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04/09/2006 Considerazioni (quasi) Conclusive su Lavoro Precario e Stabilità (Pietro Ichino, www.lavoce.info)

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    Quando, il 5 maggio scorso, abbiamo aperto il dibattito su tre proposte di riforma della fase di accesso al lavoro stabile regolare (presentate rispettivamente da Tito Boeri e Pietro Garibaldi, Marco Leonardi e Massimo Pallini, Andrea Ichino), il nostro intento era innanzitutto quello di far uscire il dibattito su questa materia dalla palude delle contrapposizioni ideologiche, farlo scendere sul terreno del ragionamento pragmatico, ancorato per quanto possibile ai dati dei quali su questo terreno si dispone. Il risultato è stato positivo, al di là delle nostre attese più ottimistiche: sia per lo sforzo di comprendersi reciprocamente che si è espresso nei numerosissimi interventi e commenti ospitati da questo sito, pur molto diversi tra loro nell’orientamento e nell’impianto argomentativo; sia – e non secondariamente - per la partecipazione a questo stesso dibattito che si è registrata nella stampa quotidiana, soprattutto su Liberazione e sul Manifesto, con alcuni interventi davvero esemplari per lo stile pacato e il rigore concettuale (auspichiamo che il confronto aperto degli argomenti e l’intreccio della discussione tra lavoce.info e quelle testate si sviluppino allo stesso modo anche su altre materie).

    Argomenti tabù e certezze scientifiche

    Sul piano sostanziale, con l’apertura di questo dibattito abbiamo, per parte nostra, inteso ipotizzare che per combattere il lavoro precario, come trappola in cui i lavoratori giovani e non più giovani rischiano di restare impigliati, possa essere utile, sì, ridurre all’essenziale la tipologia dei contratti di lavoro disboscandone la giungla attuale, ma occorra soprattutto adattare la disciplina del rapporto di lavoro ordinario in modo da garantire una maggiore fluidità nella fase di accesso al lavoro stabile, per ciascun lavoratore una maggiore facilità di trovare – anche attraverso più tentativi - il posto dove la sua prestazione è meglio valorizzata; e, simmetricamente, per ciascuna azienda una maggiore facilità di trovare il lavoratore più adatto alle proprie esigenze.
    Su questo punto – al di là dei consensi e dei dissensi che si sono espressi nel dibattito sulle singole proposte di riforma – resta invece un’impressionante afasia delle forze politiche, di quelle oggi al governo come di quelle oggi all’opposizione; e, su entrambi i versanti, anche di quelle meno sensibili ai veti di parte sindacale. Quasi che il trauma del durissimo scontro politico su questo tema consumatosi nel corso della passata legislatura, insanguinato dall’assassinio di Marco Biagi, abbia ancor oggi il potere di relegare off limits ogni possibile discorso sul tema della disciplina del licenziamento.
    Il nostro dibattito è servito almeno a questo: a un riconoscimento reciproco, tra i sostenitori delle tesi opposte, che su alcuni punti di importanza decisiva non disponiamo delle evidenze empiriche univoche necessarie per individuare la soluzione migliore con certezza scientifica. Ma questo è vero in entrambi i sensi: non disponiamo della dimostrazione inconfutabile che staremmo complessivamente meglio con una disciplina meno rigida, ma neppure dell’evidenza univoca che staremmo complessivamente peggio. Né, tanto meno, può darsi per dimostrato che la disciplina attuale sia la migliore possibile tra quelle più protettive, o che il massimo di protezione della stabilità corrisponda al massimo di benessere per i lavoratori. Così stando le cose, la sola cosa sicuramente irragionevole e dannosa è che il paese si inibisca di discutere di una riforma possibile: l’argomento non può essere tabù. Viceversa, vi sono molti buoni motivi per ritenere che – proprio per l’assenza di qualsiasi certezza - il nostro paese abbia bisogno oggi più che mai di una riapertura serena e pragmatica di questo discorso sul piano politico-legislativo.

    Una questione di equità

    Ne ha bisogno, in primo luogo, per una questione di equità nella distribuzione delle opportunità del lavoro regolare e stabile: non è affatto irragionevole ritenere (anche se le evidenze empiriche disponibili al riguardo non sono definitive e indiscutibili) che una parte consistente del precariato di oggi, e anche del difetto del nostro tasso di occupazione, sia proprio una conseguenza del tasso elevato di rigidità della protezione del lavoro regolare nel settore pubblico e in quello delle imprese medio-grandi. E che un regime uguale per tutti di accesso graduale al lavoro stabile ridurrebbe gli effetti di intrappolamento di alcuni in forme di lavoro precario e aprirebbe per tutti maggiori e migliori opportunità di incontro fra domanda e offerta di lavoro.
    Per altro verso, è questione di equità anche quella del lavoratore di ruolo iperprotetto contro il rischio di essere sostituito dal precario o disoccupato più abile e più disponibile a impegnarsi.
    Qui entra in gioco anche l’efficienza produttiva del sistema nel suo insieme; e qui i risultati della ricerca empirica almeno una certezza ce la danno: è ragionevolmente indiscutibile che a una protezione molto elevata della stabilità del posto di lavoro corrisponde, in generale, a) una più imperfetta allocazione delle risorse umane dal punto di vista delle esigenze della struttura produttiva, b) una riduzione dell’incentivo per i singoli lavoratori a impegnarsi per aumentare e migliorare la qualità della propria prestazione (basti pensare ai livelli talora drammatici di inefficienza del nostro sistema dell’istruzione pubblica, privo di incentivi e incentrato in tutti i suoi comparti pressoché esclusivamente sulla protezione del personale docente di ruolo e non sugli interessi degli studenti).
    In una situazione come quella che vede oggi il nostro paese, oltre che afflitto da un debito pubblico colossale, minacciato anche da una grave perdita di competitività sul terreno internazionale e quindi alla disperata ricerca di ogni possibile misura che consenta un recupero su questo terreno, non pare ragionevole precludersi a priori la scelta di un aumento dell’incentivo all’impegno personale, conseguito non soltanto attraverso un aumento della parte della retribuzione variabile in relazione alla performance, ma anche attraverso una nuova disciplina del licenziamento per motivi economico-organizzativi, che nell’amministrazione pubblica innanzitutto, incominciando dall’università e dalla scuola, ma anche nelle aziende private medio-grandi, consenta il migliore adattamento degli organici alle esigenze effettive, accollando per intero a chi licenzia il costo di un indennizzo adeguato della perdita del posto e di una efficace assistenza del lavoratore nel reperimento di una nuova occupazione.
    Sarebbe una riforma senza costi e anzi con qualche beneficio per le esauste casse dello Stato; e avrebbe un effetto tonificante sull’intero tessuto produttivo del paese.


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