Una delle grandi azioni di
riforma degli ultimi dieci anni è stata l’applicazione del sistema
privatistico alla dirigenza pubblica italiana: il dirigente è pagato
bene, ma non è inamovibile; nella retribuzione vi è una parte fissa e una
variabile, in funzione dei risultati; vi è una netta separazione di
responsabilità tra politica e amministrazione. La retribuzione è stata resa
onnicomprensiva.
Gli obiettivi dichiarati delle riforme erano aprire l’amministrazione
pubblica a professionalità provenienti dal settore privato, spostare
l’interesse dei dirigenti dall’ottemperanza delle norme al conseguimento dei
risultati utili per i cittadini, rendere possibile una politica dei redditi,
una volta separata la questione delle posizioni apicali.
Dieci anni dopo…
Un decennio di applicazione delle riforme si conclude con un diffuso
senso di frustrazione.
La definizione, con contratto privato e individuale, delle retribuzioni dei
dirigenti generali è avvenuta con modalità tali da ricordare quella che,
negli anni Settanta, fu definita "giungla retributiva", e alla quale
si dovette provvedere con indagini parlamentari e profonde revisioni.
Gli elevati stipendi hanno costituito motivo di attrazione molto più per il
sottobosco della politica che per professionalità già sperimentate nella
gestione di imprese private. La fine dell’inamovibilità è stata stravolta da
uno spoils system esteso ben oltre la fisiologica cerchia degli stretti
corresponsabili della politica del ministro, ed è stata poi eliminata per
gli interni all’amministrazione. La corresponsione della quota variabile
della retribuzione è stata ancorata ad adempimenti meramente formali, che
anziché migliorare hanno appesantito l’azione amministrativa.
La forte impennata delle retribuzioni dei dirigenti è stata una causa
non minore della crescita del volume complessivo delle retribuzioni
pubbliche nell’ultimo quinquennio, con un tasso medio, e un tasso annuo,
costantemente superiore a quello del prodotto. L’effetto imitativo è stato
evidente, soprattutto per alcune strutture di gabinetto e di segreteria che
si sono dotate di regolamenti "adeguati", ma anche per gli altri dipendenti
pubblici. L’onnicomprensività ha consentito un forte aumento dei trattamenti
pensionistici.
Tre soluzioni possibili
Possiamo ora fare tre cose. Primo, portare a compimento le riforme, il
che significa realizzare le condizioni di contorno previste a corollario
della privatizzazione contrattuale. Ad esempio, si dovrebbero predisporre
adeguati strumenti di misurazione e di valutazione dell’azione
amministrativa. Secondo, tornare indietro, e porre regole di politica dei
redditi, come tetti alle retribuzioni dei dirigenti, tassi uniformi di
variazione, e ostacoli all’immissione di elementi esterni, come le quote
riservate. Terzo, porre regole di trasparenza,
come suggerisce il decalogo proposto da Stefano Micossi.
Sono del tutto a favore di questa terza soluzione, ma credo che anche la
prima debba essere perseguita.
Ci vuole trasparenza nelle procedure di nomina, il che non significa
concorsi, ma manifestazione di quale competenza sia richiesta, con quali
strumenti venga verificata, chi deve procedere alla selezione, in che tempi,
con quale pubblicità degli atti, con quali motivazioni. Significa definire
gli strumenti di valutazione per la conferma o la revoca delle funzioni.
Anche in questo caso senza appesantimenti che attizzino i contenziosi, ma
anche senza timore di dire con chiarezza chi ha fatto bene e chi no. La
retribuzione offerta deve essere nota. Si può però ammettere in qualche
caso, ben motivato, un limitato scostamento, da rendere comunque pubblico.
Oggi la Ragioneria generale fornisce solo dati aggregati, e in ritardo,
su questa componente delle spesa pubblica. Nella definizione delle
retribuzione offerta, l’organo responsabile dovrebbe anche dire se le
condizioni di bilancio di quel soggetto pubblico consentono la spesa, o se
vi siano risparmi che la rendono possibile.
L’importanza della valutazione
Ma bisogna anche rilanciare con determinazione i controlli interni e i
sistemi di valutazione.
Nella stagione caratterizzata dalla speranza di dare all’Italia un’amministrazione
efficiente e moderna se ne discusse a lungo, e furono poi introdotti nel
sistema, malgrado le resistenze della Ragioneria generale. Erano pensati per
consentire all’amministrazione uno sguardo critico su sé stessa, un luogo
dove cercare e trovare spazi di miglioramento dell’azione svolta a favore
dei cittadini, una sede per verificare se il "valore" del prodotto
giustificasse la "moneta" spesa, e se questo rapporto fosse, e come,
migliorabile. Tutto questo era coerente con l’idea che il dirigente avesse
maggiori responsabilità, maggiore autonomia, maggiori remunerazioni.
Anche su questo registriamo un insuccesso .Oggi, abbiamo solo un insieme di
passaggi formali, che vengono utilizzati prevalentemente per dire che
tutto è regolare, che tutto è fatto nel migliore dei modi, o comunque come
impone la legge o la prassi esistente, che tutti sono stati bravi. Certo,
dobbiamo considerare che l’importanza del cambiamento richiede adeguati
tempi di maturazione. Ma serve un rilancio di tensione, di motivazione,
accompagnato da nuovi meccanismi premiali che siano capaci di meglio
garantire il raggiungimento dei risultati desiderati. Ad esempio, imponendo
che solo una percentuale dei dirigenti ottenga la valutazione più positiva
(senza introdurre meccanismi di rotazione), o imponendo all’amministrazione
di fare analisi e studi prima di indicare gli obbiettivi posti oggi in modo
vago e generico
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