tra debiti
e asset delle banche: fino a un certo multiplo fissato per
legge (Dieci volte? Meno? Di più? Spetta ai governanti decidere quanto)
il leverage è libero dalla “leverage tax”, oltre quella soglia, per ogni
dollaro di leverage bisognerà versare un dollaro all’erario. Volendo si
potrebbe anche valutare se incrementare la “leverage tax” oltre una
certa soglia. Ad esempio, non più un dollaro per un dollaro ma due
dollari di tassa per ogni dollaro di leverage oltre un certo ammontare.
UNA MISURA TRASPARENTE
È una misura semplice da applicare, trasparente, che permetterebbe
alle autorità di politica monetaria di tenere bassi i tassi di interesse
per fronteggiare la crisi economica riducendo i rischi di bolla
speculativa. Inoltre, non vieterebbe alle banche di continuare a
sviluppare nuovi prodotti né di espandersi, lo renderebbe solo
più costoso. Spetterà allora a manager e azionisti decidere se
espandersi più del consentito e pagare una tassa: si limiterebbero così
i profitti da attività rischiosa, rendendo il trade-off rischi-benefici
più sbilanciato a favore dell’avversione al rischio. L’obiezione è che
rendendolo più costoso, le banche assumerebbero più rischio. Può darsi,
non è detto e dipenderà dai parametri, ma almeno ci sarebbe un
meccanismo che porterebbe a riflettere attentamente prima di assumere un
rischio. E lo Stato incasserebbe qualcosa.
(1) Si vedano rispettivamente, Martin Wolf, “Volcker’s
axe is not enough to cut banks to size”, Financial Times,
26 gennaio 2010,. E John Gapper “Volcker
has the measure of the banks”, Financial Times, 27 gennaio
2010.
02/03/2010 INTERVENIRE PRIMA CHE PASSI LA NOTTATA
(Francesco Daveri)
Disoccupazione all'8,6 per cento e Pil 2009 a -5 per cento: l'economia
italiana soffre ancora i colpi di coda di una crisi ormai finita. Ma c'è lo
spazio e la necessità per gli incentivi temporanei con efficacia limitata a
sei mesi ai settori in difficoltà. Si tratta di permettere alle imprese di
avviare processi di ristrutturazione in modo socialmente non distruttivo. Di
interventi di questo tipo si parla da tempo, ma il governo continua
inspiegabilmente a rinviarne l'adozione.
Disoccupazione all’8,6 per cento, record dal 2004”, “Pil -5 per cento,
mai così male dal 1971”. Ecco le ultime notizie da un fronte che non
smette mai di fare feriti (e morti, come scriveva Dario Di Vico sul
Corriere della Sera, raccontando di piccoli imprenditori e
artigiani suicidatisi durante la crisi). Ma come, la crisi non era
finita? E perché allora i giornali sono pieni di brutte notizie?
Soprattutto, il governo può fare qualcosa?
LA CRISI È FINITA?
Cominciamo con la “la crisi è finita”. Finita quando? Difficile
dirlo con precisione. Se si cerca su Google la locuzione “la
crisi è finita”, vengono fuori una sequenza di riferimenti, di
articoli di giornale e di blog, così come prese di posizione di
operatori attivi sui mercati finanziari, con date molto diverse: 22
aprile, 21 marzo, 11 novembre, 27 agosto, 17 maggio 2009 solo nella
prima videata. Tutti i riferimenti annunciano lo stesso evento: la
fine della crisi. Di sicuro il Pil, l’indicatore
riassuntivo della capacità di produrre reddito che gli uffici
statistici nazionali pubblicano ogni tre mesi, ha smesso di diminuire
rispetto ai valori assunti nei trimestri precedenti nella maggior
parte dei paesi europei e negli Stati Uniti più o
meno durante il terzo trimestre del 2009. La diminuzione del Pil è
andata avanti per cinque trimestri, dal secondo trimestre 2008 fino al
secondo trimestre 2009 (incluso). In complesso, il Pil italiano è
sceso in termini reali di 5 punti percentuali nel 2009 rispetto al suo
valore medio del 2008. Come in Germania e nel Regno Unito, peggio che
in molti altri paesi europei, tra cui la Spagna e la Francia. Ma è
stata solo una “grande recessione”, e non una “grande depressione”
come quella degli anni Trenta: durante la depressione il Pil Usa
diminuì di ben 25 punti percentuali nei quattro anni tra il 1929 e il
1933. Oggi stiamo parlando di previsioni di crescita flebile
per il 2010. Ci chiediamo se sarà “più zero virgola cinque” oppure
“più uno”, non se dopo il “meno cinque” ci sarà un “meno quattro” o un
“meno sei”.
Ad oggi, ci sono elementi sufficienti per dichiarare che la crisi, o
meglio la grande recessione, sia finita. Il mercato immobiliare
americano ha fermato la sua discesa e il Pil ha ricominciato ad
aumentare ovunque. E, da dicembre 2009, anche la disoccupazione Usa ha
cominciato a diminuire, un segno che non solo l’epicentro della crisi
(il mercato immobiliare Usa) si è stabilizzato, ma anche il suo
principale meccanismo di trasmissione (il mercato del lavoro) comincia
a mandare qualche segnale positivo. Soprattutto al di là dell’oceano
Atlantico.
LA LUNGA CODA DELLA CRISI SUL MERCATO DEL LAVORO
Il problema è che il Pil ha ricominciato a crescere, ma troppo
lentamente per riuscire a riassorbire la disoccupazione latente che le
imprese hanno accumulato in questi mesi di crisi durissima sul fronte
delle vendite. Ecco perché, anche se “la crisi è finita”, il lavoro
non c’è e “in Italia la disoccupazione è ai massimi dal 2004”. È vero,
i disoccupatierano più di due milioni e
centocinquantamila persone in gennaio, l’8,6 per cento del totale.
Mentre erano l’8 per cento a ottobre 2009 e il 7 per cento a ottobre
2008 e solo il 6 per cento nell’agosto 2007. L’aumento della
disoccupazione è tuttavia – e purtroppo – un evento
fisiologico, data l’intensità della crisi dell’anno scorso.
Chi, resistendo al furore iconoclasta di questi mesi, avesse
conservato un manuale di macroeconomia potrebbe infatti controllare le
previsioni della legge di Okun, una regola del
pollice stimata per l’economia americana già negli anni Sessanta.
Questa legge dice: “Se il Pil diminuisce di due punti percentuali
rispetto alle possibilità di crescita di lungo termine, la
disoccupazione è destinata, dopo qualche mese, ad aumentare di un
punto percentuale”. Insomma, secondo Okun, tra Pil e disoccupazione
c’è una relazione 2:1.
E così, se il Pil dell’Italia scende di 5 punti in un anno e dato che
la crescita di lungo periodo dell’economia italiana è all’1 per cento
annuo, a causa della crisi, la disoccupazione in Italia deve salire di
circa tre punti. Se, prima della crisi, siamo partiti dal 6 per cento
di tasso di disoccupazione, sulla base della legge di Okun, possiamo
aspettarci che la brutta botta subita dal Pil italiano nel 2009 finirà
per tradursi in una disoccupazione non lontana dal 9 per cento
in questi primi mesi del 2010. Per i primi nove mesi del 2009, la
crisi non è arrivata sul mercato del lavoro perché il governo ha usato
la Cig, che ha congelato il numero degli occupati ai livelli pre-crisi.
Ma anche la Cig è destinata a diventare mobilità e poi licenziamento
se l’economia non riparte. Ciò che vediamo oggi è dunque il
manifestarsi della legge di Okun.
NON ASPETTARE CHE PASSI LA NOTTATA
Chi crede nella legge di Okun potrebbe trarre due implicazioni.
Primo, il rapido aumento della disoccupazione osservato negli ultimi
sei mesi non sarà indefinito, ma raggiungerà probabilmente un
tetto massimo. Almeno a patto che il Pil ricominci a crescere
intorno all’1 per cento. Tutt’altro che scontato, ma non impossibile
con i dati che conosciamo oggi.
C’è però una seconda cosa da dire. Anche se quelli che osserviamo sul
mercato del lavoro sono solo i colpi di coda di una crisi alle spalle,
c’è spazio per misure di sostegno ai consumi che
accompagnino il mercato del lavoro fuori dalla crisi, ad esempio gli
incentivi temporanei (con efficacia limitata a sei mesi) ai settori in
difficoltà di cui si parla da giorni e la cui adozione il governo
continua a rinviare. È vero, tutti i produttori di tutto il mondo
vogliono gli incentivi e poi non viene mai un buon
momento per smantellarli. Ma, in questo caso, si tratta di garantire
incentivi temporanei ai settori che producono elettrodomestici,
dispositivi elettronici, macchine agricole, mobili, cucine e veicoli
diversi dall’automobile. Non si tratta di tenere in piedi industrie
decotte. In tutti questi settori, le aziende dovranno e hanno già
cominciato a ristrutturare, ma hanno bisogno di un
po’ di ossigeno per farlo in modo socialmente non distruttivo. Non ci
sono soldi per tutti? Il governo scelga e spieghi i criteri che lo
hanno indotto a decidere in un modo piuttosto che in un altro. Meglio
scegliere e spiegare piuttosto che rinviare per non scontentare
nessuno.
La discussione sulle nuove regole per il sistema bancario è in un'impasse.
Ma la crisi non è stata solo una conseguenza degli eccessivi rischi assunti
dalle banche. E' anche il risultato della quantità di denaro impiegata in
questi rischi. Invece di mettere limiti alle attività delle banche, si può
prendere esempio dalla Nba. Dove le squadre che superano il monte salari per
i giocatori pagano una cifra corrispondente all'Associazione. Lo stesso
principio si potrebbe applicare al rapporto tra debiti e asset degli
istituti bancari.
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