Non ve ne date più oltre pensiero: vi prego, affrettatevi a seguire i vostri
generali.
William Shakespeare, Antonio e Cleopatra, Atto secondo Scena IV
Le notizie che giungono da Washington e da Tel Aviv riguardo all’Iran sono tutto
meno che confortanti: sembrerebbe essere iniziato il “conto alla rovescia” per
un attacco contro i siti nucleari iraniani.
Nell’infinito balletto diplomatico s’è udita nei giorni scorsi la voce del
ministro degli Esteri russo Lavrov, il quale ha affermato che «L’opzione
militare in Iran è impraticabile»: secca dichiarazione che pone fine alle
ipotesi di una solenne “ammucchiata” contro Teheran. Come se non bastasse,
la Russia ha
promesso aiuti economici ad Hamas in Palestina, frantumando così il minaccioso
tentativo di USA ed UE di “prendere per fame” un popolo che aveva scelto
democraticamente i propri rappresentanti. Come già avvenne in Algeria nel 1992,
non si può promuovere la democrazia nel mondo e poi – quando qualcuno vota
contro i desideri di Washington, Bruxelles e Tel Aviv – mettere alla fame una
popolazione finché non cambia opinione. Bel concetto di democrazia: lo stesso
applicato in barba a tutti i trattati internazionali con Cuba, per poi
lamentarsi se Fidel Castro non si “apre” alla “democrazia”.
Pechino è più prudente ma non molto distante da Mosca quando invita tutti alla
“moderazione”. D’altro canto, entrambi i paesi hanno consistenti rapporti
economici con Teheran:
la Russia
fornisce gli impianti nucleari, missili ed altro materiale militare mentre
Pechino ha un contratto d’acquisizione del gas e del petrolio iraniano per 25
anni. Entrambi i paesi, quindi, non hanno nessun interesse per un “cambio della
guardia” in Iran.
Anche l’Europa non sembra molto interessata alla querelle iraniana
(dichiarazioni di facciata a parte), giacché la borsa petrolifera in euro di
Teheran contribuisce (e lo farà ancor più in futuro) ad apprezzare l’euro sul
dollaro.
Ovviamente, ciò che può andar bene per Mosca, Pechino e Bruxelles è l’esatto
contrario dei desideri di Washington – giacché il petrolio iraniano non può
soddisfare tutti – ed allora prendono forma le ipotesi belliche con la scusa del
programma nucleare iraniano1,
anche se nessun trattato internazionale prevede che sia negato l’accesso alla
tecnologia nucleare ad una nazione.
Ad un analista attento un simile azzardo sembra veramente irresponsabile: come
si può pensare d’attaccare un paese grande quattro volte l’Iraq e con circa
ottanta milioni d’abitanti quando già in Iraq ed in Afghanistan non si riesce
nemmeno a controllare il territorio?
La risposta è ovvia: nessuno pensa ad un’invasione dell’Iran, ma ad una serie
d’attacchi aerei e missilistici che – nelle intenzioni di Washington –
dovrebbero portare ad un “cambio di regime”.
Già questa tesi è molto difficile da sostenere – poiché non si comprende quali
forze interne all’Iran dovrebbero ribaltare un potere solido come quello degli
ayatollah – e conduce a conclusioni diametralmente opposte: Khamenei ed
Ahmadinejad avrebbero buon gioco nel consolidare gli umori della popolazione
contro il “Satana” di sempre, ovvero gli USA.
Il “Satana”, però, si trova già all’inferno per la situazione in Iraq, e gli
ayatollah non ci metterebbero molto a scoperchiare ancor più la pentola
irachena: l’ayatollah Al-Sistani – massima espressione degli sciiti iracheni –
non ha nemmeno la cittadinanza irachena, è un cittadino iraniano che ha studiato
a Qom – in Iran – insieme a Khamenei ed agli altri dirigenti iraniani.
Se i grattacapi – per Washington – fossero soltanto questi ci sarebbe già da
fare una bella doccia fredda prima di prendere decisioni azzardate, ma anche il
fronte interno inizia a cedere, e le crepe cominciano ad essere evidenti.
Chi desiderasse fare dei paragoni con il Vietnam si troverebbe spiazzato per un
semplice motivo: a quel tempo l’esercito USA era di leva, mentre oggi è un
esercito professionale. Della serie: sei pagato per combattere e per morire, e
se crepi non ti lamentare perché era già scritto nel contratto2.
Ha reale valore un simile “contratto”? Ossia, quanto è sostenibile in termini
politici?
Sulla “tenuta” degli eserciti in situazioni difficili poco si sa e poco si
parla: si stima in modo assai fumoso che un esercito “debba” resistere, “che
farà il suo dovere” ed altre affermazioni di questo tipo che significano assai
poco.
Sappiamo che la guerra in Vietnam non fu perduta dagli USA nelle risaie dell’Indocina
ma sul territorio nazionale, quando fu evidente che non serviva più inviare
soldati demotivati e contrari alla guerra, truppe che si squagliavano come neve
al sole. In questo senso, Apocalypse now è addirittura didattico.
Vale forse la pena d’analizzare con attenzione la situazione degli eserciti
dell’Asse nel confronto con la superiorità di mezzi degli Alleati: è vero che
gli italiani fuggirono ai primi spari mentre tedeschi e giapponesi combatterono
fino all’ultima cartuccia? In parte.
La seconda affermazione è senz’altro vera per il Giappone, laddove però furono
precise condizioni interne a determinare la strenua resistenza: l’Imperatore –
il Tenno – era sacro come un Faraone per gli Egizi, e la difesa di un
Dio-Re catalizza ben altre pulsioni rispetto al concetto di stato nazionale
occidentale. A margine, possiamo notare come certe odierne affermazioni di
“difesa dell’Islam” – inteso nella sua sacralità religiosa – abbiano punti in
comune con il Giappone di quegli anni.
L’Esercito Italiano, invece, iniziò a disgregarsi appena gli anglo-americani
sbarcarono in Sicilia: curiosità vuole che, proprio nel 1942, stavano entrando
in servizio nuovi, moderni mezzi per un esercito che aveva iniziato la guerra
con quasi le stesse dotazioni della Prima Guerra Mondiale.
Il caccia Reggiane 2005 poteva combattere alla pari con i migliori
Spitfire, il carro P-40 era il corrispettivo dei migliori carri
tedeschi,
la Marina – con
l’ingresso in squadra del Roma – aveva sette corazzate da opporre. La
produzione di quei mezzi era appena iniziata e l’esercito italiano stava
iniziando la sua trasformazione proprio quando subì la sconfitta di El-Alamein,
con la conseguente perdita dell’Africa Settentrionale.
La Marina, però, poteva giocare ancora parecchie carte – almeno prima dello
sbarco in Sicilia – ma non fece praticamente nulla: era evidente che non si
trattava più di mezzi, ma del morale delle truppe. L’avventura in Russia aveva
debilitato fortemente il morale dell’esercito che, già dalle prime battaglie
contro
la Grecia ,
aveva mostrato scarsa volontà di combattere.
La situazione italiana era dunque quella di un esercito di leva che non
avvertiva la necessità di quella guerra, tanto meno con l’alleato tedesco che
solo vent’anni prima era stato il nemico.
Uno dei luoghi comuni più diffusi è invece quello che identifica
la Wehrmacht
con il potere nazista: Sturmtruppen combatterono sempre fino all’ultimo
uomo e fino all’ultima cartuccia?
I guai iniziarono già dalla Battaglia d’Inghilterra, quando i tedeschi non
riuscirono ad avere il sopravvento sugli inglesi pur avendo un rapporto di forze
a loro favore di circa 5 : 1. L’ostacolo maggiore alla vittoria della
Luftwaffe fu il suo comandante in capo, Hermann Goering, un grasso e
dissoluto feldmaresciallo che non capiva niente di tattica e di strategia
aeronautica. Non esisteva nessuna pianificazione della guerra aerea, dato che la
campagna di Francia non aveva insegnato quasi niente, ed i velivoli tedeschi
venivano inviati in missioni dove non potevano mettere a frutto la superiore
velocità del caccia Messerschmitt BF-109. Durante un veemente contrasto
con Goering, il generale Gallandt – asso dell’aviazione – avvertì ironicamente
il feldmaresciallo che, se quella era la strategia, per vincere «sarebbe stato
necessario ricevere degli Spitfire». Gallandt pagò quell’affermazione con
anni d’esilio in un dimenticato aeroporto sui Pirenei, ma Goering non capì cosa
intendeva affermare l’ufficiale, ossia che le tattiche e le strategie non
possono prescindere dai mezzi.
Dopo la sbarco in Normandia, invece, furono numerosi i casi di fucilazione per
ufficiali di rango inferiore – tenenti e capitani, ovvero quelli che erano a
diretto contatto con le truppe combattenti – giacché ordinavano la ritirata per
salvare il poco che era possibile salvare.
Dopo quelle fucilazioni
la Wehrmacht
iniziò a squagliarsi definitivamente: se le istanze di chi combatte non sono
recepite dagli Stati Maggiori diventa inutile combattere – questo è il
ragionamento che fa qualsiasi giovane capitano – perché si trova a combattere
fra due fuochi, ossia fra il nemico che avanza e il comando che, se non sei
disposto a morire, provvede direttamente.
Sul fronte russo, invece, si giunse ben presto ad un accordo: tutto quello che
avvenne dopo la resa di Paulus a Leningrado e la sconfitta di Stalingrado fu
soltanto una lenta ed inesorabile ritirata3.
Molti ufficiali – anche di grado elevatissimo – avevano abbandonato la follia di
Hitler e del suo “Reich millenario” e pensavano solo a salvare il salvabile: si
ritiravano di quel tanto che bastava per salvare la faccia ed i russi avanzavano
fin quando i tedeschi lo permettevano, nell’attesa di una nuova ritirata.
Difatti, non vi furono più grandi battaglie campali all’est dopo il 1943, ed
addirittura l’Armata Rossa si fermò fuori Varsavia nell’attesa che i tedeschi
l’avessero evacuata, il che causò un’ecatombe nella resistenza polacca.
In buona sostanza, la concezione napoleonica della guerra – che durò fino alla
Prima Guerra Mondiale – non funzionò più nella Seconda, quando la resa e la
ritirata divennero le alternative alla resistenza ad oltranza, alla guerra di
trincea4.
In Vietnam – come ricordavamo – intervennero apertamente sul morale delle truppe
anche fattori politici interni: le marce della pace, le medaglie scagliate
contro il Campidoglio testimoniavano oramai il rifiuto politico di quella guerra
da parte dei giovani americani, e fu sconfitta.
La risposta del Pentagono a quella sconfitta fu la creazione di un esercito
professionale: sei pagato anche per morire, ma ti metteremo a disposizione tutto
il supporto possibile e la miglior tecnologia affinché ciò non avvenga.
La carota, invece, era: vieni nei Marines ed avrai uno stipendio sicuro, una
serie di benefit quali abitazione, sanità, scuola, ecc e sarai sempre
difeso dall’esercito in qualsiasi frangente. Nulla di nuovo rispetto alla
classica Guardia Pretoria.
Questo equilibrio si regge su un semplicissimo assioma che possiamo identificare
nella conta dei morti, ossia su quanti sacchi neri tornano in Patria con un
cadavere dentro.
La ristrutturazione dell’esercito americano dopo la fine della Guerra Fredda –
curata per Rumsfeld da Andrew Marshall, anziano ed ascoltato stratega del
Pentagono – prevedeva la creazione di 12 grandi gruppi d’assalto basati sulla
sorpresa e sulla mobilità: nessuno aveva messo in conto lunghi periodi
d’occupazione, perché in quel caso la superiorità tecnologica conta sempre di
meno man mano che la situazione si complica.
Quale artifizio elettronico può salvare un marine dallo scoppio di un ordigno
rudimentale celato in un cespuglio a lato della strada? Gli ufficiali hanno a
disposizione un sofisticato sistema di combattimento, con il quale sono in
continuo contatto con i comandi: un apposito visore – sistemato sull’elmetto –
permette loro d’avere notizie in tempo reale sui movimenti del nemico.
Già, ma chi è il nemico?
Questa strategia può funzionare in una guerra convenzionale – e per questa
ragione la campagna militare irachena fu così rapida – ma diventa inefficace
quando il nemico non è riconoscibile. Paradossalmente, in un campo di battaglia
“elettronico”, coperto di emissioni radar e di sensori, un uomo senza divisa con
un fucile che cavalca un cammello diventa l’arma assoluta.
La latitanza di Bernardo Provenzano è stata possibile perché si affidava a
strumenti di comunicazione antichi – i famosi “pizzini” – ma anche quella di Bin
Laden e di Ayman Al-Zawahiri è molto “prudente” per quanto attiene la
comunicazione elettronica. Molto probabilmente anche i due capi di Al-Qaeda non
usano strumenti elettronici e, per i loro comunicati alle TV ed ai loro
accoliti, utilizzano presumibilmente semplici e-mail inviate da anonimi Internet
café.
Vorremmo precisare che non stiamo compiendo dei salti nell’iperspazio della
strategia militare: gli stessi principi erano già presenti negli scritti di
Ernesto Guevara Linch5.
In definitiva, i guai iniziano quando un esercito professionale pagato per fare
la guerra comincia a subire pesanti e continue perdite: non solo migliaia di
morti, ma anche decine di migliaia di feriti, molti dei quali gravi e che
rimarranno mutilati per il resto della loro esistenza.
A questo punto, la carota – ossia la certezza del posto di lavoro, i benefit,
ecc – calano d’importanza perché quel posto di lavoro diventa sempre più
incerto: qui non si perde il posto di lavoro, qui si perde la vita.
Esiste una sorta di “sindacalismo” militare? Un militare che si trova ad
affrontare situazioni insostenibili, a chi può rivolgersi?
In Italia esistono i vari COCER, ossia degli organismi consultivi che
comprendono ufficiali, sottufficiali e uomini di truppa: specie di
“rappresentanze sindacali” interne alle Forze Armate.
Si tratta già di un passo in avanti rispetto alla pura e semplice obbedienza
gerarchica (che, in ogni modo, i COCER non possono mettere in dubbio), ma è
tutto da verificare cosa potrebbe succedere in una reale situazione di guerra.
Il metodo più semplice che i militari USA hanno per evidenziare il loro malumore
è quello di mostrarlo ai loro comandanti sul campo, ossia agli ufficiali di
rango inferiore. Quando le lamentele e lo scoramento superano la soglia
d’attenzione, le paure iniziano ad essere comunicate agli ufficiali superiori,
fino agli Stati Maggiori: la struttura gerarchica – in questi frangenti –
diventa bi-direzionale, ossia non partono più solo ordini dall’alto ma anche
timori dal basso.
Quando l’intera catena di comando è pervasa dai dubbi, essi si manifestano nelle
alte sfere, fino ai politici: in teoria, così dovrebbe accadere in un esercito
moderno ed in una nazione democratica.
Ciò che invece si sta inceppando negli USA è il rapporto fra militari e
politici: al Pentagono è in atto una vera e propria lotta senza esclusione di
colpi fra molti alti ufficiali – che invitano Bush a trovare rapidamente una
soluzione per l’Iraq – ed i politici, i quali continuano a pensare che i soldati
sono pagati anche per morire. Semmai, dopo riceveranno medaglie e diventeranno
degli eroi.
Se vogliamo, possiamo cogliere un interessante parallelo fra la situazione dei
sovietici in Afghanistan e quella odierna degli USA in Iraq: in entrambi i casi
non era e non è possibile controllare il territorio, di qui l’inevitabile
sconfitta, mascherata con vari artifizi.
La differenza fra le due situazioni è rappresentata proprio dal diverso
approccio: i sovietici sapevano benissimo che era il Pakistan (ovviamente
sorretto dagli USA) a giocare la parte del “regista” per quanto avveniva in
Afghanistan, ma non s’azzardarono mai ad attaccarlo.
Gli USA invece, pur non esistendo un rapporto ben definito fra Teheran e la
guerriglia irachena, meditano d’alzare il livello dello scontro attaccando
l’Iran per altri motivi.
I generali sono per natura silenti e parlano per atti: le recenti dimissioni ed
i parecchi pensionamenti fra gli alti gradi del Pentagono raccontano che la
frattura fra Rumsfeld ed i militari è oramai insanabile. La prospettiva di un
attacco al sito nucleare di Natanz – con l’utilizzo di bombe atomiche “tattiche”
per colpire le installazioni sotterranee – fa rizzare i capelli in testa ai
generali, che il giorno seguente inizierebbero a contare le perdite in Iraq non
più ad unità giornaliere, bensì a decine.
Se Bush crede di potersi permettere un completo isolamento internazionale, i
generali sanno che quell’isolamento si trasformerà rapidamente in maggiori
rifornimenti d’armi e d’informazioni alla controparte, ed in maggiori perdite
per le proprie forze.
Sappiamo che la vittoria ha sempre molti padri mentre la sconfitta è orfana, ma
non dimentichiamo che ai generali sconfitti non viene riservato – per tradizione
– il miglior trattamento: il gioco del “cerino” è già iniziato negli alti
comandi USA, e nessuno vuole farsi scottare le dita mentre qualcun altro preme
il pulsante di un attacco nucleare.
Ciò nonostante, non pensiamo che la “rivolta” dei generali sortirà qualche
effetto sull’amministrazione Bush, giacché lo stesso Bush ha oramai perso ogni
contatto con la realtà: non esiste peggior iattura di un politico che vuol
vestire i panni del comandante militare – poiché non ne ha la formazione – e
Bush oramai si presenta quasi sempre in divisa (e quale poi, visto che
praticamente non fece il servizio militare?).
Anche se il paragone potrà apparire eccessivo, Gorge Bush è oramai prigioniero
nel bunker come Hitler, a spostare armate che esistevano oramai solo più sulla
carta.
George Bush ha ancora molte armate a disposizione, ma non ha compreso che la
sola forza militare non basta per raggiungere gli obiettivi politici: l’ONU non
vuole soggiacere ai desideri USA senza porre condizioni? Ecco pronta la nomina
di John Bolton come ambasciatore USA all’ONU, un politico il quale ha sempre
dichiarato che – se dipendesse da lui – l’ONU non esisterebbe nemmeno. Sarebbe
come inviare un macellaio per organizzare la gestione degli animali abbandonati.
Powell era un generale, un repubblicano convinto, ma rimaneva pur sempre un
generale che operava come Segretario di Stato, ossia il Ministro degli Esteri
USA: perché non fu riconfermato per il secondo mandato di Bush?
E’ facile immaginare che, già prima del 2004, qualche generale avesse iniziato a
premere per una ritirata “onorevole” dall’Iraq, e se c’era una persona che
poteva comprendere la situazione non era certo Rumsfeld ma Powell che di guerra,
morale delle truppe e quant’altro se n’intendeva.
La risposta alle apprensioni di Powell fu semplice: il suo posto fu preso da
Condoleeza Rice – che non sa nulla di questioni militari – giacché servì sotto
Bush senior con la qualifica di “sovietologa” (?), mentre prima non aveva fatto
altro che la dirigente alla Chevron. Allora: petrolio, politica estera od armi?
In teoria, un buon Ministro degli Esteri dovrebbe conoscere bene questi ed altri
argomenti ma nulla – che possa essere inteso dagli atti della Rice – consente di
confermare questa premessa.
Questi aspetti si sposano perfettamente con tutta la “allegra brigata” che
comanda negli USA: da Cheney che pensa soltanto ai proventi delle sue società di
supporto all’industria petrolifera a Wolfowitz, inviato alla Banca Mondiale per
cercare di salvare i destini del dollaro. I soldati? E chi se ne importa.
Nessuna di questa persone è in grado di valutare con saggezza gli equilibri
strategici: vivono in una sorta di Limbo dove – in modo assolutamente
auto-referenziale – ritengono che basti la potenza di fuoco della macchina da
guerra americana per risolvere a loro favore qualsiasi conflitto.
La “rivolta” dei generali è un segnale che qualsiasi politico dovrebbe cogliere
ed invece stanno dimostrando nei fatti di volerla ignorare, come Berlusconi non
riesce a comprendere d’aver perso le elezioni: non a caso il Silvio nazionale
considera il George d’oltre oceano un “amico fraterno”.
La differenza fra le due situazioni, però, non è cosa di poco conto: mentre
Berlusconi – quando saranno convocate le Camere – dovrà soltanto svegliarsi dal
sogno ed emettere una dichiarazione di facciata, per Bush essere avvertito che
le truppe in Iraq stanno cedendo sarà un incubo terrificante, nel quale avrà
trascinato milioni di famiglie americane.
Carlo Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
1 Sulla reale pericolosità del programma nucleare iraniano potrete
trovare analisi più approfondite in precedenti articoli apparsi su
Disinformazione, in particolare ne “Il canto degli ayatollah” ed in “Perché gli
USA vogliono ad ogni costo attaccare l’Iran?”.
2
E’ utile, all’uopo, rivedere ed analizzare attentamente un grande film di
Stanley Kubrik – Full Metal Jacket – che, a differenza d’alcuni tratti
retorici di Apocalypse now, mette il dito nella piaga sui metodi di
formazione ed addestramento dei militari USA. Ciò non toglie, ovviamente, valore
ad Apocalypse now per altri aspetti, ossia sulla reale tragedia della
guerra, che non può essere altro che “sporca”.
3
La tesi è sostenuta con precise citazioni da Giorgio Galli nel suo Hitler ed
il nazismo magico.
4
In questo contesto l’analisi dovrebbe essere senz’altro più approfondita e
prendere in esame anche le diverse tattiche che dipendevano dai nuovi mezzi (tank,
aerei, ecc), ma
la Seconda Guerra
Mondiale evidenziò già quel cambiamento che conduceva le truppe a non “morire
fino all’ultimo uomo”, come talvolta avvenne ancora nella Prima.§
5
Ernesto “Che” Guevara: La guerra di guerriglia, Feltrinelli.
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