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27/01/2007 Kapuacinski, addio a uno dei grandi inviati (Agnese Licata, http://www.altrenotizie.org)

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Ryszard Kapuściński, dopo aver trascorso una vita viaggiando da una nazione all’altra, da un continente all’altro, con la sola compagnia di una macchina fotografica, un taccuino e una penna, è morto martedì notte nella sua terra, la Polonia, in un ospedale di Varsavia. Non aveva fatto una scelta facile nella sua lunga carriera da giornalista, Kapuściński. Aveva scelto di dare voce a chi voce non ha, a quei milioni di poveri che affollano e hanno sempre affollato il Terzo Mondo. Aveva preferito essere testimone del loro dramma anonimo e silenzioso, piuttosto che parlare del ricco e invasivo Occidente. “ …i poveri, di solito, stanno zitti”, aveva scritto. “La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. I poveri insorgono solo quando sperano di poter cambiare qualcosa. Di solito si sbagliano, ma solo la speranza è capace d’indurre la gente ad agire. La principale caratteristica di un mondo perennemente in miseria è l’assenza di speranza”. E così, per raccontare eventi storici come le guerre africane d’indipendenza, la fine dell’impero sovietico, la rivoluzione iraniana, Kapuściński partiva sempre dalla gente comune, con la quale condivideva, spalla a spalla, un pezzo d’esistenza. Non era certo un frequentatore di alberghi internazionali, il giornalista polacco.

Ai tanti che gli chiedevano il perché di una scelta così difficile e pericolosa, rispondeva: “Perché sono scrittore? Perché tante volte ho rischiato la vita e sono stato a un passo dalla morte? Per dimostrare l’esistenza del fato? Per guadagnarmi lo stipendio? Il mio lavoro è una vocazione, una missione. Non mi sarei esposto a rischi del genere se non avessi sentito che si trattava di qualcosa che riguardava la storia e noi stessi, qualcosa di talmente importante da costringermi ad affrontarli”. Una missione che Kapuściński ha portato avanti ininterrottamente per oltre cinquant’anni: con il lavoro quotidiano in un’agenzia di stampa polacca (la Pap), ma anche, e soprattutto, attraverso i suoi numerosi libri-reportage. E saranno proprio pagine come quelle di “Ebano”, “Imperium”, “Il Negus”, venerate da migliaia di aspiranti giornalisti di tutto il mondo, a non far spegnere il suo ricordo.

Anche il paese d’origine di Ryszard Kapuściński, Pińsk, ha una vita “vagabonda”. Nel 1932, quando vi nasce, fa parte della Polessia, nella Polonia Orientale. Ma gli accordi di Jalta, che stabiliscono il nuovo assetto mondiale dopo la seconda Guerra Mondiale, ne spostano a occidente i confini. Oggi, Pińsk fa parte della Bielorussia.
Gli anni della guerra e delle invasioni (sia da parte dell’esercito sovietico sia di quello tedesco) hanno un ruolo fondamentale nella vita del futuro giornalista, come dimostra la scelta di aprire uno dei suoi libri più importanti e difficili - “Imperium” - proprio con i suoi ricordi di bambino costretto ad andare a letto vestito e con le scarpe a portata di mano, per essere pronto alla fuga. La sua, infatti, è una delle tante famiglie povere che tentano di sopravvivere, in qualche modo, alla fame e ai rastrellamenti. “Nato in Polessia, sono sostanzialmente uno sradicato”, racconta di sé. “Partito da bambino da Pińsk, mia città natale, per tutta la guerra sono stato sballottato di qua e di là. Non facevamo che scappare: prima da Pińsk in direzione dei tedeschi, poi nella direzione contraria. Ho cominciato a vagabondare a sette anni e ancora non ho smesso”.

È forse da quella esperienza che nasce l’esigenza intima, etica, del giornalismo, inteso come testimonianza di una “storia in divenire”. Quella storia che, a partire dalla seconda metà degli anni 50, sembra subire un brusco cambio di rotta, dando speranza ai sogni d’indipendenza ed emancipazione di tanti popoli africani. Così, nel 1956, dopo aver definitivamente abbandonato il suo sogno di “diventare portiere della nazionale polacca”, decide di partire per l’Africa come corrispondete per l’agenzia polacca Pap. “L’Africa era un enigma, un mistero, nessuno sapeva che cosa sarebbe successo quando trecento milioni di individui avrebbero rialzato la schiena e chiesto il diritto di parola”, scrive ne “La prima guerra del football e altre guerre dei poveri”. Copre ben cinquanta nazioni, con le enormi difficoltà di un’era in cui l’unico strumento possibile per la comunicazione è il telex. Vive e racconta le prime elezioni libere del continente nero (Ghana, 1957), l’uccisione di Patrice Lumumba (1961) e, con lui, delle speranze di un Congo unito; la sanguinosa lotta algerina contro i francesi e il successivo colpo di Stato ai danni di Ben Bella (1965), e altro ancora.

L’amore per l’Africa (o meglio, come sottolinea in “Ebano”, per le tante Afriche) non impedisce alla sua curiosità e alla sua missione di rivolgersi anche verso altri continenti. “La mia casa è altrove, in un altro stato. Appena mi fermo in un posto, anche fuori dalla Polonia, comincio ad annoiarmi, sto male, devo partire”, si legge nella sua ultima opera apparsa di recente in Italia, “Ryszard Kapuściński. Autoritratto di un reporter”. Così, nel 1969 si ritrova testimone della feroce guerra tra Honduras e Salvator, che in sole cento ore causa seimila vittime, mentre 50mila persone perdono tutto ciò che possiedono. E poi c’è l’Asia di “Shah-in-shah”, con la rivoluzione iraniana di Khomeini. Cambia la nazione, il continente, ma l’obiettivo di Kapuściński è sempre lo stesso: trarre messaggi universali, sulla natura umana, che vadano ben oltre la cruda e inutile cronaca dei fatti.

Quello che Ryszard Kapuściński lascia a chi, negli anni avvenire, avrà ancora voglia di leggere le sue pagine, è tutto questo e molto altro. È, soprattutto, un modello di giornalismo che rischia sempre più di scomparire. Perché etico, faticoso, costoso, poco spettacolare, molto rischioso e che dà poca notorietà. In Italia, l’ultimo contratto nazionale dei giornalisti ha relegato la figura dell’inviato a “clausola provvisoria”, permettendo, inoltre, all’editore, di imporre agli inviati anche il cosiddetto lavoro di desk, seduti a una scrivania, osservando il mondo da un computer o da una televisione. Quella stessa scrivania che aveva convinto Ryszard Kapuściński a scegliere le vie di Erodoto e della realtà vissuta piuttosto che mediata.

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