Se non si trattasse di un politico di lungo corso, si
potrebbe paragonare l'uccisione di Benazir Bhutto a quella
dell'agnello sacrificale, tanto era attesa e scontata.
Salita giovanissima alla carica di primo ministro come
esponente di una delle più importanti famiglie famiglie
pachistane e degli interessi ad essa affluenti, per due
volte era stata dimessa inseguita da procedimenti penali.
Incapace di governare, Benazir da sempre è stata
l'immagine offerta alle masse pachistane dal suo Partito
Popolare, fino a quando un accordo con Musharraf non aveva
commutato il carcere sicuro in un dorato esilio con base
negli Emirati. Un complesso accordo con Musharraf, voluto
fortemente dal Dipartimento di Stato americano, le aveva
permesso il ritorno e la certezza matematica della carica
di primo ministro. Nel furore della violenza esplosa dopo
la distruzione della Moschea Rossa, Musharraf ha però
mosso freddamente le sue pedine al meglio, vanificando
ogni pretesa statunitense. Nominato il fedelissimo capo
dell'ISI (i temutissimi servizi segreti pachistani) Ashfaq
Kayani a capo dell'esercito, Musharraf ha svestito la
divisa, non prima di aver licenziato i membri della corte
suprema che dissentivano sulla legalità delle sue
decisioni. Nella giusta sequenza Musharraf ha anche
amnistiato Benazir Bhutto ed eliminato il limite dei due
mandati che le avrebbe impedito l'elezione.
Il ritorno di quella che è stata la prima leader femminile
di un paese islamico e in assoluto uno dei più giovani
primo ministro della storia, era stato salutato a modo
loro dagli integralisti religiosi pachistani, che le
avevano subito promesso la morte. Un primo ministro
imposto dagli americani non può piacere a chi in Pakistan
è in guerra con il governo e in Afghanistan con gli Stati
Uniti. Musharraf per canto suo, pur non direttamente
interessato alla contesa elettorale visto il ruolo
presidenziale, ha provveduto a silenziare la stampa con
una stretta censura. La stampa pachistana è di solito
abbastanza frizzante, ma in questo periodo sembra obbedire
alla lettera, con il risultato paradossale che in piena
campagna elettorale non sembrava succedere niente.
Bhutto e Sharif, un altro ex-premier con una storia
speculare, non potevano che fare campagna elettorale
organizzando riunioni di simpatizzanti e comizi pubblici.
Anche Sharif è stato attaccato poche ore prima
dell'attentato a Bhutto, sfuggendo però all'attentato. Non
è un caso che Musharraf, sopravvissuto ad almeno sette
attentati negli ultimi anni, non si conceda per niente i
bagni di folla. Con la morte di Benazir Bhutto, muore
prima di tutto il piano americano per una
demilitarizzazione delle istituzioni pachistane, piano
peraltro sembrato sempre molto fine a se stesso e dalle
aspettative fumose.
Le certezze sono ben poche, una di queste è che Musharraf
ha trasferito alla presidenza il controllo dell'armamento
atomico pachistano. Un'altra certezza è che Ashfaq Kayani,
il nuovo capo dell'esercito pachistano, è vicino agli
Stati Uniti, ma ancora più vicino a Musharraf e agli
interessi dell'esercito, che incorpora imprese industriali
ed azionarie ai massimi livelli. Per la più banale ironia
della storia fu proprio Alì Bhutto, padre di Benazir, a
volere lo sviluppo di quel programma nucleare che oggi è
l'assicurazione sulla vita per il dittatore e per il
regime militare.
C'è di che inquietare Washington, già preoccupata in
settimana dalla diffusione di un rapporto del Pentagono
che ammetteva brutalmente che gli Stati Uniti non hanno
alcuna possibilità di “mettere in sicurezza” il nucleare
pachistano, nemmeno invadendo il paese. Questa volta le
armi di distruzione di massa ci sono e fanno paura; sarà
per questo che con il Pakistan gli USA non spargono
isterica propaganda, ma messaggi preoccupati; sarà anche
per questo che sembra non ci siano idee brillanti sul che
fare dopo la morte del cavallo preferito.
L'attentato a Benazir Bhutto non è stato rivendicato, ma
sembra abbastanza plausibile che non sia stato organizzato
da Musharraf o dall'esercito, i quali hanno probabilmente
raccolto il frutto senza aver avuto il bisogno di scuotere
l'albero. Il Pakistan corre una campagna elettorale a luci
spente dall'esito difficilmente prevedibile, ma sembra di
poter dire che al di là del tunnel ci saranno ancora
Musharraf e l'esercito a reggere l'unico paese fallito (failed
state) con un imponente arsenale nucleare.
Un grosso grattacapo per George e Bandar Bush, vero
padrino del piano. Bandar Bin Sultan, ex ambasciatore
saudita a Washington, intimo della famiglia Bush al punto
di meritarsi il patronimico texano per soprannome, ha
cucito e ricucito, tessuto e tessuto ancora, ma non sembra
che il suo attivismo e i suoi piani abbiano portato alcun
vantaggio agli interessi occidentali. Forse non è un caso,
anche se non sta bene parlar male dei sauditi, c'è pur da
tenere in conto che si tratta del paese che, con il
Pakistan, è la maggiore fonte di “terroristi” islamici,
nonché padrino e massimo finanziatore della jihad talebana
e del terrorismo d'importazione in Iraq.
A Condoleeza Rice girerà la testa in mezzo a tante
complicazioni e, probabilmente, nemmeno Getes ci capirà
molto. Deve essere per questo che hanno mandato John
Negroponte a parlare con il nuovo capo dell'esercito
pachistano. Sui colloqui non è trapelato nulla, ma dalla
realtà dei nuovi stanziamenti americani al governo
pachistano è abbastanza chiaro che gli americani
continueranno a gonfiare di denaro e di attenzioni i loro
principali nemici. La notte del Pakistan continuerà lungo,
ma oggi per Musharraf e l'esercito pachistano è festa.
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