Da icona del
fronte laico in tema di diritti civili a campione della lotta alla
precarietà? È questo il destino che attende il premier spagnolo Zapatero?
Sembrerebbe di sì, leggendo i commenti che, prima della pausa estiva, hanno
accolto in Italia l’accordo siglato a Madrid tra governo e parti sociali.
Tanto che la nostra maggioranza di governo
ha subito iniziato a discutere
di modi per seguire la via indicata dalla Spagna. Per capire se quel
pacchetto contenga ricette utili per il nostro paese, dobbiamo prima
chiederci: in che misura si possono confrontare i mercati del lavoro di
Italia e Spagna? Quali interventi concreti compongono la ricetta Zapatero
per la lotta alla precarietà?
Spagna e Italia, un confronto possibile?
Dopo la liberalizzazione del 1984, il mercato del lavoro
spagnolo si è distinto per un vero e proprio boom del lavoro temporaneo.
I lavoratori a tempo determinato sono presto diventati un terzo di tutti i
dipendenti, rimanendo intorno a quel livello anche dopo una serie di riforme
che negli anni Novanta hanno cercato di ridurre la precarietà. Secondo le
ultime rilevazioni, i temporanei sono il 33 per cento dei lavoratori
dipendenti e il 27 per cento degli occupati.
Negli anni Novanta, gli spagnoli hanno cercato di ridurre l’incidenza dei
contratti a termine sia con interventi "bastone" (restringendone le modalità
d’utilizzo) sia con interventi "carota" (riducendo i costi di licenziamento
dei contratti permanenti). In particolare, nel 1997, è stato introdotto il "contrato
de fomento de la contratación indefinida", un contratto a tempo, associato a
una buonuscita ridotta in caso di licenziamento immotivato e
riservato a particolari categorie della forza lavoro (giovani, donne,
disoccupati di lunga durata, eccetera). (1) Dopodichè si è assistito
a un’effettiva riduzione dell’utilizzo del lavoro temporaneo nel settore
privato, anche se la sua quota nell’intera economia è rimasta inalterata a
causa dell’aumentata precarietà nel settore pubblico. (2) Nello
stesso tempo, la disoccupazione è scesa al di sotto della media europea (9,1
per cento), e i tassi di attività e occupazione hanno continuato a crescere.
Anche l’Italia, negli ultimi decenni, ha reso più facile il ricorso
al lavoro temporaneo. Ma rimane un puzzle empirico il fatto che da noi la
quota dei contratti a termine non abbia fatto registrare un boom di
dimensioni spagnole, in presenza di un regime di protezione del lavoro
permanente altrettanto rigido. (3) Nello stesso tempo, anche nel
nostro paese gli indicatori del mercato del lavoro hanno avuto andamenti
positivi, con una disoccupazione ormai scesa a quota 8 per cento.
Tuttavia, il tasso di attività (occupazione) della popolazione in età
lavorativa resta al 62,9 per cento (57,8 per cento) in Italia, contro il
71,5 per cento (65 per cento) della Spagna. Per le donne, il tasso di
attività (occupazione) è pari al 51,2 per cento (45,7 per cento) in Italia,
contro il 60,4 per cento (53 per cento) della Spagna. Un confronto non
proprio lusinghiero per il nostro paese.
La ricetta Zapatero
L’accordo spagnolo
per l’incentivazione del lavoro stabile, firmato il 9 maggio, si articola in
tre capitoli. Il primo si propone una terapia d’urto contro la precarietà.
Ed è composto a sua volta da tre interventi.
1. Stimolo alla stabilizzazione dei lavoratori temporanei attraverso una
momentanea diminuzione dei costi di licenziamento per il tempo
indeterminato: prima del 2008, tutti i contratti temporanei, anche quelli
con una durata di pochi giorni, potranno essere trasformati in contratti
permanenti con buonuscita ridotta ("contrato de fomento").
2. Stimolo alla stabilizzazione dei lavoratori temporanei attraverso
incentivi monetari: i contratti temporanei convertiti in permanenti e
quelli permanenti offerti a certe categorie (tra cui le donne che rientrano
nel mercato del lavoro dopo cinque anni di inattività) potranno godere di
consistenti risparmi contributivi entro il 2007.
3. Divieto di "incatenamento" di contratti temporanei
successivi: un lavoratore che ha firmato con la stessa impresa (e per lo
stesso tipo di lavoro) due o più contratti per una durata complessiva
superiore ai 24 mesi (nell’arco di 30 mesi) deve essere assunto in forma
permanente.
Il secondo capitolo dell’accordo prevede una serie di
tagli al cuneo fiscale: riduzione di 0,5 punti percentuali dei
contributi dei datori per l’assicurazione contro la disoccupazione (solo per
i nuovi contratti a tempo indeterminato); eliminazione del sovrappiù di
contribuzione per le società fornitrici di lavoro temporaneo (solo per i
contratti a orario pieno); ulteriore riduzione generalizzata di 0,2 punti.
Il terzo capitolo dell’accordo, infine, si occupa di welfare e
servizi per l’impiego.
Che risultati è lecito attendersi dalla ricetta Zapatero? Gli studi
disponibili sugli interventi degli anni Novanta non forniscono risposte
univoche, anche se gli incentivi monetari sembrano aver avuto un’efficacia
maggiore rispetto alla riduzione dei costi di licenziamento. E solo alcuni
settori produttivi hanno risposto agli incentivi di qualsiasi tipo. Nel
complesso, tuttavia, è probabile che la ricetta Zapatero finirà per
incrementare le stabilizzazioni dei contratti temporanei nel breve periodo,
soprattutto nel settore privato, anche se è bene non aspettarsi effetti
enormi. È possibile che la quota del lavoro temporaneo scenda al di sotto
della mitica soglia del 30 per cento nell’arco di due o tre anni.
Quali insegnamenti per l’Italia?
Innanzitutto, è possibile trarre due insegnamenti da
quello che governo e parti sociali spagnole non hanno fatto: non hanno
previsto un preciso protocollo di monitoraggio degli strumenti
approvati (anche di fronte a strumenti già utilizzati in passato); non hanno
previsto un allargamento della rete di welfare con chiari impegni di
spesa. In Italia, qualsiasi riforma che voglia affrontare il nodo della
precarietà non potrà ignorare questi due elementi.
Ma dalla ricetta Zapatero si può ricavare anche un insegnamento positivo:
qualsiasi intervento diretto a favorire la stabilizzazione dei lavoratori a
termine deve dosare "bastone" e "carota". E tra gli interventi "carota" deve
essere presa in considerazione l’idea di ridurre, in maniera circoscritta, i
costi di licenziamento per il tempo indeterminato. Questo insegnamento
potrebbe suggerire una strategia di riforma in due mosse.
Prima mossa. Sfoltire la selva di contratti atipici oggi esistenti,
per individuare due sole tipologie di lavoro temporaneo: 1) poche forme
contrattuali che vadano incontro a esigenze di mera flessibilità
organizzativa o produttiva di breve periodo (interinali, stagionali), al cui
utilizzo siano posti limiti stringenti rispetto al totale della manodopera
aziendale; 2) un unico contratto a termine con maggiori garanzie, a partire
da una durata minima di tre anni, come il contratto temporaneo limitato (Ctl)
proposto da
Andrea Ichino.
Seconda mossa. Incentivare la trasformazione dei Ctl attraverso la
possibilità di convertirli in contratti a tempo indeterminato con costi di
licenziamento ridotti (per esempio, prevedendo una buonuscita modulata
sull’anzianità di servizio, fatto salvo l’obbligo di reintegro per i casi di
discriminazione). Il tutto per un periodo limitato di qualche anno, dopo il
quale governo e parti sociali tornano a confrontarsi sulla base di un
preciso monitoraggio della riforma secondo un protocollo definito ex ante.
Con una riforma di questo tipo, accompagnata da una sostanziale estensione
degli ammortizzatori sociali per i lavoratori flessibili, l’Italia
potrebbe cercare di importare il meglio dell’esperienza spagnola senza
passare attraverso la stessa esplosione di contratti a termine, in modo da
spostarsi subito nel punto d’equilibrio verso il quale Zapatero sta cercando
di indirizzare il suo paese.
(1) Nel caso di un normale contratto a tempo indeterminato, se il
licenziamento è considerato "motivato" dal giudice, il lavoratore ha diritto
a un’indennità pari a 20 giorni di salario per ogni anno di anzianità di
servizio (per una buonuscita massima di un anno). Se il licenziamento è
considerato "immotivato", il datore può scegliere tra il reintegro del
lavoratore o il pagamento di un’indennità pari a 45 giorni di salario per
ogni anno di anzianità (per una buonuscita massima di quattro anni). Se il
licenziamento è considerato "nullo", il datore ha l’obbligo di reintegro,
come nel caso dell’articolo 18 in Italia. Con il "contrato de fomento", si
riduce l’indennità per licenziamenti immotivati: è pari a 33 giorni di
salario per ogni anno di anzianità (anziché 45) e con un valore massimo di
due anni (anziché quattro).
(2) Si veda Dolado J.J., Garcia-Serrano C. e Jimeno J.F. (2002), "Drawing
Lessons from the Boom of Temporary Jobs in Spain", Economic Journal,
112, pp.270-295.
(3) La quota dei lavoratori temporanei sul totale dei dipendenti è
passata dal 12 per cento del 1997 al 14 per cento del 2003 (dati Istat), a
cui si devono aggiungere i co.co.co nascosti tra le pieghe del lavoro
autonomo. L’utilizzo delle nuove tipologie introdotte dalla Legge Biagi è
ancora quantitativamente modesto (si veda
l’intervento di Guelfi e Trento
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