L’ultimo bollettino di morte dall’Iraq ha il volto
di 18 poliziotti uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Non è
cambiato nulla dal ritiro dell'Italia dal Paese. E mentre la politica
latita, l'opinione pubblica dimentica.
L’ultimo
bollettino di morte dall’Iraq ha il volto di 18 poliziotti uccisi con un
colpo di pistola alla nuca. E' quanto mostra un video diffuso su
internet da un gruppo legato ad Al Qaeda, il sedicente "Stato Islamico
dell’Iraq". Un file di 3 minuti con giovani legati e proni in una fossa
e un aguzzino che passa dietro ad ognuno, per l'esecuzione finale. E il
terrore continua ad essere l’altra faccia del tentativo disperato di
creare condizioni minime di stabilità. La morte dei poliziotti, come
quella delle vittime innocenti delle autobombe, fa chiarezza (nel caso
ce ne fosse ancora bisogno) sulla vera posta in gioco. Il conflitto
iracheno del 2003 è stato senza dubbio una delle vicende più
controverse, accompagnata da una componente ideologica che ha coinvolto
i vari attori. Da una parte, chi credeva di condurre una lotta tra il
bene e il male, dall’altra la schiera di chi si è opposto alla guerra,
in nome di un pacifismo molto spesso a senso unico, pronto ad attaccare
gli Stati Uniti sull’Iraq e a dimenticare tutti gli altri conflitti che
coinvolgono popoli e regioni poco degni di attenzione.
Insieme agli attentati del dopoguerra e ai tagliatori di teste, si era
diffusa addirittura l'idea secondo cui in Iraq operasse una vera e
propria resistenza, impegnata a contrastare l’occupazione straniera,
seppur con mezzi crudeli e anticonvenzionali. “La guerra sembra appena
cominciata – scriveva Giorgio Bocca nel 2004 - e la resistenza irachena
può contare su una grande quantità di armi, uomini e territori amici
dove trovare rifugio”. Peccato che la cosiddetta resistenza abbia
cominciato ben presto a diversificare i suoi obiettivi, colpendo non
solo gli americani, ma anche gente comune, poliziotti, soldati iracheni,
magistrati, giornalisti, sindaci: una strategia del terrore realizzata
insieme alle forze straniere di Al Qaeda con l’obiettivo di
destabilizzare il Paese. Il caos come strumento migliore per arginare le
spinte di normalizzazione presenti in ampi strati della società, in quel
70% di persone che nonostante le minacce si è messa in coda per votare e
lanciare al mondo un messaggio di speranza.
Certo, l’Iraq vive oggi una delle pagine più nere, anche perché la fine
della dittatura ha reso visibili le contraddizioni di uno Stato
inesistente come Nazione, diviso in fazioni e gruppi con legittime
aspirazioni. Una situazione ancora più controversa per il ruolo
dell'Occidente, diviso tra un fronte americano che intensifica l'impegno
(pur con qualche crepa) per non perdere la faccia e un fronte europeo
che si è defilato senza proporre vie di uscita credibili. Anche
l'Italia, ritiratasi nel 2006 con l'impegno solenne a sostituire
personale civile con quello militare rimane al palo e l'orizzonte
d'azione non è più iracheno (al massimo afghano). Eppure, la politica
può svolgere un ruolo, mettendo da parte un ideologismo di bassa lega,
analizzando il terrore per quello che è, al di là di ogni
giustificazionismo e presa di posizione romantica. Le critiche agli USA
non c’entrano con la mattanza di Al Qaeda. Chi ha il coraggio di
negarlo?
Archivio Iraq
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