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29/03/2006 Cuneo Contributivo, le Implicazioni di una Riduzione (Fernando Di Nicola, www.lavoce.info)

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    Il centrosinistra ha dichiarato che, in caso di vittoria elettorale, intende procedere all’immediato abbattimento di 5 punti di contribuzione. E lavoce.info ha avviato un approfondimento sui contenuti e sulle implicazioni di politica economica e sociale della questione.

    Pare però utile aggiungere qualcosa su due aspetti, che ritengo cruciali per una valutazione dell’ipotesi di riforma, anche in considerazione dei problemi sollevati dagli interventi di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, Claudio De Vincenti e Giuseppe Pisauro, Sandro Gronchi le forme e l’entità della riduzione contributiva per i dipendenti; la copertura della manovra e le implicazioni sul mercato del lavoro.

    Come e quanto ridurre

    Sul primo tema, lo stesso Romano Prodi in diverse occasioni ha indicato tra le caratteristiche della misura una riduzione-abolizione dei rimanenti “oneri impropri”, dei quali risulta difficile definire l’esatta composizione con univocità di vedute. Appare tuttavia ragionevole ricomprendervi i contributi per la disoccupazione, per la maternità e per la malattia, insieme a quelli, ormai residuali, per la Cuaf (assegni familiari). Alcune di queste riduzioni andrebbero opportunamente accompagnate da altre riforme, quali l’unificazione del sostegno ai carichi familiari e dei trattamenti di disoccupazione.

    Ciò che invece appare certo è che vi è ampio spazio per una riduzione contributiva consistente che non tocchi le aspettative su entrate differite nel tempo, quali i trattamenti pensionistici e il Tfr. Da ciò discendono implicazioni di rilievo.

    verrebbe alterato (più di quanto non sia stato già fatto con la recente riforma previdenziale) il meccanismo e la logica del sistema pensionistico contributivo ispirato a capitalizzazione, che potrebbe comunque essere riformato e migliorato, ma senza gli ulteriori vincoli di una riduzione dei contributi previdenziali.

    In secondo luogo, ed è un aspetto poco dibattuto in questi giorni, verrebbe corretta l’attuale anomalia della struttura del costo del lavoro italiano: da un lato è decisamente regressiva, nel senso che grava molto più sulle figure lavorative operaie a più basso reddito, dall’altro è “anti-competitiva”, in quanto pesa maggiormente sui settori più esposti alla concorrenza internazionale. In un certo senso, e paradossalmente, è come se la politica economica italiana colpisse sotto un duplice profilo la competitività del nostro sistema produttivo, gravando maggiormente sui settori più esposti e colpendo le figure professionali più a rischio in un processo di globalizzazione.

    Le voci del costo del lavoro appena citate (disoccupazione, maternità, malattia, Cuaf) vanno dai quasi 5,8 punti degli operai delle costruzioni ai 5 punti degli operai dell’industria, ai 2,3 punti dei dirigenti di quasi tutti i settori fino agli zero punti dei dipendenti pubblici.

    Appare allora possibile ipotizzare un intervento di riduzione di questi oneri impropri che li fiscalizzi variabilmente “fino a” 5 punti, o anche oltre, fino alla completa abolizione, senza costare, in termini di minori entrate contributive, i 10 miliardi ipotizzati. Tanto più se si considera un parziale ritorno di maggiori imposte sul reddito delle imprese, nella misura in cui queste non dovessero adattare prezzi e retribuzioni ai minori oneri contributivi. In un certo senso, una riforma di questo genere andrebbe incontro anche alle esigenze di maggiore tutela per le posizioni a basso reddito esposte da Boeri e De Vincenti-Pisauro, agendo solo sulla maggiore uniformità delle aliquote contributive senza prevedere necessariamente trattamenti differenziati.

    La copertura

     

    Quanto alla copertura della manovra e al “riequilibrio” del peso degli oneri sociali tra dipendenti e precari, con incremento delle aliquote contributive di natura pensionistica delle figure lavorative diverse dal lavoro dipendente, appare altrettanto denso di effetti. 

    Oggi le libere scelte da parte delle imprese di combinazione dei profili lavorativi e degli stessi input (dipendenti, parasubordinati, servizi esterni da autonomi) sono condizionate da una forte differenza dell’accantonamento pensionistico contenuto nel “costo del fattore”: se per un dipendente si versa complessivamente il 32,7 per cento della retribuzione lorda, per un collaboratore l’aliquota crolla al 19 per cento circa del compenso, mentre per un lavoratore autonomo (commerciante o artigiano) si deve il 19 per cento circa del reddito, senza considerare le minori e differenziate aliquote delle casse private dei professionisti. Ne derivano forti differenziazioni anche in termini di aspettative pensionistiche e quota del reddito destinabile alla meno tassata previdenza integrativa.

    In sostanza, oggi lo Stato pare “incentivare”, a parità di altre condizioni, l’uso di manodopera parasubordinata, alterando quello che sarebbe il naturale mix legato alle strategie dell’impresa.

    L’aumento dei contributi previdenziali di parasubordinati e autonomi, oggi a più bassa aliquota, in associazione con una riduzione apprezzabile del costo del lavoro dipendente, assolverebbe dunque a molteplici funzioni: “renderebbe economicamente conveniente” un riequilibrio tra dipendenti e parasubordinati, contribuirebbe alla copertura della manovra e affronterebbe per tempo il grave problema del basso trattamento pensionistico che si prospetta per il crescente numero di collaboratori, una questione non risolta dalle recenti riforme della previdenza obbligatoria e complementare.


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