Ryszard
Kapuściński, dopo aver trascorso una vita viaggiando da
una nazione all’altra, da un continente all’altro, con la
sola compagnia di una macchina fotografica, un taccuino e
una penna, è morto martedì notte nella sua terra, la
Polonia, in un ospedale di Varsavia. Non aveva fatto una
scelta facile nella sua lunga carriera da giornalista,
Kapuściński. Aveva scelto di dare voce a chi voce non ha,
a quei milioni di poveri che affollano e hanno sempre
affollato il Terzo Mondo. Aveva preferito essere testimone
del loro dramma anonimo e silenzioso, piuttosto che
parlare del ricco e invasivo Occidente. “ …i poveri, di
solito, stanno zitti”, aveva scritto. “La miseria non
piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in
silenzio. La miseria non si ribella. I poveri insorgono
solo quando sperano di poter cambiare qualcosa. Di solito
si sbagliano, ma solo la speranza è capace d’indurre la
gente ad agire. La principale caratteristica di un mondo
perennemente in miseria è l’assenza di speranza”. E così,
per raccontare eventi storici come le guerre africane
d’indipendenza, la fine dell’impero sovietico, la
rivoluzione iraniana, Kapuściński partiva sempre dalla
gente comune, con la quale condivideva, spalla a spalla,
un pezzo d’esistenza. Non era certo un frequentatore di
alberghi internazionali, il giornalista polacco.
Ai tanti che gli chiedevano il perché di una scelta così
difficile e pericolosa, rispondeva: “Perché sono
scrittore? Perché tante volte ho rischiato la vita e sono
stato a un passo dalla morte? Per dimostrare l’esistenza
del fato? Per guadagnarmi lo stipendio? Il mio lavoro è
una vocazione, una missione. Non mi sarei esposto a rischi
del genere se non avessi sentito che si trattava di
qualcosa che riguardava la storia e noi stessi, qualcosa
di talmente importante da costringermi ad affrontarli”.
Una missione che Kapuściński ha portato avanti
ininterrottamente per oltre cinquant’anni: con il lavoro
quotidiano in un’agenzia di stampa polacca (la Pap), ma
anche, e soprattutto, attraverso i suoi numerosi
libri-reportage. E saranno proprio pagine come quelle di
“Ebano”, “Imperium”, “Il Negus”, venerate da migliaia di
aspiranti giornalisti di tutto il mondo, a non far
spegnere il suo ricordo.
Anche il paese d’origine di Ryszard Kapuściński, Pińsk, ha
una vita “vagabonda”. Nel 1932, quando vi nasce, fa parte
della Polessia, nella Polonia Orientale. Ma gli accordi di
Jalta, che stabiliscono il nuovo assetto mondiale dopo la
seconda Guerra Mondiale, ne spostano a occidente i
confini. Oggi, Pińsk fa parte della Bielorussia.
Gli anni della guerra e delle invasioni (sia da parte
dell’esercito sovietico sia di quello tedesco) hanno un
ruolo fondamentale nella vita del futuro giornalista, come
dimostra la scelta di aprire uno dei suoi libri più
importanti e difficili - “Imperium” - proprio con i suoi
ricordi di bambino costretto ad andare a letto vestito e
con le scarpe a portata di mano, per essere pronto alla
fuga. La sua, infatti, è una delle tante famiglie povere
che tentano di sopravvivere, in qualche modo, alla fame e
ai rastrellamenti. “Nato in Polessia, sono sostanzialmente
uno sradicato”, racconta di sé. “Partito da bambino da
Pińsk, mia città natale, per tutta la guerra sono stato
sballottato di qua e di là. Non facevamo che scappare:
prima da Pińsk in direzione dei tedeschi, poi nella
direzione contraria. Ho cominciato a vagabondare a sette
anni e ancora non ho smesso”.
È forse da quella esperienza che nasce l’esigenza intima,
etica, del giornalismo, inteso come testimonianza di una
“storia in divenire”. Quella storia che, a partire dalla
seconda metà degli anni 50, sembra subire un brusco cambio
di rotta, dando speranza ai sogni d’indipendenza ed
emancipazione di tanti popoli africani. Così, nel 1956,
dopo aver definitivamente abbandonato il suo sogno di
“diventare portiere della nazionale polacca”, decide di
partire per l’Africa come corrispondete per l’agenzia
polacca Pap. “L’Africa era un enigma, un mistero, nessuno
sapeva che cosa sarebbe successo quando trecento milioni
di individui avrebbero rialzato la schiena e chiesto il
diritto di parola”, scrive ne “La prima guerra del
football e altre guerre dei poveri”. Copre ben cinquanta
nazioni, con le enormi difficoltà di un’era in cui l’unico
strumento possibile per la comunicazione è il telex. Vive
e racconta le prime elezioni libere del continente nero
(Ghana, 1957), l’uccisione di Patrice Lumumba (1961) e,
con lui, delle speranze di un Congo unito; la sanguinosa
lotta algerina contro i francesi e il successivo colpo di
Stato ai danni di Ben Bella (1965), e altro ancora.
L’amore per l’Africa (o meglio, come sottolinea in
“Ebano”, per le tante Afriche) non impedisce alla sua
curiosità e alla sua missione di rivolgersi anche verso
altri continenti. “La mia casa è altrove, in un altro
stato. Appena mi fermo in un posto, anche fuori dalla
Polonia, comincio ad annoiarmi, sto male, devo partire”,
si legge nella sua ultima opera apparsa di recente in
Italia, “Ryszard Kapuściński. Autoritratto di un
reporter”. Così, nel 1969 si ritrova testimone della
feroce guerra tra Honduras e Salvator, che in sole cento
ore causa seimila vittime, mentre 50mila persone perdono
tutto ciò che possiedono. E poi c’è l’Asia di “Shah-in-shah”,
con la rivoluzione iraniana di Khomeini. Cambia la
nazione, il continente, ma l’obiettivo di Kapuściński è
sempre lo stesso: trarre messaggi universali, sulla natura
umana, che vadano ben oltre la cruda e inutile cronaca dei
fatti.
Quello che Ryszard Kapuściński lascia a chi, negli anni
avvenire, avrà ancora voglia di leggere le sue pagine, è
tutto questo e molto altro. È, soprattutto, un modello di
giornalismo che rischia sempre più di scomparire. Perché
etico, faticoso, costoso, poco spettacolare, molto
rischioso e che dà poca notorietà. In Italia, l’ultimo
contratto nazionale dei giornalisti ha relegato la figura
dell’inviato a “clausola provvisoria”, permettendo,
inoltre, all’editore, di imporre agli inviati anche il
cosiddetto lavoro di desk, seduti a una scrivania,
osservando il mondo da un computer o da una televisione.
Quella stessa scrivania che aveva convinto Ryszard
Kapuściński a scegliere le vie di Erodoto e della realtà
vissuta piuttosto che mediata.
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