Il centrosinistra ha dichiarato che, in caso di vittoria elettorale, intende
procedere all’immediato abbattimento di 5 punti di contribuzione. E
lavoce.info ha avviato un approfondimento sui contenuti e sulle implicazioni
di politica economica e sociale della questione.
Pare però utile aggiungere qualcosa su due aspetti, che ritengo cruciali per una
valutazione dell’ipotesi di riforma, anche in considerazione dei problemi
sollevati dagli interventi di
Tito Boeri e Pietro Garibaldi,
Claudio De Vincenti e Giuseppe Pisauro,
Sandro Gronchi le forme e l’entità della riduzione contributiva per i
dipendenti; la copertura della manovra e le implicazioni sul mercato del
lavoro.
Come e quanto
ridurre
Sul primo tema, lo stesso Romano Prodi in diverse occasioni ha indicato tra le
caratteristiche della misura una riduzione-abolizione dei rimanenti “oneri
impropri”, dei quali risulta difficile definire l’esatta composizione con
univocità di vedute. Appare tuttavia ragionevole ricomprendervi i contributi per
la disoccupazione, per la maternità e per la malattia, insieme a quelli, ormai
residuali, per la Cuaf (assegni familiari). Alcune di queste riduzioni
andrebbero opportunamente accompagnate da altre riforme, quali l’unificazione
del sostegno ai carichi familiari e dei trattamenti di disoccupazione.
Ciò che invece appare certo è che vi è ampio spazio per una riduzione
contributiva consistente che non tocchi le aspettative su entrate differite nel
tempo, quali i trattamenti pensionistici e il Tfr. Da ciò
discendono implicazioni di rilievo.
verrebbe alterato
(più di quanto non sia stato già fatto con la recente riforma previdenziale) il
meccanismo e la logica del sistema pensionistico contributivo ispirato a
capitalizzazione, che potrebbe comunque essere riformato e migliorato, ma senza
gli ulteriori vincoli di una riduzione dei contributi previdenziali.
In secondo luogo, ed è un aspetto poco dibattuto in questi giorni, verrebbe
corretta l’attuale anomalia della struttura del costo del lavoro
italiano: da un lato è decisamente regressiva, nel senso che grava molto
più sulle figure lavorative operaie a più basso reddito, dall’altro è “anti-competitiva”,
in quanto pesa maggiormente sui settori più esposti alla concorrenza
internazionale. In un certo senso, e paradossalmente, è come se la politica
economica italiana colpisse sotto un duplice profilo la competitività del nostro
sistema produttivo, gravando maggiormente sui settori più esposti e colpendo le
figure professionali più a rischio in un processo di globalizzazione.
Le voci del costo del lavoro appena citate (disoccupazione, maternità, malattia,
Cuaf) vanno dai quasi 5,8 punti degli operai delle costruzioni ai 5 punti degli
operai dell’industria, ai 2,3 punti dei dirigenti di quasi tutti i settori fino
agli zero punti dei dipendenti pubblici.
Appare allora possibile ipotizzare un intervento di riduzione di questi oneri
impropri che li fiscalizzi variabilmente “fino a” 5 punti, o anche oltre, fino
alla completa abolizione, senza costare, in termini di minori entrate
contributive, i 10 miliardi ipotizzati. Tanto più se si considera un
parziale ritorno di maggiori imposte sul reddito delle imprese, nella misura in
cui queste non dovessero adattare prezzi e retribuzioni ai minori oneri
contributivi. In un certo senso, una riforma di questo genere andrebbe incontro
anche alle esigenze di maggiore tutela per le posizioni a basso reddito esposte
da Boeri e De Vincenti-Pisauro, agendo solo sulla maggiore uniformità delle
aliquote contributive senza prevedere necessariamente trattamenti differenziati.
La copertura
Quanto alla copertura della manovra e al “riequilibrio” del peso degli oneri
sociali tra dipendenti e precari, con incremento delle aliquote contributive di
natura pensionistica delle figure lavorative diverse dal lavoro dipendente,
appare altrettanto denso di effetti.
Oggi le libere scelte da parte delle imprese di combinazione dei profili
lavorativi e degli stessi input (dipendenti, parasubordinati, servizi esterni da
autonomi) sono condizionate da una forte differenza dell’accantonamento
pensionistico contenuto nel “costo del fattore”: se per un dipendente si
versa complessivamente il 32,7 per cento della retribuzione lorda, per un
collaboratore l’aliquota crolla al 19 per cento circa del
compenso, mentre per un lavoratore autonomo (commerciante o artigiano) si deve
il 19 per cento circa del reddito, senza considerare le minori e differenziate
aliquote delle casse private dei professionisti. Ne derivano forti
differenziazioni anche in termini di aspettative pensionistiche e quota
del reddito destinabile alla meno tassata previdenza integrativa.
In sostanza, oggi lo Stato pare “incentivare”, a parità di altre condizioni,
l’uso di manodopera parasubordinata, alterando quello che sarebbe il naturale
mix legato alle strategie dell’impresa.
L’aumento dei contributi previdenziali di parasubordinati e autonomi, oggi a più
bassa aliquota, in associazione con una riduzione apprezzabile del costo del
lavoro dipendente, assolverebbe dunque a molteplici funzioni: “renderebbe
economicamente conveniente” un riequilibrio tra dipendenti e
parasubordinati, contribuirebbe alla copertura della manovra e affronterebbe per
tempo il grave problema del basso trattamento pensionistico che si prospetta per
il crescente numero di collaboratori, una questione non risolta dalle recenti
riforme della previdenza obbligatoria e complementare.
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