l Fondo monetario
internazionale è in agitazione. Qualche mese fa il governatore della Banca
d’Inghilterra aveva lanciato un segnale: auspicava che si rivedesse
l’assetto della dirigenza del Fondo. Già da tempo, almeno dalla crisi
asiatica del 1997-1998, gli osservatori erano giunti alla medesima
conclusione, ma a livello ufficiale si manteneva un atteggiamento più che
prudente rispetto a un argomento che scalda gli animi. Ma ecco che ora Anne
Krueger, il numero due del Fondo, avanza suggerimenti concreti: propone di
aumentare il peso dei paesi asiatici. Il che, in sostanza, significa
ridimensionare il ruolo degli altri.
Naturalmente, nessuno si offre volontario, e qui sta tutta la difficoltà
della questione. Certo, Anne Krueger è al termine del suo incarico e forse è
proprio questa la ragione di una presa di posizione che irrita più di un
governo.
Le quote dell’Fmi
Di cosa si tratta? L’Fmi appartiene ai paesi che ne sono membri e che in
esso investono, in ragione del loro peso economico. I capitali versati sono
poi utilizzati per concedere prestiti ai paesi che affrontano difficoltà nei
pagamenti internazionali. Il Fondo è una sorta di "pompiere" internazionale
che cerca di estinguere i focolai delle crisi finanziarie.
Alla base di tutto, c’è il principio per cui a ogni paese viene assegnata
una quota, che dà diritto a chiedere prestiti, prevede l’obbligo di
versare fondi nella cassa comune, ma dà anche il diritto di voto. Di
conseguenza, i "giganti" sul piano economico sono quelli che hanno più
potere.
La logica è quella azionaria: più si paga, più si controlla. Il peso della
Francia equivale al 5,1 per cento, gli Stati Uniti sono al 17,5 per cento,
la Cina ha il 3 per cento e l’India il 2 per cento. In linea di principio,
le quote vengono ridefinite ogni cinque anni per tenere conto
dell’evoluzione della situazione, essenzialmente della crescita del Pil e
delle esportazioni di ogni paese.
L’ultima revisione risale al 1998. Quella del 2003 è saltata proprio
a causa dell’inasprirsi della controversia. Si è perciò deciso di rimandare
l'appuntamento al 2008, ufficialmente per lasciare il tempo di
riconsiderare l’insieme della questione. Ma quello che sembrava un tentativo
di insabbiare le cose, potrebbe dar luogo, alla fine, a un vero dibattito.
Il mondo cambia
La prima questione è appunto quella delle quote. Dal 1998 il Pil della
Cina è aumentato dell’80 per cento, e non accenna a fermarsi. A rigor di
logica, il peso del paese asiatico dovrebbe perlomeno raddoppiare, e
altrettanto si dovrebbe fare per gli altri paesi emergenti quali l’India, la
Corea, il Brasile, e così via. Se si sommano tutti questi incrementi, si
arriva facilmente al 10 per cento dei voti, che bisognerà dunque sottrarre a
quei paesi che crescono più lentamente, per esempio quelli europei. Ma la
revisione delle quote deve essere approvata dall’85 per cento dei voti:
poiché i paesi membri dell’Unione Europea raggiungono complessivamente quasi
il 29 per cento dei voti, non è difficile immaginare come andrà a
finire.
Ma non basta. Giacché non si possono riunire i rappresentanti dei 184 paesi
membri attorno a un tavolo, le decisioni sono prese da un consiglio di
amministrazione composto da ventiquattro direttori generali. Otto
paesi hanno un proprio direttore generale: Stati Uniti, Francia, Gran
Bretagna, Germania, Giappone, Cina, Russia e Arabia Saudita. Gli altri paesi
sono riuniti su base geografica in circoscrizioni, ciascuna delle quali ha
un suo direttore generale che vota per il gruppo di paesi da lui
rappresentati. I direttori generali europei sono otto, contro i cinque
asiatici. Per esempio, il direttore generale olandese rappresenta, oltre al
suo paese, dodici Stati tra cui Israele, Ucraina e Georgia. Un accidente
della storia, senza dubbio, ma il dominio europeo fa digrignare i denti a
molti, tanto più che il numero di voti controllati dai direttori generali
europei rappresenta quasi il 36,4 per cento del totale. Una vera forza
d’urto diplomatica che, curiosamente, evita di esprimersi sulle critiche di
chi accusa l’Fmi di essere uno strumento nelle mani degli Stati Uniti.
Un altro accidente della storia è la nomina del direttore generale,
il quale ha un potere notevole. Dalla conferenza di Bretton Woods, nel 1944,
un accordo non scritto prevede che a dirigere il Fondo sia un europeo e la
Banca Mondiale sia affidata a un americano. Sessant’anni più tardi, questa
spartizione del mondo continua ancora. Uno spagnolo, Rodrigo de Rato, è
succeduto nel 2004 al francese Michel Camdessus alla testa dell’Fmi. I denti
stridono. E va aggiunto che il numero due, oggi Anne Krueger, è sempre uno
statunitense.
Dopo la crisi asiatica, che aveva mostrato le numerose lacune nel
funzionamento e nella dirigenza dell’Fmi, sono fioccate le proposte di
riforma. Alcune hanno furore iconoclasta: l’ala destra del Partito
Repubblicano ha suggerito di sopprimere il Fondo che, ai suoi occhi, "mette
le mani nelle tasche" del contribuente. Il Giappone ha proposto di creare un
Fondo monetario asiatico, per contrastare un Fmi davvero troppo occidentale.
Altri osservano che ormai nessun paese dell’Ocse ha bisogno degli aiuti del
Fondo, e dunque per quale ragione questi paesi, molto semplicemente, non si
ritirano lasciando gestire ai potenziali beneficiari quello che è sempre
stato concepito come uno strumento di aiuto reciproco? Tutto ciò renderebbe
liberi molti voti e molte poltrone.
Le proposte di Anne Krueger riprendono molte idee espresse dai più moderati.
Si tratterebbe innanzitutto di rivedere le quote. Attualmente, si parte da
una formula complessa (che calcola il Pil, le esportazioni e le
importazioni, le riserve di cambio), dopodiché si negozia. L’idea sarebbe
quella di semplificare tale formula e di non negoziare più: povera Europa.
Si dovrebbero poi ridisegnare le circoscrizioni, costituite
disordinatamente, a mano a mano che il numero dei paesi membri passava da 29
a 184. Poiché si tratta soprattutto di aiutare i paesi a tutelare la loro
valuta, alcuni hanno proposto di far confluire tutti quelli della "zona
euro" in una sola circoscrizione. In altre parole, la Francia perderebbe il
suo posto esclusivo, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna conserverebbero il
loro: povera Francia.
Naturalmente, non avrebbe più ragione d’esistere il monopolio europeo sul
posto di direttore generale. Si tratterebbe di scegliere questa figura tra i
diversi candidati proposti in virtù delle sue competenze. Ah, com’è faticosa
la globalizzazione.
*La versione originale dell'articolo è disponibile sul sito
www.telos-eu.com.
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