Industria
2015", il disegno di legge presentato dal ministro per lo Sviluppo
economico, riconosce la natura strutturale delle difficoltà
dell’economia italiana e predispone gli strumenti di supporto perché le
imprese la affrontino. Ma, nella stesura attuale, troppi sono i soggetti
che coinvolge e gli obiettivi di politica industriale che elenca.
I pregi
"Industria 2015" presenta tre aspetti positivi.
Primo, riporta la capacità di competere dell’industria italiana
al centro dell’attenzione della politica economica. Bene. Perché, anche
se l’economia italiana vive di servizi e l’industria è ormai solo circa
un quarto del Pil dell’Italia, un manifatturiero che impiega sempre meno
occupati non può essere sinonimo di settore arcaico. Anzi. È proprio con
lo spostamento di risorse verso i segmenti del manifatturiero a più
elevata produttività, così come verso i servizi privati, che le
economie più dinamiche fanno crescere la produttività. Il ministro
Bersani ha già cominciato nello scorso luglio a occuparsi del grado di
concorrenzialità dei servizi. Ora è dunque il momento di proseguire
l’opera e di pensare all’industria.
Secondo, il disegno di legge si riferisce opportunamente al 2015
perché parte dal presupposto che i problemi di competitività
dell’economia italiana non sono cominciati nel (disastroso) 2005 e non
si risolveranno con la ripresina del 2006. Pensare al 2015 non vuol dire
rinviare le decisioni alle calende greche, ma riconoscere che, per avere
risultati in termini di produttività e innovazione, bisogna cominciare
subito e in fretta, sapendo che i frutti potranno arrivare solo tra
qualche anno.
Terzo, il disegno di legge prefigura un insieme di misure,
discrezionali e automatiche, che mirano opportunamente a sostituirsi
all’attuale giungla di leggi di incentivazione. (1)
Le leggi del passato - eternamente temporanee - agevolavano i
professionisti della richiesta di aiuti piuttosto che i loro reali
destinatari (di volta in volta: le imprese desiderose di innovare, le
piccole imprese, le imprese del Sud).
Difficoltà e punti da chiarire
Alcune caratteristiche del decreto, però, ne riducono
la portata innovativa e la potenziale efficacia.
L’opposizione ha parlato di rischio di dirigismo, esemplificato
dal ritorno del Cipe, il Comitato interministeriale per la
programmazione economica, con funzioni di coordinamento. Ma, leggendo il
decreto, il rischio più concreto è piuttosto il "concertismo".
L’espressione "di concerto" ricorre, infatti, molto di frequente nel Ddl
(temperato da qualche "su proposta del"), perché sono tanti i ministeri
coinvolti nella politica industriale. E poi c’è il parere della
Conferenza Stato-Regioni, necessario per definire le linee strategiche
per la competitività e lo sviluppo e i criteri utilizzati per
l’individuazione dei progetti industriali. Si legge che tanta
compartecipazione è da attribuirsi al desiderio di una componente
della coalizione (la Margherita) di non essere esclusa da decisioni
altrimenti esclusivamente attribuite a ministri di un’altra componente
della coalizione (i Ds). Non si può però fare a meno di osservare che,
se una tale regola fosse applicata per tutte le leggi, avremmo un enorme
ingorgo delle attività di qualsiasi governo di coalizione.
Secondo, il Ddl (articolo 1, comma 3) torna a fare politica industriale,
elencando obiettivi come il "riposizionamento del sistema industriale
italiano verso attività economiche a più alto valore aggiunto" e altri.
Stabilire delle priorità per misure di politica economica volte a
favorire il sistema delle imprese è utile; lo hanno fatto anche altri
paesi europei. L’importante è che inseguire questi obiettivi non faccia
deviare dal proposito fondamentale, che è quello di accrescere la
competitività del sistema industriale.
Prendiamo il caso del tessile e abbigliamento, uno dei settori a
più basso valore aggiunto per occupato nella manifattura italiana. Si
deve intendere che obiettivo della politica industriale sarà quello di
favorire la fuoruscita di lavoratori da questo settore verso altri a più
elevato valore aggiunto? Vista la concorrenza cinese, è probabilmente
una buona idea. Ma allora perché il governo italiano si batte in sede
europea per l’introduzione di dazi proprio in questo settore? O invece
si tratta solo di favorire la chiusura di aziende inefficienti,
spostando occupati all’interno dello stesso settore. Ma questo, le
imprese italiane lo stanno già facendo da sole, come dicono i dati del
2006. A cosa serve dunque specificare in una legge una pluralità di
obiettivi di politica industriale?
Infine, un sistema di incentivazione semplice è certamente meglio di uno
complicato. Ma le analisi empiriche esistenti per altri paesi
suggeriscono di non aspettarci un grande effetto positivo sulla
propensione ad innovare da un migliorato sistema di incentivi.
Almeno fino a che le piccole imprese italiane non accetteranno di
perdere un po’ di controllo nella conduzione aziendale, per diventare
più grandi: gli incentivi sono, infatti, poco efficaci a indurre le
piccole imprese a fare più innovazione. Se davvero vuole incoraggiare
gli investimenti, assieme al riordino degli incentivi e alle misure -
opportunamente inserite nel Ddl - per accrescere la dimensione e la
cooperazione tra imprese, il governo dovrebbe proporre loro lo scambio
"meno incentivi, meno tasse sulle società". È così che le imprese
americane sono ritornate a investire dopo l’11 settembre.
(1) Si tratta delle leggi 488/92 e 662/96 per il cosiddetto
"riequilibrio regionale", della 46/82 per l’innovazione tecnologica, e
della 266/97 per le piccole e medie imprese.
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