E’
ormai chiaro che con l’arrivo del 2009 uno
dei due, prima o poi, dovrà mollare.
Perché lo spazio “russo” postsovietico -
che è ancora in preda alle convulsioni
della troppo rapida e imprevista
disgregazione dell’Urss - non può
permettersi il lusso di avere al vertice
due capi che si guardano a distanza
copiando, di volta in volta, azioni e
decisioni. La situazione è al limite della
tollerabilità istituzionale, con
situazioni a volte paradossali e ridicole
che rivelano, tra l’altro, lotte
concorrenziali tra le nomenklature che si
sono formate al seguito dei due “capi”. Da
un lato, infatti, c’è il “vecchio”
Presidente Vladimir Putin (classe 1952)
che ha dovuto mollare il Cremlino (dove si
era insediato nel marzo 2000) per puri
motivi di ordine costituzionale, ma
mettendosi poi al sicuro sulla poltrona di
primo ministro. Dall’altro c’è il suo
successore, il neo presidente Dmitrij
Medvedev (classe 1965), il giurista che si
è fatto le ossa nelle strutture economiche
del “Gasprom”.
Due, quindi, i “capi” carichi di
ambizioni. Ed è un fatto senza precedenti
che si verifica al vertice del Cremlino. E
così tutta la gestione geopolitica e
geoeconomica del Paese diviene un fatto di
“concorrenza”. Con un potere centrale che,
in questo contesto, teme sempre che si
possa creare una triade
franco-tedesca-britannica capace di
pilotare l’Europa. E tutto si verifica nel
momento in cui Mosca sta riscoprendo
l’autocrazia. Con un fatto estremamente
singolare. E cioè che le iniziative di
politica estera prendono sempre le mosse
dal Cremlino. Tanto che negli ultimi tempi
il compito del ministero degli Esteri si è
ridotto allo svolgimento di incarichi
assegnati dall’amministrazione
presidenziale per seguire, di conseguenza,
con la necessaria strumentazione tecnica e
documentaria, il processo dei negoziati e
delle relazioni interstatali.
Ed è chiaro che un Cremlino di questo tipo
- autocratico - si trova obbligato ad
avere un nemico per consolidare il
consenso interno. Di conseguenza - lo si è
visto in questo 2008 - la stampa russa
“indipendente” non ha fatto altro che
ripetere che l’Occidente è il nemico della
Russia. Tanto che si può anche arrivare a
sostenere che Mosca ha visto nelle
proposte di includere Ucraina e Georgia
nella Nato un complotto occidentale
antirusso. E il Cremlino si è trovato ad
incassare, in merito, i diktat di Parigi e
di Berlino senza poter reagire perché
ormai coinvolto nel processo generale di
globalizzazione democratica. Una
situazione, questa, che vede però la
Russia, nel suo interno, colpita proprio
da quella liberalizzazione (provocata dal
carattere "rivoluzionario" e "radicale"
della perestrojka) che favorisce, di
fatto, l'esplodere delle questioni
nazionali al suo interno evidenziando una
situazione economica destinata a rimanere
negli anni estremamente critica.
Ora cade sulla testa dei russi la mannaia
di una crisi accompagnata da licenziamenti
e mancato saldo dei salari. Tutto rischia
di far scendere la popolazione in piazza
ed erode la leadership di Putin-Medvedev.
E il Cremlino non riesce più a fornire
spiegazioni credibili: si prevede già un
deficit che imporrà a Mosca di richiedere
prestiti all'estero. "Se si renderanno
necessari, noi vi faremo ricorso, ma
ovviamente, la questione non riguarda il
Fondo Monetario Internazionale o altre
organizzazioni: a loro sicuramente non
ricorreremo" dice però Arkady Dvorkovich,
consigliere presidenziale all'Economia,
precisando che lo stesso sistema
finanziario mondiale versa in cattive
condizioni. Risposta indiretta al capo
della Banca mondiale in Russia: per quest'ultimo
se i prezzi del petrolio rimangono a 30
dollari al barile entro due anni, la
Russia dovrà nuovamente chiedere un
prestito da FMI e BM.
Il Cremlino, comunque, cerca ancora di
ostentare forza economica, ma a parlare
sono i numeri dopo un anno concluso al
peggio: la Borsa di Mosca è la più colpita
dalla crisi dei mercati nel 2008, con un
disastroso -76%. Mentre la situazione
sociale si fa critica e scatta l'allarme
rivolte popolari. Il ministero
dell'Interno è già in stato d’allerta e
teme una crescente ondata di proteste
provocate dalle misure impopolari
"connesse alla crisi" e "dalla
frustrazione della popolazione attiva per
il mancato pagamento degli stipendi o per
la minaccia di licenziamenti".
I primi accenni di rivolte, intanto, si
registrano a Mosca e a Vladivostok: nel
lontano Oriente 100 delle 500 persone
scese in piazza sono state fermate dalle
forze speciali Omon nel corso di una
protesta contro il rincaro del 200% delle
tariffe sulle automobili importate,
secondo le misure protezionistiche avviate
dal governo. Anche Mosca domenica era
presidiata dalla 'milizia' in più punti
del centro, per prevenire l'allargarsi
delle manifestazioni: circa 50 persone
sono scese in piazza, incuranti del gelo:
la colonnina di mercurio segnava meno 9
gradi centigradi. Piccoli numeri, ma
allarmanti in un Paese che da tempo si è
disabituato alla piazza.
Il tutto mentre lo spettro della
recessione ha già prodotto almeno 400mila
disoccupati in più a novembre, secondo i
dati ufficiali. Il numero dei senza lavoro
è salito dello 0,5% in un solo mese, dai
4,62 milioni di ottobre. E il malcontento
potrebbe trasformarsi in rivolte più serie
di quanto visto sinora. Non a caso il
premier Vladimir Putin ha ammesso il
problema e rivolgendosi al mondo del
"business" ha consigliato di "licenziare
soltanto come extrema ratio". Ma per
un'economia che cresceva al ritmo del 7%
l'anno, nell'ultimo quadriennio, l'attuale
contrazione ha provocato un brusco
risveglio. E le stime portano al 10% nel
prossimo anno la fascia dei disoccupati.
Un brutto Capodanno, quindi, per l’intera
Russia che conclude un altrettanto brutto
2008.
C’è poi, nell’agenda dell’anno passato, un
altro e grosso problema. E’ quello
dell’atteggiamento nei confronti della
transizione americana. Quel passaggio da
George W.Bush a Barack Obama che ha
ovviamente coinvolto il Cremlino in una
scelta di campo. Proprio perché il cambio
di vertice alla Casa Bianca ha provocato
ripercussioni sugli assetti politici ed
economici anche a Mosca. Con l’astro
nascente degli Usa che a 47 anni ha
impersonificato per l’establishment russo
non solo una “nuova generazione”, ma
soprattutto il cambiamento. Tanto da far
ricordare ai media locali quelle
aspirazioni evangeliche di un Martin
Luther King o le profezie civili di un
John Fitzgerald Kennedy.
Ora, quindi, c’è un’America diversa con la
quale il Cremlino si vedrà obbligata a
fare i conti. E in tal senso bisogna dare
atto a Putin (che di fatto controlla i
media) di aver mantenuto in tutta la
campagna elettorale americana un
atteggiamento pragmatico. Perché senza mai
parlare di cambiamenti epocali o mutazioni
strategiche il leader russo ha sempre
guardato ad Obama considerandolo un
partner con il quale dividere il futuro.
E, infine, sulla base di quanto osservato,
letto e rilevato a Mosca vediamo quale è
stato l’atteggiamento della popolazione
russa nei confronti del 2008 che ci
lasciamo alle spalle.
In questo campo non sono stati di grande
utilità i sondaggi sociologici relativi a
quello che è definito come
“l’atteggiamento della popolazione”.
Perché la gente - tale è la realtà -
risponde alle domande relative al mercato,
alla proprietà privata e al livello di
vita solo per il fatto che a porle sono i
sociologi e non perché tali domande siano
il frutto delle proprie ed esclusive
meditazioni-interrogazioni. C’è stata,
infatti, un’opinione pubblica locale che
nel 2008 si è interessata soprattutto
della collocazione della Russia nel
sistema dei rapporti internazionali. Con i
cittadini che sempre più spesso si sono
chiesti, smarriti e talvolta disperati:
quali sono le frontiere del paese? Chi è
un alleato e chi un nemico sulla scena
internazionale e nel vicino estero? E
quale è il vicino estero? Dove si può
andare senza visto e con i rubli e dove
occorrono il visto e la valuta locale? E
ancora: le frontiere della Comunità di
Stati indipendenti coincidono con la zona
del rublo?
Tutta questa mole di domande scaturisce
dal fatto che il processo di disgregazione
dell’impero e della formazione di nuovi
confini territoriali della Russia non si è
ancora concluso. Pensiamo alla Cecenia e
al Daghestan… E questo ancora una volta
vuol dire che in quel dicembre 1991 quando
fu ammainata la bandiera dell’Urss ed ebbe
fine tragicamente la sua storia, non ci
furono proteste e manifestazioni. E questa
è la dura realtà alla quale ci si deve
ancora abituare. Il trauma della perdita
dell’identità geopolitica emerse più
tardi. Con un’accentuazione particolare. E
cioè che tutto quel “crollo” è ancora
vissuto nella coscienza di massa più
acutamente del crollo dell’ideologia
marxista-leninista e del regime sovietico.
Si ripresentano così all’appuntamento del
2009 le cinque posizioni tradizionali
della Russia postsovietica. Quelle che si
riferiscono agli atteggiamenti
“neoimperialisti” cavalcati da Putin e da
Girinovskij; alle convinzioni panslaviste
che uniscono nazionalisti e comunisti, da
Ziuganov a Semanov; dalle tesi
eurasiatiche di Dugin, alle teorie
isolazioniste della Chiesa ortodossa e
alle posizioni regionaliste portate avanti
dai governatori della Siberia.
Si può dire, per concludere l’esame del
2008 russo, che a Mosca è sempre di moda
quel Clausewitz che considerava la
politica una "prosecuzione della guerra
con altri mezzi". E i mezzi della Russia
di Putin-Medvedev, per ora, sono comuni e
sono quelli di una realpolitik geopolitica
chiamata a tener conto del fatto che oggi
c’è un mondo più complesso e multipolare
di quello caratterizzato dal vecchio e
semplice confronto Est-Ovest. In pratica
la logica della contrapposizione
Mosca-Washington non funziona più o,
perlomeno, non funziona sempre. Bisognerà,
quindi, vedere - di conseguenza - sino a
che punto il duo che è al potere non si
dissolverà e la Russia tornerà ad avere un
solo capo. Putin, ad esempio.
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