Il Fondo
monetario internazionale e la Banca Mondiale hanno appena concluso la
loro riunione annuale a Singapore. Normalmente, gli incontri si rivelano più
un rituale che l’occasione per prendere decisioni importanti. Quest’anno,
però, il Fondo monetario internazionale ha presentato la riunione come una
tappa significativa sulla via di una riforma della sua gestione,
tanto attesa e tanto rimandata.
È vero che il Fondo è sotto pressione dalla crisi asiatica del 1997. Così,
attaccato da un lato per le sue entrate standardizzate e la pesantezza delle
sue condizioni, dall’altro per i suoi prestiti a regimi corrotti, ha avviato
una trasformazione interna. Ha abbandonato in parte la sua abituale
riservatezza - in particolare sviluppando un sito internet molto ricco di
informazioni - e ha preso un po’ le distanze dal suo dogmatismo. Nonostante
tutto, resta un’istituzione dominata dai paesi sviluppati, in particolare
dagli Stati Uniti. Ed è da lì che si muove tutto, altrimenti niente
sarebbe realmente cambiato, a dispetto di un numero incalcolabile di
proposte.
Le decisioni di Singapore sono il segnale di una vera evoluzione?
Le regole del Fondo
Al Fondo monetario internazionale le decisioni sono prese
dal consiglio d’amministrazione. Presieduto dal direttore generale,
comprende 24 amministratori che rappresentano i 184 paesi membri. Ciascun
paese ha un diritto di voto composto di due parti: un diritto di base,
uguale per tutti, e un diritto di voto quota, proporzionale alla
"taglia" del paese.
Un sistema complicato di formule serve da base per la determinazione delle
quote, rivedibili ogni cinque anni. L’ultima revisione doveva aver luogo nel
2003, ma è saltata poiché non si è raggiunto un accordo. La prossima è
programmata per il 2008. Questa prospettiva agita parecchio gli
animi.
Le formule sono forse complicate ma, a parte qualche interessante eccezione,
le quote corrispondono pressappoco al valore del Pil di ciascun
paese. Ad esempio, il Pil della Francia vale circa il 4,74 per cento del Pil
mondiale, e la sua quota è il 4,95 per cento.
Il dibattito sulla ripartizione delle quote riguarda dunque il criterio da
prendere in considerazione e la sua applicazione. La prima questione è
vecchia quanto il Fondo monetario internazionale, non c’è un criterio
completamente soddisfacente. Si va verso una semplificazione della formula,
che considererà in particolare il Pil, le esportazioni e il flusso di
capitali.
La seconda questione è quella che ha animato la discussione a Singapore. I
paesi in via di sviluppo si considerano sottovalutati. È vero che con
il 10 per cento di crescita l’anno, il peso della Cina non è più quello che
era prima del 1998, anno dell’ultima revisione delle quote. Il suo Pil
rappresenta oggi il 5 per cento di quello mondiale, mentre la sua quota è
del 2,89 per cento.
Un’operazione in due tempi
Ma dal momento che la somma delle quote è il 100 per
cento, aumentare quella di alcuni paesi significa ridurla per altri. La
questione è delicata, tanto più che le decisioni importanti richiedono l’85
per cento dei voti. Con il loro 17 per cento, gli Stati Uniti hanno
un diritto di veto che vogliono utilizzare, proprio per poterlo mantenere.
Con una gara annunciata all’accaparramento delle quote, si è pensato di
incamminarsi verso un’operazione in due tempi.
Cinque paesi (Cina, Corea, Turchia e Messico) si sono visti offrire
immediatamente un peso più importante, ma di poco (il più grosso
beneficiario, la Cina, passa al 3,7 per cento). Il Brasile e l’India,
dimenticate in questa fase, non hanno molto apprezzato.
Ma le novità maggiori riguardano il futuro. È stato deciso di ripensare
tutto il sistema in vista della revisione del 2008. Ma dietro l’annuncio
ambizioso si nasconde una realtà più modesta. È illusorio aspettarsi una
profonda rimessa in causa della situazione attuale. Innanzitutto perché,
contrariamente a ciò che si crede, le quote attuali non sono molto lontane
da ciò che qualsiasi formula ragionevole può indicare. Poi, perché i paesi
sviluppati vogliono resistere ai cambiamenti.
È per questa ragione che si è introdotto nel dibattito la nozione di "voce":
anche i paesi a piccola quota (Palau, un’isola del Pacifico, ha una quota
dello 0,001 per cento) devono poter far arrivare la loro voce là dove conta.
E per "là" si intende il consiglio di amministrazione.
Otto amministratori rappresentano ciascuno un solo paese (Stati Uniti,
Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Cina, Russia e Arabia Saudita).
Gli altri rappresentano gruppi di paesi; tra loro, si contano cinque paesi
europei. In totale, al gran tavolo decisionale siedono nove paesi europei,
considerando il direttore generale che è sempre europeo, per un accordo del
1944 con gli Stati Uniti, che invece nominano quello della Banca mondiale.
Nove su venticinque è tanto.
Il dibattito sulla "voce" consiste dunque nel dire: non si può forzare molto
sulla questione dei diritti di voto, facciamo almeno in modo che il
consiglio d’amministrazione sia più rappresentativo della realtà.
Un’idea spesso proposta è di avere un solo amministratore per la zona
euro. Per un’istituzione che si occupa soprattutto di tassi di cambio,
sarebbe molto logico. Si potrebbero anche consolidare gli altri paesi
europei, che si spartirebbero due seggi di amministratori. Mettere un
termine alla garanzia di un presidente europeo, porterebbe poi una ventata
d’aria fresca. Gli europei, però, non sembrano entusiasti di questa
soluzione. La Francia, ad esempio, tiene al suo seggio al Fondo monetario (e
alla Banca mondiale, dove la gestione è molto simile) tanto quanto a quello
all’Onu. Si preannuncia una discussione animata tra gli europei e tutti gli
altri.
La riunione di Singapore non ha indicato come aumentare l’influenza dei
paesi in via di sviluppo senza ridurre quella degli americani e degli
europei. Inevitabilmente, perché non c’è soluzione. Dunque, si negozierà
ancora a lungo, si muoverà un po’ il cursore delle quote e si rimanderà più
avanti nel tempo una vera redistribuzione dei poteri. Il problema è che
più tardi nulla cambierà nella determinazione dei potenti a conservare
il loro potere. A meno che un certo numero di paesi decida di
organizzarsi tra loro e di ignorare il Fondo monetario internazionale,
un’idea molto in voga in Asia.
*La versione originale dell'articolo è disponibile sul sito
www.telos-eu.com.
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