Dall’economia del Mezzogiorno vengono notizie
preoccupanti. Pochi segni di crescita quantitativa. Indebolimento degli
elementi più interessanti qualitativamente. E la politica economica per lo
sviluppo non sembra in grado di incidere significativamente anche per
l’effetto perverso che i tagli di cassa hanno sugli stanziamenti di
competenza. Eppure non è il momento di cedere al pessimismo, ma di rivedere
con più coraggio strumenti e priorità delle politiche economiche, puntando
con decisione su politiche di offerta, che creino condizioni, nazionali e
locali, più favorevoli per le imprese e per la crescita.
Il quadro della situazione
Utilizzando il Rapporto Svimez, si può provare a mettere in luce i
principali elementi del quadro.
Fra il 1996 e il 2004 il Mezzogiorno è cresciuto del 16,3 per
cento, oltre il 3 per cento in più del resto del paese. Poco, specie in
termini assoluti. Molto, tenendo conto di quanto avvenuto in passato; delle
nuove condizioni di finanza pubblica, con una crescita spinta assai meno
dalla spesa pubblica; e assai più dagli investimenti privati e dalle
esportazioni, specie di imprese locali. Con una discreta capacità di creare
occupazione: 350mila posti di lavoro aggiuntivi nel 2000-02.
Queste tendenze sembrano essersi interrotte. Nel 2004 il Sud cresce
meno del Centro-Nord: 0,8 per cento contro 1,4 per cento. Ma il
prodotto dell’industria in senso stretto cala ancora dell’1,7 per cento,
dopo il –0,8 per cento del 2003. Tengono bene solo agricoltura ed edilizia.
Gli investimenti in macchinari e attrezzature sono deboli. L’export cresce
più della media nazionale, ma soprattutto grazie ad andamenti congiunturali
positivi di siderurgia e petrolchimica. In sensibile difficoltà, come
d’altra parte in tutto il paese (salvo limitate eccezioni) i distretti del
Made in Italy; ma al Sud, c’è meno meccanica e high-tech. Nel 2002-04 si
sono persi 48mila posti di lavoro.
Soprattutto è a livelli molto bassi il clima di fiducia di famiglie e
imprese: chi può investe in immobili; la fascia molto rilevante di famiglie
a reddito medio-basso taglia precauzionalmente i consumi. E la domanda
interna resta debole.
Poco incisiva è la politica economica. Il secondo modulo della
riforma fiscale riguarda assai limitatamente i contribuenti delle regioni
meno ricche. La legge obiettivo sta avendo effetti concreti quasi nulli. Le
politiche sulle imprese sono discontinue. Il rapporto Svimez ne documenta il
forte rallentamento; lo stesso ministro Gianfranco Miccichè ha dichiarato:
"sugli incentivi abbiamo sbagliato, producendo due anni di incertezza per le
imprese". (1) Nonostante i risultati di spesa dei fondi strutturali
siano assai migliori che in passato, resta contenuta la spesa pubblica in
conto capitale. Soprattutto gli enti locali hanno notevoli difficoltà
a finanziare i propri investimenti.
Quello che serve al Sud
Difficile fare previsioni. Da un lato le fortissime, strutturali,
difficoltà competitive dell’intero paese appaiono ancora più evidenti
nelle regioni meno avanzate: pur con qualche segnale recente di
miglioramento, la ripresa internazionale non sta trainando né l’Italia né
tantomeno il Sud. Dall’altro, però, non va affatto sottovalutato il percorso
compiuto negli ultimi dieci anni. Nonostante pochi sembrino essersene
accorti, il Sud è cambiato molto, e spesso in meglio: anche oggi non
è fermo a piangersi addosso e a chiedere aiuto.
Ciò che dispiace è però l’estemporaneità di gran parte della discussione di
politica economica. Quando si parla di Mezzogiorno si parla di spiagge;
dell’opportunità di ridurre l’occupazione pubblica (come se fossimo ancora
negli anni Ottanta); di differenziare salari che si sono già fortemente
differenziati negli ultimi dieci anni, come ricorda, anno dopo anno, la
Banca d’Italia. Si cercano improbabili bacchette magiche, come una
"fiscalità di vantaggio". Che può creare qualche effetto positivo, ma che
può essere molto costosa e che non cambia certo la specializzazione
produttiva del Mezzogiorno.
Al Sud serve in maniera più intensa ciò che serve all’intero paese: più
concorrenza, ma anche più investimenti pubblici che creino migliori "economie
esterne" per le imprese. Una politica economica che muti le condizioni
dell’offerta. Che crei un contesto nel quale le imprese abbiano a
disposizione più tecnologia e più capitale umano di qualità.
In particolare, al Sud servono relativamente poco tanti incentivi indistinti
(sia diretti, come con la 488; sia indiretti, come i costosissimi crediti di
imposta) per far aumentare la produzione delle attuali imprese, e più
incentivi a farle cambiare (fusioni, ricerca, commercializzazione) e farne
nascere di nuove. Soprattutto, serve spostare risorse pubbliche dagli
incentivi agli investimenti: tutela della legalità e della giustizia,
scuola e università, collegamenti aerei, ferroviari e marittimi.
Investimenti di scala nazionale e internazionale (le grandi reti). E
investimenti per la creazione di quei "beni collettivi locali" che
caratterizzano ovunque nel mondo le città e le regioni che crescono, e che
compongono intelligenti politiche di sviluppo locale.
Per saperne di più
Consiglio italiano per le scienze sociali, "Tendenze e politiche dello
sviluppo locale in Italia", Marsilio 2005. Carlo Trigilia, "Sviluppo Locale.
Un progetto per l’Italia", Laterza 2005. Gianfranco Viesti "Poche e grandi
scelte per il Mezzogiorno", Il Mulino 2/2005.
(1) Il Sole 24 Ore, 16 luglio, pag. 11
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