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27/07/2007 Una politica per l’euro (Pier Carlo Padoan, http://www.lavoce.info)

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L’euro continua ad apprezzarsi nei confronti del dollaro e quota 1.40 è a un passo. L’ apprezzamento della valuta europea è sostenuto da fattori ciclici ma anche da fattori strutturali. L’indebolimento dell’economia Usa e il concomitante irrobustimento della crescita in Europa sono i più rilevanti fattori ciclici. Sul piano strutturale il processo di diversificazione delle riserve di molti paesi emergenti alimenta la domanda della valuta europea a sfavore della domanda di dollari. Il primo fattore alimenta il secondo ma quest’ultimo segnala anche il progressivo rafforzamento del ruolo dell’euro come valuta di denominazione delle transazioni commerciali e, sempre più, anche di quelle finanziarie. Qualunque ne sia la causa il rafforzamento dell’euro, nei confronti del dollaro ma anche delle valute asiatiche, sopratutto yen giapponese e renminbi cinese, pone un serio problema di competitività per le economie dell’area dell’Euro.

Il ruolo "residuale" della valuta europea
Il Presidente Francese Sarkozy ha proposto di affrontare questo problema chiedendo alla Banca Centrale Europea una politica di indebolimento del tasso di cambio dell’euro. Ci sono diverse ragioni per ritenere che si tratta di una richiesta sbagliata o addirittura controproducente. In primo luogo occorre chiedersi in che modo la Bce potrebbe mettere in atto una simile politica. Una politica di intervento sui mercati dei cambi, un acquisto di dollari, avrebbe –come dimostra una abbondante evidenza empirica- nel migliore dei casi un effetto limitato nel tempo e nella dimensione, sopratutto se effettuata unilateralmente e in una fase in cui i comportamenti di mercato vanno nella direzione opposta. Una politica monetaria più accomodante, in un contesto di crescita elevata avrebbe sopratutto l’effetto di alimentare aspettative di inflazione, indebolire il quadro macroeconomico e in ultima analisi la crescita.
Tutto ciò non vuol dire però che non sia possibile o utile definire una politica per l’euro. Ma per definirla occorre cambiare prospettiva. La domanda rilevante non è se l’apprezzamento dell’euro danneggia la competitività europea in questa fase ciclica ma, piuttosto quale ruolo debba giocare l’area dell’euro nella gestione degli squilibri dei pagamenti globali e nella ridefinizione della architettura finanziaria internazionale per favorire gli interessi europei nel medio termine. Ciò che rende oggi preoccupante la posizione dell’euro nel sistema globale è il fatto che la valuta europea sta ricoprendo il ruolo di "valuta residuale" sulla quale si scaricano le conseguenze dell’indebolimento delle valute degli altri principali paesi. Il dollaro si indebolisce sotto la spinta del deficit corrente degli Stati Uniti e della minore attrattiva per gli investimenti. Le valute asiatiche si indeboliscono perché rimangono legate a quella americana o la seguono da vicino. Si tratta di un quadro in cui prevalgono scelte unilaterali e mancanza di coordinamento tra gli attori principali.
Tutto ciò non e nell’interesse dell’area dell’euro. Sarebbe nell’interesse dell’area dell’Euro giungere a un accordo nel quale la Cina accettasse di abbandonare il suo legame con il dollaro o, quantomeno, di adottare un peg nei confronti di un basket che comprendesse dollaro ed euro. Sarebbe nell’interesse dell’euro un rafforzamento della sorveglianza multilaterale che fosse più efficace nell’accrescere il tasso di risparmio negli Stati Uniti e l’assorbimento nei paesi ad elevato surplus (compresi i paesi OPEC). Sarebbe nell’interesse dell’euro rafforzare nei fatti la sorveglianza multilaterale sui tassi di cambio, anche grazie al nuovo mandato ricevuto di recente dal Fondo monetario internazionale, per evitare che la svalutazione del dollaro possa sfuggire al controllo e tradursi in una caduta violenta della valuta americana.

Meno quote, maggior potere
Questi obiettivi sarebbero raggiungibili più facilmente se il peso dell’area dell’euro nelle istituzioni internazionali fosse rafforzato. Paradossalmente ciò richiederebbe una minore e non una maggior quota di partecipazione nel FMI e nella Banca Mondiale da parte dei paesi europei. Una singola rappresentanza dell’Eurozona avrebbe infatti un peso inferiore a quello cumulato dei paesi membri, ma avrebbe un peso molto maggiore a livello decisionale perché permetterebbe all’Europa di parlare con una voce sola. La pluralità di rappresentanti europei invece determina una difficoltà o addirittura l’impossibilita a parlare con una voce sola senza la quale rimane difficile influenzare la governance finanziaria globale. Se ciò non avviene è perché i singoli paesi europei non sono disposti a rinunciare alla loro piccola, ma alla lunga sempre meno rilevante, fetta di potere.

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