Il 2008 è stato l'anno degli shock finanziari asimmetrici nell'area euro, ma
il 2009 sarà quello dello shock economico simmetrico. Tutta Europa scivola
in recessione e si profila l'ombra della deflazione. Serve dunque una
risposta comune di politica monetaria. Che porti a zero i tassi di interesse
e ampli l'offerta di moneta. I paesi che possono permetterselo dovrebbero
adottare politiche fiscali espansionistiche. L'anno iniziato con la più
grande sfida all'euro potrebbe diventare l'anno della sua salvezza. A patto
che i politici agiscano. E nel modo giusto.
Quella che nel 2007 è iniziata come la crisi dei subprime, nel 2008 si
è trasformata nella crisi globale del credito, nel 2009 è diventata la
crisi dell’euro. E c’è chi ora prende in seria
considerazione l’ipotesi che un membro dell’area euro, la Grecia per
esempio, possa ripudiare il proprio debito. Un evento che non solo
danneggerebbe direttamente i bilanci delle singole banche, ma
distruggerebbe la fiducia nell’intero sistema
bancario e finanziario del paese. Nell’impossibilità di ottenere
prestiti e di fronte agli immensi costi di ricapitalizzazione delle
banche, il paese dovrebbe stampare moneta, ma per farlo dovrebbe
abbandonare l’euro e reintrodurre la vecchia moneta nazionale. DUE
ALTERNATIVE
Il paragrafo precedente contiene molte premesse dubbie e
non-sequitur logici: non sono pochi ad averlo osservato, da Willem
Buiter a Wolfgang Munchau al sottoscritto. In primo luogo, che alla
Grecia sia concesso di ripudiare il debito, è tutto
da vedere. Un’alternativa esiste e consiste nella riduzione della
spesa pubblica, nel taglio dei salari e in aiuti finanziari al governo
senza soldi in cassa da parte dell’Unione Europea e del Fondo
monetario internazionale.
Certo, sarebbe una alternativa assai dolorosa, che non piacerebbe a
nessuno, salvo forse all’Fmi, che potrebbe approfittare dell’occasione
per riaffermare il suo ruolo di “banca” per i paesi sviluppati. Contro
i tagli al bilancio e la riduzione dei salari ci sarebbero
dimostrazioni di piazza, i politici perderebbero consensi e i governi
cadrebbero. E all’interno dell’Unione Europea non mancherebbero le
resistenze a offrire aiuti finanziari agli Stati membri più
problematici.
Alla fine, però, tutti ingoierebbero il rospo e andrebbero avanti,
proprio come ha fatto il Congresso americano che prima ha tentato il
“gran rifiuto”, ma poi ha approvato il piano di salvataggio per le
banche da 700 miliardi di dollari, mentre all’orizzonte si profilava
il disastro.
È vero che se la crisi attuale ci ha insegnato qualcosa è che non si
dovrebbe mai sottovalutare l’abilità dei politici di fare la cosa
sbagliata. Ma anche il più cieco dei politici può vedere che cosa è in
ballo oggi: gli investitori fuggirebbero in massa dalle banche e dai
mercati del paese che prendesse in considerazione l’ipotesi di
abbandonare l’euro. Per quanto grave la crisi, i politici si
renderanno pur conto che il tentativo di sganciarsi dall’euro, la
renderebbe solo peggiore.
Altra lezione della crisi è che gli shock finanziari possono
diffondersi in modo imprevedibile. Nessuno sa se il default della
Grecia darebbe luogo a un crollo dei prezzi dei titoli di Stato
irlandesi o italiani, facendo precipitare quei paesi in una piena
crisi di debito pubblico e di sistema bancario. Ma nessuno vuole
scoprirlo. Così, alla fine, l’Unione Europea dovrà superare la sua
avversione ai salvataggi.
UN ERRORE L’ADOZIONE IRREVERSIBILE DELL’EURO?
Dunque, l’area euro resterà unita perché la decisione di entrare a
farne parte è sostanzialmente irreversibile: uscirne è
impossibile senza dar luogo alla più grave crisi finanziaria
che si possa immaginare, un rischio che nessun governo può permettersi
di correre.
Ma allora entrare nell’euro è stato un errore fin dall’inizio? Gli
argomenti di chi era contrario all’unione monetaria si fondavano
sull’esistenza di crisi asimmetriche: gli shock
negativi che colpiscono alcuni paesi, e non altri, sono di gran lunga
prevalenti e dunque era imprudente rinchiudere tutti in un’unica
politica monetaria. Se gli shock asimmetrici avessero colpito paesi
fortemente indebitati, questi non avrebbero avuto alcuna possibilità
di utilizzare le politiche fiscali per stabilizzare la situazione. E
senza meccanismi per affrontare simili situazioni, come un sistema di
trasferimenti tra Stati, sarebbe rimasta la sola opzione di anni di
deflazione e di disoccupazione a due cifre. Più prudente sarebbe stato
invece permettere ai paesi indebitati di mantenere la possibilità di
ridurre il tasso di cambio invece dei salari, per realizzare molto più
facilmente quei miglioramenti di competitività così disperatamente
necessari. È il classico argomento di buon senso a sostegno della
flessibilità dei cambi.
E in parte, quello cui stiamo assistendo oggi è un chiaro shock
finanziario asimmetrico. Paesi come la Grecia con problemi di debito e
di deficit sono stati ora individuati dagli investitori che scappano
da qualsiasi cosa emani il minimo sentore di rischio. Così come i
paesi con le bolle immobiliari più pronunciate,
l’Irlanda e la Spagna per esempio, soffrono la recessione più grave,
ora che le bolle si sgonfiano e i problemi si diffondono all’intero
sistema finanziario. Sono gli spread sui loro titoli di Stato a essere
schizzati verso l’alto, è là che la produzione è caduta di più ed è là
che la necessità di tagli ai salari è più acuta. L’unico mistero è
perché gli investitori abbiamo impiegato così tanto tempo ad
accorgersi di questi problemi, perché non abbiano individuato questi
paesi sei mesi o un anno fa?
SHOCK FINANZIARI ASIMMETRICI E SHOCK ECONOMICI SIMMETRICI
Più passano i giorni e più è chiaro che il vero grande problema è
lo shock economico negativo che colpisce l’intera area euro. I diversi
paesi dell’area possono aver sofferto in modo diverso le turbolenze
finanziarie, ma ora sperimentano tutti allo stesso modo le turbolenze
economiche: tutti affrontano un crollo della crescita. La Germania,
che pensava di essere immune alla crisi economica, vede ora crollare
le esportazioni. E vede crescere la disoccupazione, che può essere
finora contenuta, ma è la punta dell’iceberg, e non c’è più alcun
dubbio sulla quantità di ghiaccio che sta sotto la superficie.
Questo shock è simmetrico: interessa tutti i membri
dell’area euro. E ciò significa che è appropriata una risposta
comune di politica monetaria. Aumenteranno le pressioni sulla
Bce perché riduca a zero i tassi di interesse, aumenti l’offerta
monetaria e permetta al tasso di cambio dell’euro di indebolirsi. (Una
parte dell’aggiustamento, quest’ultima, che già inizia a verificarsi,
senza che ci sia stato alcun intervento della Bce). Ora che la
recessione e la deflazione incombono sull’area euro, questa è la
risposta su cui tutti i membri dovrebbero trovarsi d’accordo e che può
essere accompagnata da stimoli fiscali. E tanto meglio se sono i paesi
con posizioni di bilancio relativamente più forti, come la Germania,
ad applicarli in misura più ampia: il risultato sarà un aiuto
dall’esterno, più che necessario, ai loro vicini più pesantemente
indebitati e senza un soldo.
COSA DOVREBBE FARE LA BCE
Ovviamente, l’assunzione necessaria di tutto ciò è che i politici
facciano la cosa giusta. La Bce dovrà abbandonare la
sua ossessione per l’inflazione, ridurre a zero i tassi e ampliare
l’offerta di moneta. La Germania dovrà liberarsi
della fobia del deficit e applicare quello stimolo di bilancio di cui
il paese, e tutta l’area euro, ha così disperatamente bisogno. Dopo
aver a lungo opposto un ostinato rifiuto, entrambe si muovono ora
nella giusta direzione, ma non c’è tempo da perdere.
Se il 2008 è stato l’anno dello shock finanziario asimmetrico, il 2009
è l’anno dello shock economico simmetrico. E proprio come quello
appena passato è stato l’anno che più ha messo a rischio l’euro,
questo può essere l’anno della sua salvezza. Perché ciò accada, però,
i politici devono agire.
* Il testo in lingua originale è pubblicato su
Vox.
I commenti possono essere inviati in lingua originale al sito da cui
l'articolo è tratto
27/01/2009 Agli italiani costa anche la disinflazione (Enrico D'Elia, http://www.lavoce.info)
L'attuale fase di rallentamento dei prezzi
potrebbe portare paradossalmente alcune
conseguenze negative per le imprese italiane,
aggravando gli effetti di una delle peggiori
crisi del dopoguerra. I prezzi italiani,
infatti, tendono a crescere meno di quelli
europei solo quando l'inflazione accelera.
Appena le tensioni rientrano, i nostri prezzi
scendono meno della media, compromettendo la
competitività del paese. Il settore più
critico è quello dei servizi, dove ormai è
indispensabile smantellare posizioni di
rendita ed inefficienze.
Mentre in Europa l’inflazione
scende rapidamente grazie al crollo del
greggio e la crisi dei consumi, in
Italia il rallentamento dei prezzi è
relativamente più modesto. In meno di un
anno, il nostro paese è così passato da
un tasso di inflazione inferiore
rispetto alla media europea a uno
superiore di quasi mezzo punto
percentuale. L'inversione di tendenza
potrebbe rivelarsi molto pericolosa per
la competitività italiana, proprio in un
momento in cui il contributo della
domanda estera sarebbe prezioso.
SERVIZI, IL PUNTO DEBOLE
Gli ultimi dati non fanno che
confermare una delle tante peculiarità
del sistema Italia: quando i prezzi
crescono molto, generalmente sotto la
spinta di qualche shock esogeno, la
nostra inflazione riesce a mantenere il
passo di quella europea, ma appena le
tensioni rientrano, i nostri prezzi
tornano a crescere più della media. Se
si guarda al differenziale di
inflazione tra l’Italia e la
zona euro, si osserva un restringimento
sistematico nelle fasi di forti rincari
e un successivo allargamento in quelle
di riassorbimento delle tensioni (vedi
figura 1). In media, dal 1996 a oggi,
ogni riduzione di un punto percentuale
dell’inflazione europea ha fatto
aumentare il differenziale italiano di
circa 3 decimi di punto (vedi tabella
1). Èpossibile stimare che l’attuale
differenziale di mezzo punto percentuale
potrebbe essere azzerato solo se
l’inflazione europea superasse
nuovamente il 3 per cento l’anno, un
ritmo chiaramente incompatibile con gli
obiettivi di stabilità monetaria
perseguiti tenacemente dalla Bce.
Non tutti i prodotti seguono questa
tendenza. Ad esempio, i prezzi dei
beni industriali
italiani (esclusi i prodotti raffinati)
crescono sostanzialmente in linea con
quelli europei sia nelle fasi di
accelerazione, quando perdono meno di un
decimo per ogni punto di inflazione
europea, sia in quelle di decelerazione,
quando guadagnano appena 4 decimi a
punto. Molto diverso è il caso dei
servizi (vedi figura
2): quando i prezzi accelerano, anche
quelli dei servizi italiani vanno più
piano di quelli europei, mediamente di 2
decimi per ogni punto di inflazione in
più, ma poi recuperano rapidamente
quando in Europa i rincari si
esauriscono, guadagnando 4 decimi per
ogni punto in meno di inflazione
europea. Dopo un ciclo di rincari, i
consumatori italiani si trovano così a
pagare per i servizi lo 0,2 per cento in
più per ogni punto di aumento iniziale
dell’inflazione. Alla fine dell’ultimo
shock petrolifero, che ha portato la
crescita dei prezzi dal 2 al 4 per cento
circa, il conto per le famiglie potrebbe
dunque sfiorare gli 1,7 miliardi di euro
l’anno, che corrispondono a quasi 70
euro a famiglia, ovvero a un paio di
mesi di ricarica di una social card.
La scarsa produttività
dei servizi italiani non è sufficiente a
spiegare, da sola, simili asimmetrie.
Infatti l’accumulo di un differenziale
di prezzo così ampio è possibile solo
grazie allo scudo offerto da un mercato
scarsamente concorrenziale, con forti
barriere all’entrata di nuovi operatori
e con margini di profitto che
garantiscono comunque la sopravvivenza
anche delle imprese meno efficienti. Le
politiche anticicliche, pur avendo il
compito di sostenere l’intera
l’economia, non dovrebbero assecondare
queste tendenze, ma, da questo punto di
vista, i recenti provvedimenti
del governo sono piuttosto
contraddittori. Da un lato, la
“rottamazione” delle imprese commerciali
e turistiche meno efficienti, prevista
dal decreto anticrisi, sembra un primo
passo nella direzione di una “pulizia”
del mercato. Vanno nella stessa
direzione anche il price cap
asimmetrico, ovvero applicabile solo
sugli aumenti, sulle tariffe pubbliche e
i vincoli all’attività delle aziende
municipalizzate, regionali, e così via,
i limiti alla commissione di massimo
scoperto e la riduzione dei compensi per
le società di riscossione. Tuttavia, i
crediti d'imposta su assunzioni e
investimenti restano sostanzialmente a
pioggia, senza alcun discrimine tra
settori e imprese più o meno efficienti
e concorrenziali, e aumentano gli aiuti
a un settore sostanzialmente
monopolistico come le ferrovie.
Soprattutto, non si parla più delle
politiche di liberalizzazione,
timidamente intraprese negli anni
scorsi. Anzi, il salvataggio dell’Alitalia
rischia di assestare un altro duro colpo
all’assetto competitivo del trasporto
aereo in Italia, come ricordato anche di
recente da Andrea Boitani. In queste
condizioni, è probabile che i ritardi
nell’adeguamento dei prezzi italiani ai
ritmi europei restino strutturali e che
consumatori e imprese efficienti
continuino a essere paradossalmente
penalizzati da un rallentamento
dell’inflazione.
Fig. 1 –
L’andamento dell’inflazione in Italia e
in Europa
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat
Tab. 1 - Variazione del
differenziale italiano per ogni punto in
più di inflazione europea (*)
Settori |
1997-2008 |
Fasi di
accelerazione |
Fasi di
rallentamento |
In complesso |
-0,312 |
-0,283 |
-0,311 |
Beni industriali
(non energetici) |
-0,057 |
-0,084 |
-0,035 |
Servizi |
-0,325 |
-0,196 |
-0,429 |
(*) Stime OLS del parametro b nel
modello: (differenziale italiano) = a +
b (inflazione europea)
Fig. 2 –
L’andamento dei prezzi dei servizi in
Italia e in Europa
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat
* Le opinioni
espresse in questo articolo sono
esclusivamente quelle dell’autore e non
impegnano in alcun modo l’istituto di
appartenenza.
Foto: Credit ©
European Communities, 2009
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