DALL' INIZIO DEL 2007 AD ORA, PER LAVORO, CI SONO
STATI: 1050 morti
1050378 infortuni 26259 invalidi
La foto qui accanto è quella di Giuseppe Demasi, 26
anni. Era l’ultimo dei sette operai della ThyssenKrupp di
Torino usciti semicarbonizzati dal rogo della linea 5
dell’acciaieria tedesca. Proprio venerdì gli operai
dell'acciaieria avevano organizzato una fiaccolata di
solidarietà per il loro compagno che stava lottando fra la
vita e la morte e per ricordare le altre sei vittime:
Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno
Santino, Rocco Marzo e Rosario Rodinò: sette partigiani
del lavoro. Sette vite spezzate. Sette morti annunciate da
sistemi di sicurezza inadeguati. Sette famiglie che li
piangono e non riescono darsi pace. Con la morte di
Giuseppe fanno mille e cinquanta le vite perse sui posti
di lavoro. Donne e uomini, italiani e stranieri che non
festeggeranno più nessun nuovo anno, che non cresceranno,
che non vedranno crescere i loro figli, che non vivranno
una vita di coppia, che non arriveranno alla pensione, che
non produrranno reddito per sé e per la società. Stanotte
abbiamo deciso anche noi di spegnere simbolicamente le
luci di Altrenotizie su questo Capodanno in cui,
ci sembra, non c’è nulla da festeggiare. Ci associamo a
tutti quei comuni italiani – e sono tanti, da una Torino a
lutto fino alla Basilica Francescana di Assisi - che hanno
deciso di unirsi all’iniziativa di Italo Carones, sindaco
di Oriolo Romano (provincia di Viterbo), per scuotere le
coscienze su questa intollerabile strage quotidiana: a
mezzanotte spegniamo le luci per ricordare i nostri,
tanti, troppi, morti sul lavoro. Ponendoci un obiettivo:
continuare dal primo all’ultimo minuto del 2008 la nostra
lotta contro le morti bianche. E se non basterà,
continueremo.
Il 2007 è stato l’anno della moratoria sulla pena di morte
il 2008 dovrà essere l’anno della lotta senza quartiere
per tentare di bloccare gli scatti di quel maledetto
contatore che registra il numero dei morti e dei feriti.
L’anno si è concluso con la settima vittima del rogo di
Torino. A loro e alle loro famiglie e a tutti quelli che
sono morti sul lavoro e di lavoro, vogliamo dedicare
l’iniziativa di questa notte. Il 2008 sarà l’anno nel
quale saranno ricordati il sessantesimo della costituzione
e della dichiarazione dei diritti umani dell’ONU. Sarà
bene non dimenticare che, tra i diritti fondamentali , c’è
anche quello ad un lavoro dignitoso, ben retribuito,
rispettoso della dignità della persona.
E non è degno di un paese civile aggiornare, giorno dopo
giorno, ora dopo ora, questo elenco sterminato di vite
inutilmente stroncate dalla mancanza di sicurezza, da
scellerate scelte d’impresa che privilegiano il profitto e
per i quali questi morti fanno solo parte del gioco ed
hanno un valore minimo rispetto alla macina infernale
delle regole del mercato. L’obiettivo di fermare la falce
bianca non è ambizioso; è doveroso. E uno dei modi che ci
proponiamo di perseguire è quello di tenere alta la soglia
dell’attenzione collettiva, non solo delle istituzioni a
cui spetta il dovere di emanare leggi che prevedano la
massima sorveglianza e il massimo della pena per chi viola
le minime, fondamentali, regole di sicurezza sui posti di
lavoro, ma anche quelle della società civile, dei
cittadini comuni, dei giovani.
Quando tutto intorno sembra congiurare verso la lenta
dissoluzione dell’impegno e della memoria di chi ha perso
la vita, quando si fatica a credere che un giorno quel
contatore di vite spezzate possa azzerarsi, è quello il
momento in cui si deve sfoderare il coraggio. Partendo
dalle piccole cose, dal richiamare un operaio che si vede
su un’impalcatura e mettersi il casco in testa o a
denunciare quei padroni che obbligano a turni massacrati
sotto il ricatto del licenziamento. E’ inutile ricordarlo
ancora, ma se questi ultimi sette operai della
Thyssenkrupp si fossero rifiutati di lavorare 14 ore per
chiudere una commessa di un imprenditore privo di
scrupoli, forse stanotte avrebbero brindato con noi
all’anno nuovo.
Non si può sperare nel rispetto delle regole se noi, per
primi, non lo imponiamo ai datori di lavoro. Non possiamo
chiedere dignità se sottostiamo ai ricatti. Non possiamo
rivendicare una giusta retribuzione se consentiamo lo
sfruttamento incondizionato delle fasce più deboli della
nostra società lavorativa, cioè gli immigrati, le donne, i
giovani. E’ bene rovesciare il concetto che gli
imprenditori hanno sedimentato in questi anni di
recessione, per puro tornaconto personale: non siamo noi
che dobbiamo “ringraziarli” perché ci fanno lavorare, sono
loro che devono considerarci la risorsa preziosa che
consente alle loro aziende di prosperare. Torniamo,
dunque, a mettere al centro di questa rivoluzione il
lavoratore, la sua vita, le sue aspirazioni, il suo
futuro. Torniamo ad essere protagonisti e non sottoposti.
Torniamo ad essere professionisti e non numeri di
matricola. Per evitare che poi si trasformino in altri
numeri. E vadano ad aggiornare il contatore. A quel punto,
la colpa sarebbe solo nostra.
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