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05/03/2007 Oltre un conflitto. Dimenticare l'Iraq? (Redazione, http://www.korazym.org)

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L’ultimo bollettino di morte dall’Iraq ha il volto di 18 poliziotti uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Non è cambiato nulla dal ritiro dell'Italia dal Paese. E mentre la politica latita, l'opinione pubblica dimentica.

L’ultimo bollettino di morte dall’Iraq ha il volto di 18 poliziotti uccisi con un colpo di pistola alla nuca. E' quanto mostra un video diffuso su internet da un gruppo legato ad Al Qaeda, il sedicente "Stato Islamico dell’Iraq". Un file di 3 minuti con giovani legati e proni in una fossa e un aguzzino che passa dietro ad ognuno, per l'esecuzione finale. E il terrore continua ad essere l’altra faccia del tentativo disperato di creare condizioni minime di stabilità. La morte dei poliziotti, come quella delle vittime innocenti delle autobombe, fa chiarezza (nel caso ce ne fosse ancora bisogno) sulla vera posta in gioco. Il conflitto iracheno del 2003 è stato senza dubbio una delle vicende più controverse, accompagnata da una componente ideologica che ha coinvolto i vari attori. Da una parte, chi credeva di condurre una lotta tra il bene e il male, dall’altra la schiera di chi si è opposto alla guerra, in nome di un pacifismo molto spesso a senso unico, pronto ad attaccare gli Stati Uniti sull’Iraq e a dimenticare tutti gli altri conflitti che coinvolgono popoli e regioni poco degni di attenzione.

Insieme agli attentati del dopoguerra e ai tagliatori di teste, si era diffusa addirittura l'idea secondo cui in Iraq operasse una vera e propria resistenza, impegnata a contrastare l’occupazione straniera, seppur con mezzi crudeli e anticonvenzionali. “La guerra sembra appena cominciata – scriveva Giorgio Bocca nel 2004 - e la resistenza irachena può contare su una grande quantità di armi, uomini e territori amici dove trovare rifugio”. Peccato che la cosiddetta resistenza abbia cominciato ben presto a diversificare i suoi obiettivi, colpendo non solo gli americani, ma anche gente comune, poliziotti, soldati iracheni, magistrati, giornalisti, sindaci: una strategia del terrore realizzata insieme alle forze straniere di Al Qaeda con l’obiettivo di destabilizzare il Paese. Il caos come strumento migliore per arginare le spinte di normalizzazione presenti in ampi strati della società, in quel 70% di persone che nonostante le minacce si è messa in coda per votare e lanciare al mondo un messaggio di speranza.

Certo, l’Iraq vive oggi una delle pagine più nere, anche perché la fine della dittatura ha reso visibili le contraddizioni di uno Stato inesistente come Nazione, diviso in fazioni e gruppi con legittime aspirazioni. Una situazione ancora più controversa per il ruolo dell'Occidente, diviso tra un fronte americano che intensifica l'impegno (pur con qualche crepa) per non perdere la faccia e un fronte europeo che si è defilato senza proporre vie di uscita credibili. Anche l'Italia, ritiratasi nel 2006 con l'impegno solenne a sostituire personale civile con quello militare rimane al palo e l'orizzonte d'azione non è più iracheno (al massimo afghano). Eppure, la politica può svolgere un ruolo, mettendo da parte un ideologismo di bassa lega, analizzando il terrore per quello che è, al di là di ogni giustificazionismo e presa di posizione romantica. Le critiche agli USA non c’entrano con la mattanza di Al Qaeda. Chi ha il coraggio di negarlo?

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