Alla fine ci eravamo guastati. Come tutti, prima o poi, si sono guastati con
lei. Per la sua prepotenza, per la sua aggressività che in origine erano
state il riflesso di una giovanile timidezza ma poi, col successo, erano
diventate parte del suo carattere innestandosi su un egocentrismo senza
limiti, privo di autoironia, ma anche di ironia, cosa rara in un toscano,
che la rendevano umanamente insopportabile e l'hanno portata a un isolamento
pressoché assoluto. E stringe il cuore saperla nei suoi ultimi anni, ormai
fragilissima fisicamente, lei che aveva affrontato con spavalderia e con
coraggio guerre e ogni genere di situazioni pericolose, prima donna a essere
impiegata in giornalismo con simile spregiudicatezza, sola nella sua casa di
New York senza amici, senza compagni, senza figli.
A seguito, Lettera a una donna già morta (Paola Presciuttini;
Biraghi);
Aveva sempre sognato di diventare una donna tragica, una sorta di eroina
greca, una corrusca Medea, come si face va fotografare negli ultimi tempi, e
alla fine ci è riuscita.
Io l'ho conosciuta però in tempi più felici quando, agli inizi degli anni
Settanta entrai, giovanissimo inviato, all'Europeo di Tommaso Giglio dove
lei era già l'Oriana Superstar.
Filava allora con Alessandro Panagulis, l'eroe della resistenza greca ai
colonnelli. Lui le mollava dei gran ceffoni (che era l'unico modo per
trattar l'Oriana) e lei si metteva cheta. Appagata sentimentalmente - benché
Panagulis, gran bevitore e tombeur de femmes, avesse anche altre donne - era
diventata più umana. Ero il più giovane della compagnia e lei si prese di
simpatia per me. Una piccola casa editrice scolastica, La Sorgente, le aveva
chiesto un'autobiografia per gli studenti delle medie, lei non aveva tempo e
mi propose di farla io. Accettai con entusiasmo, l'idea di stare a stretto
contatto con un mito del giornalismo italiano e internazionale mi attirava
moltissimo ed effettivamente le conversazioni con Oriana erano un fuoco di
artificio di urli, di berci ma anche di straordinari aneddoti, di storie, di
ricordi, di intuizioni, una scuola di giornalismo dal vivo. Dai suoi
racconti, di lei che giovanissima, quattordicenne, minuta, più bambina
ancora della sua età, spinge d'inverno sui pedali di una pesante bicicletta
su per i colli gelidi di Firenze, a far il giro di ospedali e questure,
veniva fuori un giornalismo d'antan, eroico, già allora fuori dal tempo. Mi
disse: «Con questo libro tu devi fare un panegirico del nostro mestiere, del
giornalista, di questo personaggio straordinario che va in Paesi di cui non
conosce la lingua, non conosce la geografia, non conosce la storia, non
conosce nulla e torna indietro con un grande racconto col quale, d'intuito,
ha penetrato lingua, storia e umanità».
Le piacque moltissimo un mio ritratto di Malaparte, che era stato il suo
grande maestro, ma rileggendolo insieme sul bancone, a giornale ormai in
edicola, si impuntò su una virgola fuori posto, una sola virgola in 26
cartelle: «Vedi» mi disse «vorrei prendere uno scalpello e tirarla via a
colpi questa virgola, perché rovina un pezzo così bello». Era perfezionista,
doverista, come si deve essere in questo mestiere. Scriveva le sue famose,
interminabili interviste, raccolte al registratore, in due giorni e due
notti di seguito, senza dormire, poi si buttava: disfatta, sul letto. Al
giornalismo ha sacrificato molto, a cominciare dalla sua vita privata. I
nostri colloqui si svolgevano a Milano, ma anche nelle sue case di Greve in
Chianti e di Firenze.
A quell'epoca la Fallaci non amava affatto gli americani e aveva
l'ossessione della Cia. Passeggiando per Firenze bisognava nascondersi ad
ogni passo, dietro una colonna, una statua, in un portone. Eravamo sempre
seguiti, a sentir lei, da agenti dello spionaggio americano. Fra me
sorridevo di quella megalomania, che mi pareva fanciullesca e
sostanzialmente innocua (ma il tempo avrebbe dimostrato che così non era) e
le tenevo bordone. Dopo che le ebbi fatto leggere le prime settanta
«cartelle» del libro mi mandò una lettera, che conservo gelosamente,
affettuosissima e colma di elogi. Poi, improvvisamente, decise che non se ne
faceva più nulla. Probabilmente considerò il materiale che mi aveva
consegnato era sproporzionato per un libretto destinato alle scuole e troppo
bello perché lo firmassi io. Avrebbe potuto utilizzarlo lei, in prima
persona, più avanti. Secondo me aveva ragione: si trattava della sua vita;
in fondo, e inoltre io avevo utilizzato molto, virgolettando, il suo
splendido parlato, il suo straordinario italiano. Sarebbe bastato che me lo
dicesse chiaramente e io avrei capito, non ci sarebbero stati problemi. Ma
la Fallaci non era tipo da ammettere queste cose. Così si inventò che ero
una spia, della Cia naturalmente, e rompemmo i rapporti.
La morte di Panagulis, che ubriaco andò a schiantarsi di notte con la
macchina, fu per Oriana un bruttissimo colpo. Umanamente e
professionalmente. Alekos le dava quell'equilibrio di cui un personaggio
come lei aveva particolarmente bisogno. Scomparso Panagulis, il suo
narcisismo patologico, la sua autoreferenzialità, l'ipertrofia del suo io
non ebbero più argini. «Si mise a fare la vedova dell'eroe morto ammazzato
e, nel mestiere, perse ogni senso del limite. Si mise anche a scrivere
romanzi, equivocando su un consiglio di Curzio Malaparte che aveva preso a
benvolere quella ragazzina, timida e insieme sbarazzina e impertinente,
intuendone il grande talento: "Orianina" le aveva detto a un certo punto
della carriera un giornalista deve cominciare a scrivere libri, così aumenta
il suo prestigio». Ma Malaparte intendeva saggi o reportage appena un po'
più forzati degli articoli destinati a un giornale, come aveva fatto lui con
La pelle e Kaputt. La Fallaci si mise invece in testa di fare il romanzo per
il quale, come del resto quasi tutti i giornalisti, è assolutamente
tagliata. La sua enfasi, la sua retorica, le sue tinte forti vanno bene
sulla distanza di un articolo ma trascinate per cinquecento pagine diventano
stucchevoli, intollerabili. Il romanzo vuole le sfumature l'accennato, il
non detto e la Fallaci non conosce questa misura. Ha, semmai, il coraggio
dell'esplicito, che ne è l'esatto opposto. Un uomo è stato un successo ma
Insciallà ha lasciato trecentomila copie in magazzino.
La Fallaci è grandissima in superficie, ma non è profonda. Lei stessa mi ha
confessato di detestare gli autori tedeschi. Goethe in testa (mentre amava
molto la fantascienza colta di Ray Bradbury), e non credo sia un caso.
Professionalmente parlando è un gigantesco utero estroflesso che coglie ogni
dettaglio della realtà, ma non la scava. Del resto, se si va a ben guardare,
la Fallaci migliore è quella che faceva i ritratti dei personaggi dello
spettacolo e del mondo letterario (Mastroianni, la Magnani e lo stesso
Malaparte di cui scrisse, in Morte, il migliore "coccodrillo" e sul tema si
erano (esercitate le più importanti firme del tempo). Mi ricordo, a memoria,
la formidabile chiusa di un'intervista ad Anna Magnani. Si fa chiedere da
Anna: «E allora cosa pensa di me, signora Fallaci?». E risponde. «Penso ch e
lei è un grand'uomo, signora Magnani». La Fallaci che comincia a trafficare
con la Storia è molto meno convincente. Se si va a rileggerle quasi tutte le
interviste risultano sbagliate, sconfessate da ciò che è successo dopo. In
Vietnam prese partito contro gli americani e, nel clima di retorica
anti-yankees di quegli anni, si costrui la sua fortuna. Poi si è pentita, ma
intanto quei pezzi fuorvianti, acritici, scioccamente schierati e
ideologici, li ha scritti. La Fallaci delle ultime interviste, quelle a
Gheddafi e a Khomeini, che sono dei primi anni Ottanta, ha già rotto tutte
le acque. Non sono più interviste. La protagonista è lei nella parte di
Oriana Fallaci che interpreta se stessa, dipingendo personaggi modellati
sulla sua fantasia e sulla sua faziosità e quindi inesistenti. Alla fine si
sa tutto dell'Oriana, ma poco o nulla degli intervistati. Nello stesso
periodo Francesco Frigieri fece, mi pare per Epoca, un'intervista dalla
quale non si cavava niente dell'inter vistatore e pare Gheddafi occhio
dell'intervistato ed era pe! rciò mol to migliore di quella della Superstar.
Perché il giornalismo è questo, vuole anche umiltà.
L'ultimissima Fallaci, quella de la rabbia e l'orgoglio e successivi è
imbarazzante. Si preferirebbe non doverne parlare. È una serqua di
invettive, di anatomi di "ipso dixit" privi di ragionamento. La rabbia non è
un argomento. In questi scritti Oriana si erge, scultorea e invita, come
l'unico, vero baluardo dell'Occidente. Un'autocelebrazione penosa, senile,
quasi comica se non fosse il segnale della dissoluzione di una personalità.
Dell'antica Fallaci sono rimaste solo la prepotenza, la faziosità, forse
l'intuitaccio per ciò che fa scandalo e piace alla gente, ma la cifra della
grande giornalista, che sapeva coniugare magistralmente passione e ragione,
pare perduta. Adesso lo è per sempre. Ma la sua morte, solitaria, dolorosa e
dignitosa, come lei l'aveva sempre sognata e voluta, riportandoci
all'insieme della sua straordinaria attività, ci restituisce anche la
Fallaci migliore...
Massimo Fini (www.massimofini.it)
Fonte: http://www.gazzetino.it
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16.09.06
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