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25/09/2006 Il bello e il brutto di "Industria 2015" (Francesco Daveri, www.lavoce.info)

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Industria 2015", il disegno di legge presentato dal ministro per lo Sviluppo economico, riconosce la natura strutturale delle difficoltà dell’economia italiana e predispone gli strumenti di supporto perché le imprese la affrontino. Ma, nella stesura attuale, troppi sono i soggetti che coinvolge e gli obiettivi di politica industriale che elenca.

I pregi

"Industria 2015" presenta tre aspetti positivi.
Primo, riporta la capacità di competere dell’industria italiana al centro dell’attenzione della politica economica. Bene. Perché, anche se l’economia italiana vive di servizi e l’industria è ormai solo circa un quarto del Pil dell’Italia, un manifatturiero che impiega sempre meno occupati non può essere sinonimo di settore arcaico. Anzi. È proprio con lo spostamento di risorse verso i segmenti del manifatturiero a più elevata produttività, così come verso i servizi privati, che le economie più dinamiche fanno crescere la produttività. Il ministro Bersani ha già cominciato nello scorso luglio a occuparsi del grado di concorrenzialità dei servizi. Ora è dunque il momento di proseguire l’opera e di pensare all’industria.
Secondo, il disegno di legge si riferisce opportunamente al 2015 perché parte dal presupposto che i problemi di competitività dell’economia italiana non sono cominciati nel (disastroso) 2005 e non si risolveranno con la ripresina del 2006. Pensare al 2015 non vuol dire rinviare le decisioni alle calende greche, ma riconoscere che, per avere risultati in termini di produttività e innovazione, bisogna cominciare subito e in fretta, sapendo che i frutti potranno arrivare solo tra qualche anno.
Terzo, il disegno di legge prefigura un insieme di misure, discrezionali e automatiche, che mirano opportunamente a sostituirsi all’attuale giungla di leggi di incentivazione. (1)
Le leggi del passato - eternamente temporanee - agevolavano i professionisti della richiesta di aiuti piuttosto che i loro reali destinatari (di volta in volta: le imprese desiderose di innovare, le piccole imprese, le imprese del Sud).

Difficoltà e punti da chiarire

Alcune caratteristiche del decreto, però, ne riducono la portata innovativa e la potenziale efficacia.
L’opposizione ha parlato di rischio di dirigismo, esemplificato dal ritorno del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, con funzioni di coordinamento. Ma, leggendo il decreto, il rischio più concreto è piuttosto il "concertismo".
L’espressione "di concerto" ricorre, infatti, molto di frequente nel Ddl (temperato da qualche "su proposta del"), perché sono tanti i ministeri coinvolti nella politica industriale. E poi c’è il parere della Conferenza Stato-Regioni, necessario per definire le linee strategiche per la competitività e lo sviluppo e i criteri utilizzati per l’individuazione dei progetti industriali. Si legge che tanta compartecipazione è da attribuirsi al desiderio di una componente della coalizione (la Margherita) di non essere esclusa da decisioni altrimenti esclusivamente attribuite a ministri di un’altra componente della coalizione (i Ds). Non si può però fare a meno di osservare che, se una tale regola fosse applicata per tutte le leggi, avremmo un enorme ingorgo delle attività di qualsiasi governo di coalizione.
Secondo, il Ddl (articolo 1, comma 3) torna a fare politica industriale, elencando obiettivi come il "riposizionamento del sistema industriale italiano verso attività economiche a più alto valore aggiunto" e altri. Stabilire delle priorità per misure di politica economica volte a favorire il sistema delle imprese è utile; lo hanno fatto anche altri paesi europei. L’importante è che inseguire questi obiettivi non faccia deviare dal proposito fondamentale, che è quello di accrescere la competitività del sistema industriale.
Prendiamo il caso del tessile e abbigliamento, uno dei settori a più basso valore aggiunto per occupato nella manifattura italiana. Si deve intendere che obiettivo della politica industriale sarà quello di favorire la fuoruscita di lavoratori da questo settore verso altri a più elevato valore aggiunto? Vista la concorrenza cinese, è probabilmente una buona idea. Ma allora perché il governo italiano si batte in sede europea per l’introduzione di dazi proprio in questo settore? O invece si tratta solo di favorire la chiusura di aziende inefficienti, spostando occupati all’interno dello stesso settore. Ma questo, le imprese italiane lo stanno già facendo da sole, come dicono i dati del 2006. A cosa serve dunque specificare in una legge una pluralità di obiettivi di politica industriale?
Infine, un sistema di incentivazione semplice è certamente meglio di uno complicato. Ma le analisi empiriche esistenti per altri paesi suggeriscono di non aspettarci un grande effetto positivo sulla propensione ad innovare da un migliorato sistema di incentivi. Almeno fino a che le piccole imprese italiane non accetteranno di perdere un po’ di controllo nella conduzione aziendale, per diventare più grandi: gli incentivi sono, infatti, poco efficaci a indurre le piccole imprese a fare più innovazione. Se davvero vuole incoraggiare gli investimenti, assieme al riordino degli incentivi e alle misure - opportunamente inserite nel Ddl - per accrescere la dimensione e la cooperazione tra imprese, il governo dovrebbe proporre loro lo scambio "meno incentivi, meno tasse sulle società". È così che le imprese americane sono ritornate a investire dopo l’11 settembre.


(1) Si tratta delle leggi 488/92 e 662/96 per il cosiddetto "riequilibrio regionale", della 46/82 per l’innovazione tecnologica, e della 266/97 per le piccole e medie imprese.

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