Questo
non è un Paese normale. Se nel terzo millennio, Andreotti
e un trotkista riescono a mettere in crisi il governo di
un membro del G8, è chiaro che non siamo di fronte ad un
paese normale. La sconfitta del Governo e della
maggioranza sulla mozione sulla politica estera, se da un
lato, costituzionalmente, non obbliga a nessuna dimissione
dell’Esecutivo, dall’altro è ovvio che apre una crisi
politica serissima: non si tratta di un voto negativo su
un singolo provvedimento, bensì di un voto
straordinariamente importante, dal momento che si trattava
di valutare la politica estera, non una bubbola qualunque.
E’ una sconfitta che ha molti padri ed una sola madre.
Questa è una legge elettorale pazzesca, una “porcata”,
com’è stata definita dal suo stesso autore in un raro
momento di sobrietà di giudizio, concepita dal Polo con il
preciso obiettivo di rendere instabile la maggioranza che
l’avrebbe cacciato, così da ridurre la sconfitta ad
ingovernabilità di tipo libanese. I padri, invece, sono
variamente allocati nella sinistra cosiddetta “radicale”
che, euforica per uno sbarramento elettorale ridicolo, ha
candidato tutti e tutto, scegliendo in coerenza con la
legge elettorale la via della competizione intestina voto
per voto. Oliviero Diliberto ha scelto di candidare
Fernando Rossi e Fausto Bertinotti ha scelto di candidare
la pattuglia dei Turigliatto and &. I motivi sono
da ricercarsi negli assetti interni di Pdci e Prc,
destinati solo a rafforzare i centri di comando dei
rispettivi segretari.
Lo stesso dibattito sulla politica estera, così come aveva
chiesto D’Alema, avrebbe potuto aver luogo prima e non
dopo Vicenza. Sarebbe stato tutto molto diverso. E lo
stesso Prodi, che in beata solitudine da Sofia ha scelto
di dire “si” all’ampliamento della base di Vicenza,
seguito a poche ore da Parisi che, in altrettanta
solitudine ha detto “si” al proseguimento della presenza
in Afghanistan, hanno incanalato la discussione sulla
politica estera in un binario morto. Binario dal quale la
sinistra non è stata in grado di uscire, risultando
incapace ad aprire una trattativa complessiva con il resto
della coalizione. Comunque, oggi il voto d’aula dice che
la maggioranza del Senato non condivide le linee di
politica estera del Governo.
Ma forse, il problema non è solo la politica estera.
Perché l’irresponsabilità politica di Rossi e Turigliatto,
non è stata decisiva numericamente. Anche un loro voto
positivo non avrebbe evitato la crisi, dal momento che la
loro partecipazione avrebbe portato il quorum necessario a
161 voti, quindi impossibile da raggiungere senza il voto
dei senatori a vita. Il punto, dunque, è capire perché il
senatore Andreotti e Pininfarina, decidano di votare
contro il governo.
Se non ci si vuole nascondere dietro ad un dito, bisogna
ricordare a quali interessi rispondono i due senatori.
Pininfarina è uomo di fiducia assoluta degli Stati Uniti,
dagli anni ’60 ad oggi; Andreotti è uomo al servizio delle
gerarchie ecclesiastiche, dagli anni ’40 ad oggi. E se non
ci si vuole coprire dietro una rappresentazione farsesca
della vicenda, non si può dare credito alle dichiarazioni
del “divino Giulio” quando afferma: “Non credevo che il
governo cadesse”. Nel merito, poi, non è certo sulla
politica estera che Andreotti avrebbe potuto obiettare,
dal momento che la linea scelta da D’Alema -amicizia con
gli Usa ma indipendenza d’azione; collocazione stabile ma
attenzione rivolta agli interessi nazionali - ripercorre
molti dei sentieri di quella politica che proprio
Andreotti ha aperto durante i suoi governi nella Prima
Repubblica. E ancora: perché Andreotti – duro critico
della politica estera berlusconiana – afferma di sentirsi
indispettito dalla rivendicata “discontinuità” di questo
governo?
Il nodo della questione è dunque qui. Andreotti e
Pininfarina hanno scelto, deliberatamente, di mettere in
minoranza il governo. Perché? Perché da un lato sono
“particolarmente sensibili” agli interessi di Vaticano e
Stati Uniti, cioè i due poteri critici nei confronti
dell’operato del Governo. E, nel caso di Andreotti, far
salire sul Colle Prodi con le dimissioni in tasca
significa, essenzialmente, impedire il voto sui Dico, vero
e proprio spettro d’Oltretevere. Il governo viene messo in
minoranza proprio per evitare che si arrivi al ddl sulle
coppie di fatto; disegno di legge che, dopo lo smarcamento
di settori rilevanti del mondo cattolico, segna
l’arretramento della coercizione vaticana sui cattolici e
prefigura la conversione in legge di diritti che la
gerarchia ecclesiastica vede come un attentato al suo
potere d’influenza e d’interdizione, al suo
condizionamento verso governi, parlamenti, società.
Detto questo, non si può comunque tacere che la caduta del
Governo vede pesanti responsabilità anche nei due senatori
“dissidenti”, che non potevano non cogliere la portata
della manovra e quindi del voto e delle sue conseguenze
politiche. L’allargamento della maggioranza sposta verso
destra l’asse dell’eventuale governo. Non ci sono
“equilibri più avanzati”, tanto meno soluzioni “in avanti”
della crisi. Napolitano ha dato il via alle consultazioni,
dalle quali emergerà che Prodi –ammesso che sia lui il
candidato finale alla ricerca di una maggioranza – dovrà
necessariamente incassare l’appoggio dell’Udc o, per lo
meno, di Follini. Un appoggio che non sarà gratuito e
disinteressato. Risulterà invece un ulteriore passo avanti
verso l’assetto moderato del sistema politico e metterà,
inevitabilmente, la sinistra di fronte al
silenzio-assenso, davanti allo spettro di elezioni che
verrebbero perse o, in alternativa, a governi
istituzionali che dovranno preparare la riforma elettorale
per portare il paese al voto e sancire, così, la sconfitta
del centro sinistra con qualche mese di ritardo. Un
quadro, insomma, che vedrà la fine politica della sinistra
capace di governare e condizionare il fronte moderato, che
esce vincente e che mette proprio la sinistra stessa in un
angolo.
Proprio quello dal quale i “dissidenti” ed i gruppi
dirigenti che li hanno espressi, ritenevano di poterla
sottrarre.
Archivio Politica
|