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17/10/2007 Unione monetaria e corse al ribasso (Giuseppe Bertola, http://www.lavoce.info)

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Gli studi empirici mostrano che l'Unione monetaria migliora l'andamento economico dei paesi che ne fanno parte. Ma è anche associata a una maggiore disuguaglianza e una minore spesa sociale. Tutto ciò solleva dubbi sulla sostenibilità politica dell'Unione monetaria senza una integrazione politico-sociale e un più ampio sviluppo del mercato finanziario. E guardando al futuro, sarebbe sbagliato e pericoloso non prendere in considerazione le implicazioni dell'integrazione economica sulle cause e i rimedi della disuguaglianza di reddito.

Si pensa generalmente che l’integrazione economica internazionale migliori l’efficienza: e certamente lo farebbe se le barriere alla mobilità internazionale di beni, capitali e persone fossero gli ostacoli che si frappongono tra il mondo reale e il mondo perfetto dell’equilibrio competitivo degli economisti. Tuttavia, proprio perché l’integrazione estende la portata dei mercati oltre i confini nazionali, i singoli paesi hanno anche maggiori difficoltà ad attuare politiche tese ad affrontare altre imperfezioni del mercato. L’integrazione offre alle aziende nuove libertà, non soltanto di sfruttare le opportunità commerciali, ma anche di sfuggire alle normative e alle tassazioni nazionali.

Le imperfezioni del mercato

Sarebbe un bene se l’azione di governo fosse dettata dalla ricerca di rendite politiche. In questo caso, l’integrazione economica può migliorare l’efficienza non soltanto direttamente, ma anche favorendo la competizione tra giurisdizioni - competizione che può costringere i cattivi governi a fare meglio. Tuttavia, i governi temono ogni tendenza all’integrazione economica che li privi di potere decisionale. Così, la competizione fra giurisdizioni può essere essa stessa un ostacolo a una integrazione più stretta, in particolare perché le interazioni politiche hanno ancora luogo principalmente all’interno dei paesi. E molte politiche nazionali non mettono in atto semplicemente una redistribuzione dannosa, servono anche all’utile obiettivo di affrontare le imperfezioni del mercato: l’integrazione economica non migliorerà il benessere sociale se rende inattuabili tali politiche.
È una questione ben nota e i processi di integrazione europea e internazionale affrontano la più evidente delle "corse al ribasso". Gli accordi commerciali definiscono standard di qualità dei prodotti e regole di sicurezza nei luoghi di lavoro perché consumatori e lavoratori sono spesso incapaci di stimare i danni impliciti che derivano dall’eseguire un dato lavoro o dall’usare un dato prodotto. E perché i singoli imprenditori e i singoli produttori potrebbero non avere incentivi a fornire informazioni veritiere nei mercati decentralizzati. La paura può facilmente danneggiare le interazioni di mercato in assenza di monitoraggio governativo, certificazioni e azioni di controllo.
Meno si fa, e si può fare, per gli effetti dell’integrazione economica che concernono un altro elemento che il mercato difficilmente può offrire: l’assicurazione contro i rischi del mercato del lavoro e altri aspetti della vita. Il mercato non ha strumenti adeguati per affrontare questi rischi, perché il salario e l’occupazione di un individuo dipendono in modo significativo dalla fortuna (e dunque l’assicurazione è un bene), ma anche dall’impegno, che non è osservabile ed è fastidioso, e che inevitabilmente scompare se la sua assenza fa crescere solo la possibilità di ricevere i pagamenti dell’assicurazione, ma non quella di dover ridurre i consumi.

Redistribuzione e sicurezza sociale

Per affrontare questo fallimento del mercato, i governi introducono in ciascun paese sistemi di redistribuzione e di sicurezza sociale. È ragionevole che cerchino di farlo. Ma la loro capacità di raccogliere informazioni e di controllo, benché superiore a quella dei singoli attori del mercato, non è comunque tale da eliminare gli effetti negativi che l’assicurazione produce sull’impegno, l’occupazione e la produttività. Così, la sicurezza sociale sarà meno sostenibile quando un paese è povero, ma anche quando l’integrazione economica fa sì che sia importante prevenire cadute di produttività, che potrebbero avere conseguenze disastrose per la posizione di mercato del paese e che potrebbero garantire agli individui egoisti nuovi modi per sfuggire la tassazione e per cercare sussidi oltre confine.
Le sempre crescenti preoccupazioni sulla "competitività" possono innescare in teoria una corsa al ribasso nella sicurezza sociale, proprio quando l’integrazione economica introduce nuove fonti di rischio nel mercato del lavoro di ogni paese. È una preoccupazione seria e reale e un forte ostacolo alla piena liberalizzazione dei mercati internazionali. In pratica, è difficile dire se l’integrazione ha tristi conseguenze sulla disuguaglianza e le politiche sociali, perché entrambe sono influenzate da molti altri fattori tecnologici e politici. Ma dati utili si possono ricavare dall’esperimento dell’Unione monetaria europea.
Eurostat pubblica, per singoli paesi e interessanti aggregati, un insieme di indicatori di disuguaglianza basato sul "rapporto tra quintili": la quota di reddito disponibile, aggiustato per le caratteristiche delle famiglie, che va al 20 per cento più ricco della popolazione, diviso per quello del 20 per cento più povero. I dati dipingono un quadro interessante dell’evoluzione della disuguaglianza nel periodo intorno al cambio del millennio. Proprio mentre i paesi dell’Eurozona iniziano a sperimentare una piena e irreversibile integrazione economica, la disuguaglianza cresce notevolmente nei paesi dell’Europa a 15 e ancor più nell’Europa a 12, mettendo fine al suo precedente declino e riportandola nel 2004 al livello del 1996.

 
Evoluzione della diseguaglianza, come misurata dal rapporto tra quintili di reddito nell’Europa a 15 nell’Europa a 12.
Fonte Eurostat

Certo, c’è molto altro dietro questo quadro inquietante. In particolare, una marea che sale solleva tutte le barche e dunque le dinamiche del ciclo economico tendono a ridurre la disuguaglianza fino al 2000 e ad aumentarlo successivamente. Ma si possono utilizzare questo e altri dati per dar conto del reddito e di altri fattori e isolare così le implicazioni della rimozione delle barriere internazionali al commercio e alla mobilità non solo per il prodotto, la disoccupazione e l’integrazione, ma anche per la disuguaglianza e le politiche sociali.
È facile valutare statisticamente l’impatto dell’Unione monetaria europea se si è disposti a credere che i paesi dell’Europa a 15 sono sufficientemente simili e influenzati in modo simile da altri eventi da garantire l’attribuzione all’Uem delle differenze tra i paesi che fanno parte dell’Unione monetaria e paesi che non ne fanno parte, prima e dopo l’avvio dell’Unione monetaria. L’assunzione può essere difficile da accettare, ma una qualche assunzione è necessaria in tutti i lavori empirici (ed è rassicurante scoprire che i risultati sono robusti escludendo la Danimarca e la Svezia, o il Regno Unito dal gruppo di controllo, o includendo la Norvegia, l’unico altro paese per il quale siano disponibili dati sufficientemente comparabili).
Nel far questo (vedi per i dettagli un mio lavoro per la DG ECFIN Annual Research Conference) si scopre che l’Uem sembra migliorare la performance economica, in termini di reddito pro-capite e di disoccupazione, e l’intensità degli scambi internazionali, specialmente per quanto riguarda i flussi di investimenti diretti stranieri. Ma appare essere associato anche a una maggiore disuguaglianza e a una minore spesa sociale. È interessante notare che la variazione della disuguaglianza associata all’Uem è pienamente spiegata dai cambiamenti della spesa per politiche sociali (pensioni escluse) come quota del Pil, e dalle variazioni del Pil e della disoccupazione: entrambe sono probabilmente influenzate dalle politiche di integrazione, così come dagli sviluppi ciclici e tecnologici. Una economia in crescita solleva tutte le barche, ma le barche più deboli si innalzano di più quando una generosa politica sociale accompagna più alti livelli di reddito.
È anche interessante notare che mentre la quota di reddito da lavoro sul Pil scende in modo molto netto con l’Uem - e probabilmente ciò riflette la maggiore capacità del capitale mobile di sfruttare le opportunità internazionali - tuttavia quella variabile non è di per sé rilevante nella disuguaglianza dei redditi personali. Una più alta disoccupazione è associata a una più ampia disuguaglianza nelle fluttuazioni delle serie temporali, ma i paesi con disoccupazione in media più alta sono meno diseguali in termini di reddito aggiustato per le famiglie, forse perché i capofamiglia occupati guadagnano salari più alti e vivono nella stessa famiglia con i giovani disoccupati.
Detto tutto ciò, il quadro può apparire meno inquietante, ma rimane preoccupante. L’Uem sembra essere associato a un miglior andamento degli aggregati economici, ma anche a una maggiore disuguaglianza e a una più bassa spesa sociale nei paesi dell’Eurozona. Questo può indicare che gli effetti di disuguaglianza dell’integrazione economica sono mediati (nel confronto con paesi pre-Uem e non-Uem) da politiche sociali meno generose, e che parte dell’apparente incremento del prodotto può riflettere minori perdite d’inefficienza dagli effetti della redistribuzione sugli incentivi.

Il futuro dell’Unione monetaria

Se tali sviluppi debbano essere visti positivamente dipende ovviamente dal lato della distribuzione del reddito in cui uno si trova e da come giudica la redistribuzione: se uno strumento corretto o fuorviante nel perseguire gli obiettivi che i mercati dovrebbero raggiungere in teoria, ma che in pratica spesso non ottengono. Lo sviluppo dei mercati finanziari può in teoria coprire alcuni bisogni affrontati dalle politiche sociali, ed è associato a una minore spesa sociale nei confronti internazionali, come si evince da un mio altro lavoro. Tuttavia, nei dati non appare che indicatori quali il rapporto sul Pil di titoli, credito, e quotazioni di borsa siano più alti nei paesi Uem, dopo l’adozione dell’euro, che nel gruppo di controllo.
La quantità e qualità dei dati disponibili non è né sarà mai tale da permettere conclusioni definitive. Tuttavia, mettendoli insieme, i vari pezzi della evidenza circostanziale formano un quadro della disuguaglianza e dell’evoluzione delle politiche nel dopo-Uem che è coerente con i problemi messi in luce dalla teoria della corsa al ribasso. E gettano dubbi sull’efficienza economica e la sostenibilità politica di una piena integrazione economica in assenza di politiche sociali comuni all’area e livelli di sviluppo del mercato finanziario osservati, per esempio, negli Stati Uniti.
Quando si parla del futuro dell’Uem e si delineano le sue politiche, sarebbe sbagliato e pericoloso non considerare le implicazioni dell’integrazione economica non solo per l’efficienza e la crescita, ma anche per le cause e i rimedi della disuguaglianza di reddito.

Il testo inglese dell'articolo è disponibile su www.voxeu.com

http://www.lavoce.info

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