Quando, il 5
maggio scorso, abbiamo aperto il dibattito su tre proposte di riforma della
fase di accesso al lavoro stabile regolare (presentate
rispettivamente da
Tito Boeri e Pietro Garibaldi,
Marco Leonardi e Massimo Pallini,
Andrea Ichino), il nostro intento era innanzitutto quello di far uscire
il dibattito su questa materia dalla palude delle contrapposizioni
ideologiche, farlo scendere sul terreno del ragionamento pragmatico,
ancorato per quanto possibile ai dati dei quali su questo terreno si
dispone. Il risultato è stato positivo, al di là delle nostre attese più
ottimistiche: sia per lo sforzo di comprendersi reciprocamente che si è
espresso nei numerosissimi interventi e commenti ospitati da questo sito,
pur molto diversi tra loro nell’orientamento e nell’impianto argomentativo;
sia – e non secondariamente - per la partecipazione a questo stesso
dibattito che si è registrata nella stampa quotidiana, soprattutto su
Liberazione e sul Manifesto, con alcuni interventi davvero
esemplari per lo stile pacato e il rigore concettuale (auspichiamo che il
confronto aperto degli argomenti e l’intreccio della discussione tra
lavoce.info e quelle testate si sviluppino allo stesso modo anche su
altre materie).
Argomenti tabù e certezze scientifiche
Sul piano sostanziale, con l’apertura di questo dibattito
abbiamo, per parte nostra, inteso ipotizzare che per combattere il lavoro
precario, come trappola in cui i lavoratori giovani e non più giovani
rischiano di restare impigliati, possa essere utile, sì, ridurre
all’essenziale la tipologia dei contratti di lavoro disboscandone la giungla
attuale, ma occorra soprattutto adattare la disciplina del rapporto di
lavoro ordinario in modo da garantire una maggiore fluidità nella
fase di accesso al lavoro stabile, per ciascun lavoratore una
maggiore facilità di trovare – anche attraverso più tentativi - il posto
dove la sua prestazione è meglio valorizzata; e, simmetricamente, per
ciascuna azienda una maggiore facilità di trovare il lavoratore più
adatto alle proprie esigenze.
Su questo punto – al di là dei consensi e dei dissensi che si sono espressi
nel dibattito sulle singole proposte di riforma – resta invece
un’impressionante afasia delle forze politiche, di quelle oggi al governo
come di quelle oggi all’opposizione; e, su entrambi i versanti, anche di
quelle meno sensibili ai veti di parte sindacale. Quasi che il trauma del
durissimo scontro politico su questo tema consumatosi nel corso della
passata legislatura, insanguinato dall’assassinio di Marco Biagi, abbia
ancor oggi il potere di relegare off limits ogni possibile discorso
sul tema della disciplina del licenziamento.
Il nostro dibattito è servito almeno a questo: a un riconoscimento
reciproco, tra i sostenitori delle tesi opposte, che su alcuni punti di
importanza decisiva non disponiamo delle evidenze empiriche univoche
necessarie per individuare la soluzione migliore con certezza
scientifica. Ma questo è vero in entrambi i sensi: non disponiamo della
dimostrazione inconfutabile che staremmo complessivamente meglio con una
disciplina meno rigida, ma neppure dell’evidenza univoca che staremmo
complessivamente peggio. Né, tanto meno, può darsi per dimostrato che la
disciplina attuale sia la migliore possibile tra quelle più protettive, o
che il massimo di protezione della stabilità corrisponda al massimo di
benessere per i lavoratori. Così stando le cose, la sola cosa sicuramente
irragionevole e dannosa è che il paese si inibisca di discutere di una
riforma possibile: l’argomento non può essere tabù. Viceversa, vi sono molti
buoni motivi per ritenere che – proprio per l’assenza di qualsiasi certezza
- il nostro paese abbia bisogno oggi più che mai di una riapertura serena e
pragmatica di questo discorso sul piano politico-legislativo.
Una questione di equità
Ne ha bisogno, in primo luogo, per una questione di
equità nella distribuzione delle opportunità del lavoro regolare e stabile:
non è affatto irragionevole ritenere (anche se le evidenze empiriche
disponibili al riguardo non sono definitive e indiscutibili) che una parte
consistente del precariato di oggi, e anche del difetto del nostro tasso di
occupazione, sia proprio una conseguenza del tasso elevato di rigidità
della protezione del lavoro regolare nel settore pubblico e in quello
delle imprese medio-grandi. E che un regime uguale per tutti di accesso
graduale al lavoro stabile ridurrebbe gli effetti di intrappolamento di
alcuni in forme di lavoro precario e aprirebbe per tutti maggiori e migliori
opportunità di incontro fra domanda e offerta di lavoro.
Per altro verso, è questione di equità anche quella del lavoratore di ruolo
iperprotetto contro il rischio di essere sostituito dal precario o
disoccupato più abile e più disponibile a impegnarsi.
Qui entra in gioco anche l’efficienza produttiva del sistema
nel suo insieme; e qui i risultati della ricerca empirica almeno una
certezza ce la danno: è ragionevolmente indiscutibile che a una protezione
molto elevata della stabilità del posto di lavoro corrisponde, in generale,
a) una più imperfetta allocazione delle risorse umane dal
punto di vista delle esigenze della struttura produttiva, b) una
riduzione dell’incentivo per i singoli lavoratori a impegnarsi per aumentare
e migliorare la qualità della propria prestazione (basti pensare ai livelli
talora drammatici di inefficienza del nostro sistema dell’istruzione
pubblica, privo di incentivi e incentrato in tutti i suoi comparti pressoché
esclusivamente sulla protezione del personale docente di ruolo e non sugli
interessi degli studenti).
In una situazione come quella che vede oggi il nostro paese, oltre che
afflitto da un debito pubblico colossale, minacciato anche da una grave
perdita di competitività sul terreno internazionale e quindi alla disperata
ricerca di ogni possibile misura che consenta un recupero su questo terreno,
non pare ragionevole precludersi a priori la scelta di un aumento
dell’incentivo all’impegno personale, conseguito non soltanto
attraverso un aumento della parte della retribuzione variabile in relazione
alla performance, ma anche attraverso una nuova disciplina del licenziamento
per motivi economico-organizzativi, che nell’amministrazione pubblica
innanzitutto, incominciando dall’università e dalla scuola, ma anche nelle
aziende private medio-grandi, consenta il migliore adattamento degli
organici alle esigenze effettive, accollando per intero a chi licenzia il
costo di un indennizzo adeguato della perdita del posto e di una
efficace assistenza del lavoratore nel reperimento di una nuova occupazione.
Sarebbe una riforma senza costi e anzi con qualche beneficio per le esauste
casse dello Stato; e avrebbe un effetto tonificante sull’intero tessuto
produttivo del paese.
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